"Sapevo che sarei morto" - Com'è vivere con l'ansia patologica
Illustrazione di Benedetta Claudia Vialli.

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"Sapevo che sarei morto" - Com'è vivere con l'ansia patologica

"C'è un punto in cui l'ansia normale diventa patologica. È qui che inizia il Dopo, che per me è stato questo 2016. Non so spiegare esattamente perché, ma ho oltrepassato il limite."

Avevo quattro o cinque anni. Mia sorella più piccola era ancora nella culla. Io stavo masticando un chewing gum trovato nella borsa della tata, perché i miei genitori non ne erogavano così, e anzi mi avevano ripetuto migliaia di volte, "Non ingoiare i chewing-gum." Perché?, mi chiedevo. È una caramella, si ingoierà come tutte le altre. "No, fanno malissimo." Ecco, ne stavo masticando uno e a un tratto un movimento involontario dell'epiglottide mi fece ingoiare quella pallina gommosa. "Ma-lis-si-mo," l'avevano anche scandito. La situazione era grave. Così, da un momento all'altro, compresi che stavo per morire. Non mi scomposi più di tanto, però: non cominciai a piangere, non chiamai disperato invocando aiuto. Se internamente ero devastato per la mia totale disattenzione—come avevo fatto a fare una cosa così terribile decretando indubitabilmente la mia fine?—esternamente mantenni una compostezza statuaria.

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Non dovevo far altro che congedarmi dal mondo: mi affacciai sulla culla della mia sorellina ignorando la tata e la salutai come pensavo si salutasse una persona per sempre, come credevo fossero gli addii. Poi mi distesi sul letto, in posizione sarcofago, con le braccia incrociate sul petto. Sapevo che quello era un momento definitivo della mia seppur breve esistenza—volevo dargli un certo tono, un po' di teatralità. Rimasi così, immobile. In attesa che succedesse. Perché io non credevo di morire, io sapevo che sarei morto. Ovviamente, non successe nulla.

Ecco, la differenza tra me e qualsiasi altro bambino che abbia vissuto un'esperienza simile sta proprio in quella certezza di ineluttabilità che mi porto dietro ancora oggi. Oggi che ho 26 anni, e da uno so di soffrire di un disturbo d'ansia generalizzata. Non che mi sia venuto adesso, attenzione: è che ora so di esserne patologicamente affetto. Questo perché Lei, l'ansia, c'è sempre, ma nella patologia esiste un Prima e un Dopo.

Prima, pensavo di non avere alcun problema. Stando a quanto dicono gli studiosi, esiste un'ansia normale, una condizione normale della mente presente in quasi tutti. Ecco, nel mio Prima c'era quell'ansia normale: sono sempre stato una persona che il mondo identifica come genericamente nervosa e ansiosa—uno che arriva due ore prima all'aeroporto, cerca di programmare tutto il programmabile, che odia quando per calmarti ti dicono "stai calmo".

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Ma in passato tutto questo non mi ha mai creato particolari problemi. Anzi, sembravo trarne più benefici che altro. L'ansia normale è una reazione preformata nella specie, che consente di utilizzare al meglio le proprio capacità psicofisiche. Avrebbe addirittura uno scopo evoluzionistico, avendo conservato funzioni adattive. E infatti, forse, questa reazione preformata collaborava nel farmi passare liceo e università con il massimo dei voti, a spingermi a voler sempre essere il migliore.

Arrivato a 26 anni mi concedo un poco di indulgenza, e mi piace pensare che sia sempre a causa di quell'ansia normale che oltre a voler essere sempre il migliore avevo anche il continuo bisogno di dimostrarlo: gli aggettivi che mi hanno maggiormente connotato nel corso della vita sono infatti egocentrico, egoista, arrogante, saccente, presuntuoso, narciso, snob. E sempre in questa parentesi di autoindulgenza mi piace credere che a fare andare in frantumi le mie relazioni sentimentali sia stata l'ansia, come certezza che sarebbero finite.

Ma c'è un punto in cui l'ansia normale diventa patologica. È qui che inizia il Dopo, che per me è stato questo 2016. Non so spiegare esattamente perché, ma ho oltrepassato il limite. Forse è stato il trovarmi definitivamente a confronto con il mondo adulto—quello in cui non devi più chiedere i soldi a papà, quello in cui lavori, hai dei compiti, delle responsabilità, il tuo capo è il tuo capo e non importa che tu non concordi. Fatto sta che, a un certo punto, mi sono ritrovato con una diagnosi.

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Ovviamente non ci sono arrivato subito, perché la cosa buffa è che l'ansia è una patologia davvero infame. Può essere tutto e niente. Può manifestarsi con sintomi (insonnia come panico, disturbi gastrointestinali come pollachiuria) assimilabili a qualsiasi altra patologia non solo psichiatrica, ma anche medica. Così nell'ultimo anno ho cominciato a dormire meno di quanto già non facessi, poi a non dormire nulla. Ad avere mal di pancia sempre più frequenti, a essere irritato e nervoso, tutto accompagnato da emicranie continue e pressanti, e una stanchezza fisica apparentemente immotivata che mi portava a chiudermi in casa senza voler fare altro che stare sul divano.

In sei mesi—coadiuvato da una certa ipocondria congenita, che insieme all'ansia badaboom—mi sono sottoposto a: tac e risonanza magnetica per accertarmi che non avessi un tumore in testa, ecografia gastroscopia e colonscopia per essere sicuro che il tumore non fosse nell'apparto intestinale, svariati esami del sangue perché convinto di avere una qualche patologia ematica, esami allergologici, esami per le malattie sessuali—superando anche l'idea del tampone uretrale—ecografie ai genitali, e infine una sfilza di due pagine di esami per accertare di non essere ipertiroideo— è più giusto dire "per accertare di essere" perché ero convinto che, essendo negativi tutti gli altri test, fossi senza alcun ombra di dubbio ipertiroideo. E invece no. Allora non mi è rimasto che ascoltare chi mi diceva: "Giusè, trovatene una brava." Anche perché, a quanto pare, nel frattempo ero arrivato a quello che nel gergo comune si chiama breakdown. Ed eccomi quindi in terapia e con il mio caro aiuto farmacologico, nello specifico di una serie di ansiolitici e soprattutto della roba che mi fa dormire.

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Secondo il Diagnostic and Statistical Manual on Mental Disorder - Fifth edition (DSM-5), la bibbia degli psichiatri redatta dall'American Psychiatric Association, si possono innanzitutto distinguere quattro tipologie e cause di disturbi d'ansia: ansia da separazione, mutismo selettivo, ansia data da una fobia specifica e ansia sociale. Ciascuna di queste ha una sua diagnosi, fattori di rischio, statistiche e ramificazioni che sinceramente penso si possano ricondurre a qualsivoglia malessere umano nel mondo.

Ma io non credo di aver vissuto traumi devastanti. Ho sempre avuto una famiglia unita e amorevole—nessuna separazione, nessuna fobia, nessun intoppo economico. E questo esclude in buona parte le quattro opzioni. C'è però una patologia che il DSM-5 indica come sindrome specifica: l'ansia generalizzata. Ed è lei la madre di tutte le mie bestemmie. La sua definizione è: "stato emotivo a contenuto spiacevole associato a condizione di allarme e di paura che insorge in assenza di un pericolo reale e che comunque è sproporzionata rispetto ad eventuali stimoli scatenanti." Non c'è un trauma primordiale a cui fai risalire tutto, non c'è un unico e univoco motivo.

Con quel reale non si intende impossibile. Il giochino sta tutto qui. Lo stato di allerta è appunto generico, costante, battente. Nella testa comincia un rimuginare infinito che non ti abbandona mai. È anche difficile da decifrare. Eppure lo senti e continui a sentirlo, sempre. Questo stato mentale diventa il tuo livello zero, nel senso della tua normalità. Poi ci sono i picchi. Basta il minimo stimolo per passare dallo zero al livello infinito nello stesso tempo in cui la Ferrari passa da zero a 100 km/h.

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Durante le sedute di psicoterapia viene sempre il momento in cui la mia analista mi chiede: "Cos'è questa ansia?" In che senso dottoressa? "Me la descriva, emotivamente." Io non so mai cosa rispondere. L'unica cosa che riesco a fare è attingere al campo dei fenomeni meteorologici—"è un insieme di cumulonembi che avvolge tutto"—e poco altro. Oppure comincio a raccontarle le cose che mi succedono. Tipo questa.

Qualche mese fa ero a una festa organizzata da amici. Era una grande festa, che aspettavo da tempo. Sapevo che mi sarei divertito, anzi, che mi sarei dovuto divertire. Sì perché l'ansia generalizzata è così, non tocca solo le cose potenzialmente spiacevoli. Lo vivevo come un obbligo. Così arrivo alla festa con uno stato emotivo già livello uno—bruciori allo stomaco, che come sempre penso bene di curare a gin tonic. Quindi sono alla festa e mi diverto, mi sto divertendo. Saluto gente chiacchiero con persone bevo ballo. Prendo un altro gin-tonic.

Ed eccolo lì, nella fila al bancone, tra un ragazzo troppo sudato e una bella ragazza la cui borsa continua a urtarmi il gomito facendomi girare ogni volta convinto che qualcuno mi stia chiamando. Eccolo lì, lo stimolo. L'impulso: le chiavi di casa. Comincio a pensare che ho lasciato le chiavi di casa nel motorino, che il motorino è davanti all'ingresso, che potrebbero rubarmi il motorino, anche se è legato con la catena. Che se mi rubano il motorino amen, ma ho le chiavi dentro il motorino. Allora Giuseppe vai, esci, prendi le chiavi di casa e torna dentro. Vai dai. No? Vabe' ma chi te lo tocca il motorino, e poi la devi smettere di essere sempre così ansioso. Nessuno ti toccherà il motorino. Sì, ma se poi? Se lo aprono? Se prendo le chiavi di casa? Se succede—no, non succede—sì, ma se succede, perché può succedere, è statisticamente possibile che succeda, ti toccherà sorbirti una serie di sbatti infinita, che inizierà col dover dormire da qualche altra parte e continuerà con la sostituzione della serratura, l'esborso di denaro… ed è notte, sei al quinto (forse sesto) gin tonic e cazzo, mi sto divertendo.

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A questo punto una persona senza ansia generalizzata patologica avrebbe percorso quei 50 metri che la separavano dal motorino, avrebbe preso le chiavi di casa, le avrebbe messe in tasca, e sarebbe tornata dai suoi amici. Ma io no. Anche perché una volta oltre il livello zero, è tutta una discesa verso l'angoscia più totale. E non solo, l'ansia cambia obiettivo come la pallina di un flipper.

Ora non sono più le chiavi il problema. Come spiego agli altri che sto uscendo a prendere le chiavi di casa perché l'ansia mi mangia vivo? E poi se esco, quando rientrerò mi toccherà andare a cercare i miei amici e amiche, quindi dovrò affrontare un'infinita serie di secondi da solo, circondato da persone che si divertono. E io, non mi diverto più.

Sono rimasto alla festa continuando a pensare queste cose per più o meno mezz'ora. Ho bevuto dell'altro gin tonic, ho ballato ancora. Ma la musica la sentivo poco. Sentivo solo: cazzolechiavicazzolechiavicazzolechiavi.

Me ne sono andato. Ho raggiunto a passo spedito il motorino, sempre senza scompormi—perché gli Altri non devono capire che te la stai facendo addosso per l'ansia—ho aperto il sottosella, ho preso le chiavi di casa e le ho messe nella tasca destra del giubbotto. Ho tolto la catena, messo in moto e mi sono avviato verso casa. Lungo il tragitto ho controllato una decina di volte che le chiavi non mi fossero cadute dalla tasca destra. E anche il portafoglio, che fosse ancora nella tasca interna a sinistra—e se avessi perso il portafoglio alla festa, i soldi i documenti le carte la mia vita?

Ecco com'è vivere con l'ansia generalizzata. C'è lei, e ci deve essere solo lei. Lei è tutto. Come dice la definizione, il pericolo non è reale. Ma, dico io, è possibile, e anzi, stando alla legge dei grandi numeri, è statisticamente certo. Quindi sono ancora lì, sul mio lettino con le mani incrociate come un faraone egiziano. Aspetto. Non credo che morirò. So che sarà così. Sta tutto nel capire quando.

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