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Come una parte di America si sta opponendo all'America di Trump

Dalla società civile alle multinazionali, come si sta comportando chi critica la presidenza Trump.
Foto di Chris Bethell.

Se l'andazzo è quello che si è visto in questo inizio di mandato, probabilmente in questi anni di presidenza Trump dovremo ridimensionare il nostro concetto di "belle notizie dagli USA" e a imparare a trovare risvolti positivi anche all'interno di contesti in cui di positivo, fino a qualche settimana fa, non avremmo visto assolutamente nulla.

Per esempio, in uno degli effetti della presidenza Trump: l'attivismo che dal 20 gennaio contraddistingue l'America, e che è emerso in modo palese in reazione al Muslim Ban—l'ormai famoso ordine esecutivo con il quale Donald Trump ha bloccato temporaneamente l'ingresso negli Stati Uniti alle persone di sette paesi a maggioranza musulmana e che sospende le procedure di asilo per tre mesi. Da allora, infatti, si parla sempre più spesso di movimento di resistenza anti-Trump, e addirittura della formazione di un Tea Party di sinistra.

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Ovviamente, come la storia recente degli Stati Uniti dovrebbe averci insegnato, il fatto che gli aeroporti si siano riempiti di persone che manifestavano contro Trump non vuol dire che questo sentimento si respiri in tutto il paese. Nonostante l'ultimo sondaggio della Gallup individui in Trump il presidente che più velocemente nella storia è sceso sotto il 50 percento di consenso, gli Stati Uniti rimangono il paese che poco più di due mesi fa lo ha eletto, e altri dati mostrano che solo la metà degli americani è in disaccordo con il Muslim Ban.

Tuttavia, è innegabile che la presidenza di Trump, e il suo atto massimo, il Muslim Ban, abbiano creato una mobilitazione inedita e a più livelli.

Società civile

Le proteste nei confronti di Trump sono cominciate fin dalle ore successive al suo insediamento. Durante il suo discorso, infatti, mentre a Washington cominciavano a montare le polemiche sulla poca partecipazione e le manifestazioni anti-Trump sfociavano in violenza, diverse città americane si preparavano alla Women's March che si sarebbe svolta il giorno dopo.

Se inizialmente la manifestazione era contro la presidenza Trump in generale, ha assunto in seguito obiettivi più precisi, concentrandosi sulle minoranze e sui diritti delle donne.

L'evento è giunto a conclusione di una settimana in cui manifestazioni spontanee contro il presidente neo-eletto si sono svolte continuamente in tutti gli Stati Uniti—addirittura a New York sembrano essere così frequenti che manca lo spazio per accoglierle.

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Ma una nuova ondata di partecipazione è giunta sabato, in risposta al Muslim Ban e alle prime conseguenze a cui questo ha portato.

Mentre infatti moltissime persone rimanevano bloccate nei paesi di origine e molte altre venivano fermate al loro arrivo negli aeroporti statunitensi, gli aeroporti delle maggiori città diventavano scenario di proteste in cui i cittadini statunitensi esprimevano la loro contrarietà al blocco e la solidarietà alle persone che ne erano rimaste colpite. Oltre ai manifestanti, negli aeroporti erano presenti avvocati e attivisti di diritti umani che mettevano a disposizione il loro aiuto e si organizzavano per portare avanti le prime azioni legali.

Istituzioni

Una risposta decisa è venuta anche dal mondo accademico—dove, considerando solo gli studenti, gli stranieri rappresentano circa il 10 percento degli iscritti all'università.

Al di là delle petizioni lanciate fin dalle prime ore, sono stati poi in molti a porre l'attenzione sul tema dei ricercatori stranieri, che formano una parte importante del mondo accademico statunitense e la cui esclusione potrebbe rappresentare una grossa perdita, soprattutto per per il settore scientifico.

Tra le università che hanno condannato il Muslim Ban, oltre alle Ivi League quali Yale e Princeton e a altri college come la University of Michigan e la University of Pennsylvania, c'è il caso di Harvard—dove due studenti sarebbero rimasti bloccati fuori dagli Stati Uniti. In una lettera aperta pubblicata domenica, la direttrice ha espresso la sua preoccupazione per il futuro degli studenti e ribadito l'importanza degli stranieri per le università statunitensi.

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Multinazionali

La protesta non ha riguardato solo la società civile e il mondo istituzionale. Da subito, una lunghissima lista di aziende si è schierata contro il Muslim Ban—in moltissimi casi non limitandosi a comunicati o dichiarazioni ma facendo seguire alle parole i fatti.

Starbucks, per esempio, è stata una delle prime—scatenando le critiche di molti consumatori che ne hanno annunciato il boicottaggio. In una lettera aperta allo staff, il CEO dell'azienda, Howard Schultz, che già durante la campagna elettorale si era schierato con Hillary Clinton, ha comunicato la volontà di voler assumere, in reazione al Muslim Ban, 10mila rifugiati nei prossimi cinque anni, in tutti i 75 paesi in cui l'azienda è attiva.

La reazione più corale è stata probabilmente quella delle aziende della Silicon Valley che, con pochissime eccezioni, hanno fin da subito preso posizioni molto nette. Del resto, non si tratta di un caso: la California è lo stato che nell'ultimo anno ha accolto il maggior numero di rifugiati siriani, e la maggior parte dei permessi di lavoro rilasciati agli stranieri sono stipulati nell'ambito della tecnologia.

Google, nella giornata di sabato ha annunciato che 100 suoi lavoratori sarebbero stati direttamente colpiti dal Muslim Ban—e si è assicurata di offrire assistenza a coloro che, tra quei 100, si trovavano fuori dagli Stati Uniti.

Lo stesso giorno, i dipendenti di Google di tutto il mondo hanno scioperato in segno di solidarietà con le persone colpite dall'emendamento, e nella serata di sabato Sergey Brin, CEO di Google e i cui genitori sono scappati dall'Unione Sovietica, si è unito alle proteste che avevano luogo all'aeroporto di San Francisco, spiegando la sua presenza con il fatto di essere lui stesso "un rifugiato".

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Brian Chesky, CEO di Airbnb, ha invece annunciato che l'azienda avrebbe offerto alloggio gratis a chiunque fosse stato colpito dal blocco di Trump.

Quanto a Uber, se allo scoppiare delle proteste il CEO Kalanick si era espresso su Facebook contro il Muslim Ban, nella pratica la reazione dell'azienda è stata fonte di molte polemiche. Nella giornata di sabato, mentre numerose persone stavano manifestando all'aeroporto JFK, la New York Taxi Worker Alliance, ovvero l'unione dei tassisti di New York, ha espresso la solidarietà alla protesta, e dato indicazione ai suoi autisti di non offrire passaggi all'aeroporto dalle 18 alle 19 ora locale.

Anche se non a cavallo con l'orario dello sciopero, Uber lo stesso pomeriggio ha annunciato che i suoi prezzi erano stati abbassati, scusandosi per gli eventuali ritardi che questo avrebbe causato.

La mossa è stata vista da molti come un modo per approfittarsi della situazione per il proprio tornaconto, e la risposta è stata #DeleteUber—l'hashtag su Twitter in cui le persone mostravano la cancellazione del proprio account Uber.

La polemica si è sedata solo domenica, quando Kalanick ha scritto un post su Facebook in cui diceva che l'azienda avrebbe risposto "all'ingiusto blocco del Presidente" fornendo assistenza legale per gli autisti Uber che stavano cercando di entrare nel paese, rimborsando gli autisti dei soldi persi, facendo pressione sul governo per riportare la situazione immediatamente alla normalità, e creando un fondo per la difesa legale degli autisti, mettendo a loro disposizione avvocati e traduttori.

Ovvio, si tratta di multinazionali, e non tener conto dei calcoli fatti in termini di immagine vorrebbe dire lasciar fuori metà della storia. Ma del resto, lo sarebbe anche pensare che Trump non debba fare in alcun modo i conti con molte delle maggiori aziende del paese.

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