Mark Galeotti si occupa di Russia da sempre. Nato in Gran Bretagna, è uno storico esperto di criminalità internazionale, scrive regolarmente per il Moscow Times e attualmente vive a Praga. Il suo interesse per la malavita e la criminalità organizzata è nato nel 1988—poco prima della caduta del Muro di Berlino—mentre lavorava a una tesi di dottorato sull’Unione Sovietica.
Per i suoi studi, Galeotti incontrò i veterani del conflitto sovietico in Afghanistan, una prima volta poco dopo il loro rientro in patria, e poi un anno più tardi, per verificare se si fossero effettivamente reintegrati nella società. Mentre alcuni erano riusciti a riadattarsi, Galeotti osservò come un numero sempre crescente si muovesse nell’ombra, lavorando per uomini d’affari sospetti e vivendo dei sussidi statali. L’idea che la criminalità organizzata potesse proliferare in quello che, al tempo, era uno Stato di polizia, aveva subito affascinato Galeotti. Ne era emersa una verità piuttosto banale, a posteriori: anche se non la vedi alla luce del sole, non significa che la malavita non esista.
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Il risultato degli studi di Galeotti è The Vory: Russia’s Super Mafia, uscito per la Yale University Press. Nel libro, Galeotti indaga le origini profonde del fenomeno dei vor-v-zakone [ladri-nella-legge], analizza la sua ascesa in concomitanza al crollo dell’URSS e cerca di spiegare come valori e pratiche di questo movimento abbiano influenzato la Russia moderna.
L’ho chiamato per fare due chiacchiere su una storia che, anche per un appassionato di criminalità organizzata come me, è ricca di episodi bizzarri e sorprendenti.
VICE: Una cosa che mi ha affascinato del tuo lavoro è l’ampio arco temporale. Puoi parlarci di come i gulag di Stalin siano stati la culla dei futuri ladri-nella-legge e abbiano gettato le basi per quella che sarebbe poi diventata la mafia russa?
Mark Galeotti: Una malavita c’era già anche prima, era il cosiddetto Vorovskoy Mir, il ‘mondo dei ladri’. Avevano i tatuaggi e uno slang tutto loro, ma è stata l’esperienza di essere catapultati in questo orrore che erano i gulag, i campi di lavoro a innescare la miccia. Stalin voleva gestire i campi al minor costo possibile, quindi propose un accordo ai vory: collaborare con lo Stato avrebbe significato avere vita più facile [nei gulag].
Stalin aveva già lavorato con i malviventi prima della rivoluzione, organizzando rapine in banca e altre azioni illegali per raccogliere denaro volto a finanziare i rivoluzionari bolscevichi. Nel gulag li rese membri della sicurezza e capigruppo incaricati di far lavorare i prigionieri politici. Ora, questo significava per i vory andare contro uno dei principi fondamentali del proprio antico codice, cioè non collaborare mai e poi mai con le autorità.
Eppure molti di loro pensarono che fosse un buon accordo e così diventarono i cosiddetti sukas, ovvero “puttane” agli occhi dei tradizionalisti. Per tutti gli anni Trenta e Quaranta, i due gruppi criminali che si generarono da questa scissione non interagirono affatto. I collaborazionisti sapevano che era meglio non infastidire i tradizionalisti, e i tradizionalisti sapevano che se avessero messo i bastoni tra le ruote ai collaborazionisti, lo Stato gli si sarebbe schierato contro.
Io sono stato in carcere, e una situazione analoga era sempre sull’orlo di esplodere. Che è esattamente quello che è successo lì, giusto?
Dopo la Seconda Guerra Mondiale, gli equilibri di potere mondiali erano cambiati. C’erano sempre più prigionieri, e la guerra fredda tra i due gruppi di detenuti non poteva continuare a lungo. È lì che si scatenò la violenza, una sorta di guerra civile tra i vory che si combatté all’interno del sistema dei gulag tra la fine degli anni Quaranta e l’inizio degli anni Cinquanta—uno scontro sanguinoso con linciaggi e armi improvvisate. Alla fine i collaborazionisti ebbero la meglio, in parte grazie al sostegno dello Stato.
Nel 1953 morì Stalin e furono aperti i gulag. Tutti i criminali erano ora a piede libero—compresi questi collaborazionisti—e si infiltrarono nella malavita sovietica. Era un concetto tutto nuovo di vorovskoy mir, e il loro codice più o meno era: “Siamo gangster, siamo uomini duri, abbiamo la nostra cultura, il nostro codice e le nostre cose. Ma lo Stato è potente e vale la pena collaborare—quando è nel nostro interesse.”
Parliamo dei giudici, i leader locali, le ‘cupole’ del mondo criminale. Non si trattava necessariamente di gangster, ma di persone che sapevano risolvere le dispute e dettare legge, nel vero senso della parola. Era fondamentale, perché tutte le organizzazioni mafiose devono trovare il modo per risolvere le dispute. Che si tratti di Cosa Nostra o altro. I russi avevano scelto i criminali più rispettabili e li avevano insigniti del ruolo di giudici.
Perché con il crollo dell’URSS le file di questi malviventi si sono ingrassate in modo così significativo?
Improvvisamente, era nato uno Stato nuovo. In passato la Russia era dominata dal Partito Comunista e l’economia era pianificata e centralizzata: ora invece era una democrazia con il mercato libero capitalista. Nessuna delle vecchie regole valeva più. È stata una fase di caos tptale. Dal punto di vista della criminalità organizzata, un’opportunità imperdibile.
Tutte le gang che fino ad allora erano rimaste nell’ombra, per paura dello Stato e del KGB, potevano finalmente uscire allo scoperto. Potevano arrivare a tutto: industrie, beni, proprietà, controllo del territorio. Non c’erano linee di demarcazione, non esistevano poteri superiori e la violenza era ovunque. Era una lotta aperta tra le gang a chi si aggiudicava il bottino più ricco.
Da questa sorta di caos darwiniano emersero una decina di alleanze principali. Non erano gang nel vero senso della parola—ovvero, non erano famiglie criminali con un unico padrino—ma alleanze tra gang minori. Erano le gang di Mosca contro tutti. Si consideravano l’élite, avevano molti più soldi e potere degli altri. Verso la fine degli anni Novanta iniziarono a definirsi le prime spartizioni di potere. Le aree di influenza erano già state stabilite ben prima che Putin salisse al potere.
Una differenza sostanziale, mi sembra, tra i vory e la mafia americana è la loro influenza nel paese. Gli americani spesso amano i film di mafia e i Soprano, ma i russi sembrano essere al livello superiore, in cui i valori, i codici e le pratiche del crimine organizzato hanno influenzato l’intero paese. Come spieghi questo fenomeno?
I vory furono tra i principali fautori del nuovo sistema politico ed economico negli anni Novanta. Diciamolo: la Russia è amministrata da gente che ruba a sinistra, a destra e al centro. È una ‘cleptocrazia’. Solo che non lo fanno nella maniera tradizionale a cui siamo abituati noi, minacciando le persone agli angoli della strada. Lo fanno attraverso appalti statali e accordi corrotti. È qui che si verifica la principale sovrapposizione tra come operano i gangster e come opera l’élite. I confini tra i due sono davvero labili.
Il capitalismo è emerso nel bel mezzo di una guerra tra mafie in Russia, e l’idea di fondo era soltanto fare più soldi possibili. Sappiamo che il capitalismo per funzionare si basa su istituzioni, stato di diritto, diritti di proprietà e fiducia nel sistema. Ma i russi non la vedevano così. A loro interessavano i soldi, e quando ti interessano solo quelli, ci sono tantissimi metodi criminali che possono risultare interessanti. C’è una diffusione sorprendente di metodi come ricatto ed estorsione come strategie di business in Russia.
Quello che viene considerato normale e accettabile all’interno della classe politica e imprenditoriale è molto influenzato dalla normale strategia secondo cui le leggi non contano nulla—perché tanto quello che conta è il risultato. Potrei affermare quasi che ogni uomo d’affari russo sia un truffatore. I vory erano tra i principali stakeholder—i padri fondatori della Nuova Russia. Non dovrebbe sorprendere, quindi, che i loro valori siano oggi così radicati.
Vladimir Putin è spesso accusato di avere a che fare con criminali finanziari di ogni tipo— ma, a dispetto dei suoi trascorsi con i malviventi, ha sempre tenuto in scacco i vory. Come è possibile?
Quando Putin era consigliere comunale a San Pietroburgo, verso la metà degli anni Novanta, il suo lavoro era tenere i contatti con tutti, stranieri, uomini d’affari o organizzazioni criminali. Doveva fare in modo che tutto filasse liscio in città. Era in contatto anche con Vladimir S. Barsukov, detto “il Governatore della notte”. L’idea era che, alla luce del giorno, il potere fosse in mano alle autorità ufficiali, mentre con il calare delle tenebre era Barsukov ad avere il controllo della città. Subito dopo, la carriera di Putin decollò, andò a Mosca, diventò Primo Ministro e poi presidente.
La cosa in sé non sarebbe stata un problema se Barsukov avesse rispettato i suoi limiti, se fosse stato alle regole del gioco. Il problema era che, a un certo punto, era troppo visibile ed era diventato imbarazzante per Putin. Era come uno scheletro nell’armadio che si metteva a camminare per la stanza. Così, nel 2007, decisero di liberarsene. Barsukov fu prelevato dalla sua abitazione, arrestato e trasportato a Mosca. Volevano lanciare un segnale forte: non importa quanto sei importante, lo Stato è tornato, è potente e se vuole può sbarazzarsi di chiunque.
Tu descrivi la Russia come una cleptocrazia, in cui non c’è distinzione tra criminalità, politica e applicazione della legge. Cosa significa questo per il futuro dell’America e del mondo intero?
Questo è un problema perché la Russia è tra gli attori principali nella politica e nell’economia globale. La cleptocrazia russa e il legame stretto tra il Cremlino, le aziende e la criminalità organizzata significa che la Russia può influenzare gli altri paesi diffondendo queste pratiche scorrette. Putin, di fatto, sta cercando di utilizzare la criminalità organizzata russa contro l’Occidente.
Le organizzazioni criminali russe sono già state utilizzate per uccidere i suoi nemici, raccogliere dati d’intelligence, portare spie oltre il confine e finanziare Putin, offrendo supporto a determinati canali d’informazione vicini al presidente, e noti per la disinformazione che praticano regolarmente.
Sono tutti problemi molto seri, ma un briciolo di speranza resta. C’è una lenta ma crescente pressione sulla Russia perché cambi. La popolazione è stanca della corruzione e l’élite è diventata più potente dei gangster, che ormai sono fonte d’imbarazzo. Non penso, però, che assisteremo a questo cambiamento finché Putin rimarrà al Cremlino, ma dopo la sua dipartita succederà, che sia tra due anni, sei o molti di più. C’è una discreta possibilità che inizi una lenta lotta al crimine organizzato. Ma per ora, rimane un problema per tutti noi.
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