Música

Come allenare la mente alla critica soggettiva nell’era dell’opinione

Vedete questa immagine? Senza alcuna informazione specifica, senza alcun background su di essa, cosa vi trasmette nell’immediato? Posso darvi tre differenti opzioni.

  • Ho creato un algoritmo prestabilito che modella intersezioni lineari sempre uguali.
  • Ho scarabocchiato dei cerchi senza alcuna logica su un foglio di carta, oggi pomeriggio.

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  • Ho riprodotto questo disegno allo stesso modo per migliaia di volte. Ho dedicato tutta la mia vita a cercare di farlo alla perfezione.

Queste parole sono un estratto della Lecture tenuta da Brian Eno all’Edinburgh College of Arts, all’interno del programma annuale The Andrew Carnegie Lecture Series, durante il quale ospiti del mondo dell’arte, da tutto il mondo, discutono e interagiscono con gli studenti su decine di temi diversi.

L’assunto dal quale parte Eno, per arrivare a questa figura – che, ve lo possiamo già svelare, altro non era che uno schizzo di cerchi privi di alcun senso, preparato da lui stesso poco prima di salire sul palco – è che il contesto genera l’oggetto. Il ruolo della percezione concettuale, più di qualsiasi cosa, agisce nella nostra mente a livello inconscio e su scala rilevante, andando a parametrizzare ogni flusso emozionale che ci si presenti davanti. E questo accade anche, e soprattutto, nell’arte.

Quando ci troviamo di fronte a un’opera, non riceviamo soltanto ciò che ci comunica nell’immediato, ma anche tutto ciò che la sua storia rappresenta. A livello inconscio, tutto ciò che abbiamo conservato nella nostra esperienza gioca di volta in volta un ruolo fondamentale nello specifico lavoro di destrutturazione di ciò che stiamo metabolizzando cerebralmente: esprimiamo la nostra reazione in base a ciò che sappiamo di noi stessi, prima di farlo in relazione a quello che il nuovo ci trasmette. E questo vale per qualsiasi tipo di prodotto creativo, di linguaggio, di opera.

Vale anche per le relazioni interpersonali, per le abitudini e gli stili di vita, per il modo di fare e per come incameriamo le informazioni. Quel backup, di volta in volta, avrà abbastanza peso specifico da generare autonomamente la nostra sensazione, proiettandoci il sapere interiore prima e correggendo il giudizio dopo. L’arte entra in gioco a un livello ben stabilito nella nostra mente, ma è bene sapere che lo fa in base a come la mente plasma e perfeziona il suo ruolo all’interno della nostra struttura comportamentale.

Vediamo e percepiamo tutto, sempre, rispetto a quanto ci ha insegnato il passato, e mai con occhi o orecchie vergini. Persino il nostro senso del gusto, parlando dell’arte culinaria che oggi va tanto di moda, ha un canone ben fisso di opzioni dalle quali non riusciamo talvolta ad uscire.

Finanche i mostri sacri che hanno segnato la storia hanno raccontato la vita su basi di un certo tipo. Da Platone ad Aristotele, da Schopenhauer a Kant, le divisioni corpo/anima e ragione/passione hanno evidenziato una scala di valori da cui nessuno può separarsi. La gerarchia mentale del potere e dell’ordine delle cose, che influenza la filosofia morale ma anche la distribuzione dei ruoli nella vita, è uno spazio astratto dove quei codici programmano il modo in cui l’intelligenza creativa di ciascuno si muove.

Quella del “metro di giudizio” è, quindi, un’illusione. Tutta l’arte passa, già prima di venire elaborata dal nostro pensiero, per un filtro che l’esperienza pone a metà strada tra l’oggetto e la nostra percezione. Forse non tutti sanno che la critica musicale non esiste da sempre, ma da soli due secoli. Prima, il compositore era un’entità ben distinta dalla comunità per estro, genio, intelletto e ruolo sociale. Ciò causava effetti positivi ma anche incomprensioni dovute alla rigidità del sistema. L’artista non aveva possibilità di sbagliare, perché quello era il suo mestiere, altrimenti non poteva ritenersi tale.

E infatti Beethoven fu incompreso dai più, che definirono blasfemo e insensato il suo modo di pensare e architettare una musica dai concetti destabilizzanti e pericolosi. Il talento folgorante e fuori logica di Mozart, allo stesso modo, fu riconosciuto solo a distanza di tantissimo tempo, così distante da una concezione umana di realtà (in parole povere, tanto bravo da risultare disumano). È proprio in quel periodo che entra in scena la critica: chi ascoltava, e poteva permettersi di assistere con una certa regolarità ai concerti di quel genere, sentì la necessità di parlare di quell’esperienza così incredibilmente diversa da ciò che l’aveva segnato fino ad allora. Con il tempo, il critico diventa una figura professionale, che tenta di educare il resto del pubblico rispondendo a un bisogno: il bisogno di capire, di stabilire cosa si deve pensare riguardo a ciò che si sta ascoltando. Ma è possibile educare all’arte? Torniamo indietro e rilanciamo i dadi.

In futuro, potremmo anche scoprire che Kid A è uno degli album più brutti dei Radiohead, o della storia moderna della musica. Forse non abbiamo semplicemente gli strumenti adatti a capire perché. O, anche, che l’ultima versione di Björk è un irresistibile ritratto della società, molto più significativo e concreto dei suoi sfavillanti esordi (che per la critica dei più rimangono irraggiungibili). Ma qual è la verità, nell’arte? Esiste perché riusciamo a stabilirla o forse perché ci imponiamo di ottenere delle risposte?

Qualche giorno fa, su queste stesse pagine, il nostro collega Drew Millard menzionava proprio questo concetto, focalizzandosi sulla critica musicale. Esiste un modo per capire come fare una recensione oggettiva, come dare un giudizio che sia inoppugnabile, in questo secolo? E se sì, da cosa dipende? Millard parla di “cervello critico”, che deve stare essenzialmente a metà tra l’impulsività del gusto e la lucidità di un pensiero asettico. Se ci sforziamo di imparare sempre qualcosa che il nostro orecchio (o occhio, o qualsiasi cosa) non conosce, finiremo per immagazzinare puro combustibile per i nostri futuri spazi culturali, per i nostri dibattiti, per la conoscenza. Non è così che ha sempre funzionato la filosofia? Ci siamo veramente vicini.

Quello che dice Eno è che oggi, probabilmente, avere a che fare con un elemento totalmente fuori dal contesto in cui ci troviamo è quasi impossibile. Sarebbe riduttivo pensare che i nostri giudizi e pensieri siano per la stragrande maggioranza qualcosa di postumo a ciò che abbiamo letto, visto, ascoltato in precedenza, ma a grandi linee è così. Se in fondo oggi è tutto “post” – rave/punk/ambient o qualsivoglia – è perché in passato ci siamo inventati delle parole specifiche. Non ne stiamo coniando di diverse, le stiamo riciclando. Con il risultato che con ogni probabilità sempre più spesso esisteranno definizioni di generi prima ancora che siano nati artisti in grado di dimostrare che il loro stile vi corrisponda.

Ebbene, è facile capire che no, non esiste una realtà oggettiva, ma al suo posto esiste un’ideologia, una cultura che serve a generare i pensieri, le idee, gli interessi che ci muovono come carburante. Ma la cultura rimarrà sotto il controllo della nostra reazione, quasi allo stesso modo con cui la scienza investiga e tenta di definire le leggi che regolano il mondo. E se l’arte all’interno di questo schema controllato ha la possibilità di destabilizzare, saremo sempre noi a decidere in che misura, fino a che stadio sarà possibile. Non si scappa.

Eno parla di extended brain, un prolungamento della coscienza che sfrutta ogni genere di esperienza che l’arte è in grado di sottoporre all’artista così come al fruitore. Però, a scanso di equivoci e di dover ribaltare tutto quello che precede quest’affermazione, la legge non scritta – eppure così necessaria – rimane quella secondo cui la soggettività altrui funziona come metro per ogni eccezione. Nell’epoca dell’internet globalizzato, dei social e delle stelline delle review, tutto questo non fa che gonfiare e saturare l’ambiente, lasciandoci in balia della preoccupazione comportamentale. Cos’è per me l’arte? Cosa mi sento di dire su questo album, su questo film, su questo quadro? Che emozioni provo?

Uno status, una critica, un giudizio ci lega a qualcosa più che alla nostra vera opinione. Se non avessi visto Jiro Ono su Netflix, l’altra sera, non avrei sicuramente concesso al sushi un’altra possibilità, perché la mia abitudine mi dice che non mi piacerebbe affatto. E, per spostarci sul cinema, se Black Mirror 4 fosse la prima stagione di Black Mirror, molti di noi non l’avrebbero sicuramente discussa così appassionatamente, perché non potevano paragonarla a quanto la loro esperienza della serie finora ha insegnato loro.

L’arte è una cosa seria, delimita un ambiente completamente a sé, difficilmente inquadrabile in un’opinione. Un territorio in cui non avrebbero senso di esistere domande come: “Come devo comportarmi?” o “Cosa è bene per me e cosa lo è per gli altri?”. Ma c’è sempre tempo per andare oltre e allenare la mente a ricevere informazioni nuove, che cambiano, che destabilizzano, che formano. Almeno ci si può provare.

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