Ogni mattina su Facebook trovo in home un messaggio che mi invita a dare un’occhiata a cosa ho pubblicato quello stesso giorno negli anni passati. La prima cosa che penso ogni volta è il numero imbarazzante di valutazioni e post che dedicavo alla politica—e come me facevano moltissimi altri: i social network erano un luogo nel quale valutare riforme e traiettorie politiche, condividere articoli, indignarsi per uno scandalo qualsiasi, scrivere a caso di partiti e personaggi inverosimili—prima delle macchiette alla Razzi siamo passati dal panino di Alfredo Milioni.
Quello che penso, ogni volta, è che tutto questo oggi non esiste più. E che la ragione di questa improvvisa estinzione della ‘discussione politica’ sia dovuta—soprattutto—a una persona.
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Negli ultimi giorni Matteo Renzi ha contemporaneamente salutato il Sud America, corso sul lungomare di Cuba, assistito alla costruzione della metro di Riad, ricordato sei volte che è “la volta buona,” lanciato indirettamente la candidatura del commissario di Expo Giuseppe Sala a sindaco di Milano e presentato un progetto da “150 milioni per i prossimi 10 anni” per il riutilizzo dell’area Expo.
La strada che lo ha portato a riempire un’agenda del genere da presidente del Consiglio è stata incredibilmente fulminea. In questi mesi è passato dall’assaltare la dirigenza del Partito Democratico da petulante sindaco di Firenze a finire sull’Economist come possibile “guida” continentale del paese più stabile d’Europa.
La sua comparsa sulla scena politica nazionale prima, e il suo arrivo al governo poi, hanno in qualche modo trasformato il dibattito pubblico e offerto un nuovo vocabolario, un nuovo modo di leggere l’attualità. E costretto a rivedere quel concetto così rassicurante che per una parte della nostra vita ha caratterizzato le relazioni pubbliche e civili di tutti noi: questo è berlusconiano/questo non è berlusconiano.
Oggi niente è più solo berlusconiano, o non berlusconiano, così come niente è più riformista, o più cattolico, o più liberale, o più moderato. Non c’è bisogno di accapigliarsi sulla politica, di impiccarsi sui numeri parlamentari, di argomentare sui grandi temi di rilievo sociale. Non è necessario: c’è Renzi.
Perché in qualche modo, Renzi in questi mesi si è preso tutto, e qui di seguito voglio provare a spiegarlo.
RENZI E IL DIBATTITO PUBBLICO ITALIANO
Se dovessi immaginare di discutere con un fervente ideologo del renzismo di un tema a caso, me lo immaginerei come una di quelle persone che non ti lascia il tempo di parlare né di dissentire: non perché abbia le maniere forti e la voce possente di chi non vuol farsi sopravanzare a livello dialettico e sonoro, ma perché qualsiasi argomento può essere riletto e reinterpretato in chiave renziana senza correre il rischio di essere problematizzato.
Nel renzismo—e nella sua lingua—non esistono temi “divisivi”: si media su tutto, o si sostiene tutto e il suo contrario con ambigiuità.
Che si vada dall’ordinaria amministrazione ai grandi temi sociali, non c’è argomento che non abbia una cantilena renziana, senza necessariamente essere chiara e univoca.
L’Unione Europea, per esempio, è sia il mito dei padri fondatori perpetuato dalla “Generazione Erasmus”, sia colpevole di “salvare le banche e far morire i bambini”. I diritti civili sono fondamentali per portare l’Italia in un futuro di uguaglianza, ma restano ancora dei titoli sull’Unità. Berlusconi è un “Bla bla block,” ma anche un attore politico da invitare a casa a parlare in privato.
La TAV era “inutile,” prima di scavare un tunnel insieme alla Francia. L’IMU non è “il problema,” salvo poi diventare il cavallo di battaglia dell’agenda governativa del 2016, così come i partiti “via dalla Rai”, prima di criticare e occupare RaiTre. Per non parlare dell’acrobatico ritorno del progetto del Ponte sullo Stretto di Messina, infilato tra altre promesse prioritarie.
Tutto è tenuto insieme da un collante gelatinoso che immobilizza ogni commento. La più grande metafora, da questo punto di vista, arriva dalla chiesa madre del renzismo: in Expo il tema etico dell’accesso al cibo per tutti è stato appaltato a poche organizzazioni specializzate, che hanno convissuto con McDonald’s sulla stessa piattaforma di cemento alla periferia di Milano. Nessuno deve restare fuori.
La parte problematica del paese, del governare, della “vita”, nel mondo renziano non esiste. Renzi non porta l’elmetto se la Campania viene inondata dal fango, non è l’uomo forte che si sporca gli stivali nel momento critico: non c’è una foto di Renzi che lo ricordi davanti a un panorama più apocalittico di una scuola in festa, o di un tramonto sul Machu Picchu.
Allo stesso modo non c’è spazio per le critiche—sempre molto stitiche da parte dei giornali, in un continuo “Pensa se l’avesse fatto Berlusconi, che casino avremmo tirato su.” Ogni flebile voce di dissenso viene immediatamente etichettata come “tifo contro” l’Italia, come canto dei “gufi” che “dicevano, dicevano, dicevano“: criticare l’opera del Governo è fermare l’Italia, non pensare al bene del paese – che lui incarna. “Le chiacchere stanno a zero.”
In questo modo, essere con Renzi è diventato essere l’Italia che “Riparte”, è “stare” con l’Italia. Essere Renzi è diventato essere l’Italia.
RENZI E LE NARRAZIONI E I MITI DA POSTER IN CAMERA
Il 12 settembre scorso il ciclista Fabio Aru ha vinto la Vuelta d’Espana. Su Twitter, il profilo di Matteo Renzi ha twittato quanto segue:
Nel momento in cui la narrazione renziana si è fatta voce di governo, senza più avere bisogno di essere critica e contrapporsi a quella dominante, il suo immaginario ha cominciato a riempirsi di miti fra loro incongruenti, come in un pantheon affollato di divinità che si tengono fra loro per i capelli.
Tutto diventa mitico, come mostrare ai propri amici la camera ripiena di poster di tutto. Nel renzismo è mito Steve Jobs, Guglielmo Marconi, Fonzie, i famosi che compiono gli anni quel giorno, Samantha Cristoforetti, la Dinamo Sassari, Valentino Rossi, le finali di tennis, le “ragazze del volley“, Italo Calvino, Greg Paltrinieri.
In questo suo elevare al rango di leggenda di tutto ciò che può suscitare al nostalgia, o consenso, o tifo a caso, alla fine capita che nell’arco di pochi giorni Renzi finisca col celebrare Pier Paolo Pasolini, nel giorno dei 40 anni della sua morte.
Se da un lato questo “ricordo” dello scrittore appare quasi naturale, considerando che quel giorno l’hashtag #Pasolini40 era in trending topic su Twitter—e che chiunque avesse avuto Facebook si sarebbe accorto che in quel momento non si stava parlando d’altro—, ancora più significativa, dall’altro lato, appare la scelta della citazione.
In pratica, la più involontariamente, genuinamente renziana di quelle pasoliniane: in questa frase i “campioni dell’infelicità” sono i “professionisti della tartina,” la “serietà ignorante” quella che Renzi definisce provenire da critici musoni e iettatori. “Sii allegro.” Come Renzi.
Ed è solo l’ultimo esempio: Renzi è riuscito a ricondurre nella sua orbita Pasolini, insieme a Valentino Rossi e a qualsiasi altro “mito” qualificabile come tale.
RENZI E LE BUONE NOTIZIE
Tracciare i temi e i metodi della propaganda renziana su internet è piuttosto semplice: in uno slancio di generosità, i professionisti online del culto renziano si sono dotati di formule e hashtag facilmente rintracciabili e contestualizzabili, che ci forniscono in tempo reale tutta una serie di dati e notizie di cui dovremmo godere, o indignarci—se non riguardano Renzi.
Fra queste, ricadono passphrase come #italiariparte, #cambiaverso o #italiacolsegnopiù: è sotto questi hashtag che generalmente si possono trovare gli ultimi dati dell’Istat, le previsioni al rialzo del FMI, i nuovi indici del Censis o dell’INPS, le ultime urla di gioia per il paese che “torna a fare l’Italia” e si è “rimesso in moto.” Tutti numeri che rientrano nella macronarrazione contenuta in queste formule: l’Italia riparte, l’Italia si sta rialzando. Perché c’è Renzi.
Malgrado si possa essere aperti all’idea che i segni di ripresa siano effettivamente addebitabili alle politiche di governo—cosa in moltissimi casi ancora lontana dall’essere verificata—, e che l’effettivo “segno più” attribuito dagli istituti di ricerca non si possa effettivamente contestare, è pur vero che per esempio – stando all’Ocse – l’Italia si appresta comunque a diventare il paese della zona euro che nel 2015 crescerà meno dopo la Grecia, e tra i peggiori rispetto ai paesi Ocse nel 2017.
Le “good news” si avvicendano con cadenza giornaliera, a meno che—ovviamente—non si cambino i termini inclusi nel calcolo dei dati sbandierati, come nel caso dei “153mila posti di lavoro creati” ma da addebitare in realtà a quelli che Luca Ricolfi sulla Stampa definiva “ingenui trucchi statistici—come l’utilizzo strumentale della parola “inattivi” al posto di “disoccupati.”
Dal punto di vista economico, poi, resta difficile non accorgersi del fatto che la tendenza a una flebile quanto effettiva ripresa sia un trend globale, o comunque dipendente da dinamiche un po’ più lontane da Palazzo Chigi: come spiegava Fabrizio Forquet sul Sole24Ore, “spread ridotti e refoli di ripresa” sarebbero “prevalentemente il dividendo di azioni e dinamiche internazionali (dal calo del prezzo del petrolio alla ripresa americana) e soprattutto europee.”
Senza dimenticare il fatto che le previsioni di alcuni di questi indici erano già state riviste al rialzo a governo appena insediato.
In qualche modo, però, Renzi si è probabilmente potuto trovare a cavalcare dei pony rosa su una giostra in corsa, come se si fosse accomodato su una prateria di “segni più”—che dipendano effettivamente lui o meno. Così facendo, ogni buona notizia ‘in quanto tale’ —fosse anche la nazionale di rugby o un paese siciliano che si ribella al pizzo—diventa automaticamente renziana. “#ciaogufi.”
Expo stesso è diventato Il Renzismo, malgrado l’assegnazione risalga a svariati mesi prima del suo insediamento. Così come ogni mese un nuovo indice sulla disoccupazione, un nuovo zero virgola del quale attribuirsi i meriti. O come ogni nuovo dato macroeconomico, ogni nuova “buona notizia”—dal recupero della fontana di Trevi per arrivare alla lotta alla mafia.
RENZI E L’ARCO PARLAMENTARE
Quando nel 2012 alcuni retroscenisti politici hanno cominciato a ventilare ipotesi di governi a guida Pd-Pdl, la mia prima reazione è stata “Aha.” Non che riconoscessi particolari doti di rettitudine morale e ideale al Partito Democratico, né che pensassi che Silvio Berlusconi non possa essere effettivamente capace di tutto in qualsiasi momento.
Semplicemente, non mi sembrava possibile in concreto: chissà quanti voti perderebbero, chissà ‘la base’ infuriata, chissà gli elettori disgustati, chissà la fuga dalle urne. Non sarebbe convenuto a nessuno.
Arrivati al novembre 2015, nel governo Renzi si contano un ministro dell’UDC, un sottosegretario di Scelta Civica e ben due ministri, due viceministri e sei sottosegretari provenienti dal partito di Giovanardi, Quagliariello e Angelino Alfano. Tra i quali Alfano stesso.
In parlamento, l’esecutivo è retto da un complicato sistema di maggioranze variabili, che permette al PD di godere di una certa sicurezza alla Camera – per via del premio garantito dalla vecchia legge elettorale – e di esser costretto alle acrobazie al Senato.
Se quindi in una Camera la vittoria elettorale del 2013 garantisce a Renzi una vita tranquilla, è al Senato che il Governo continua a sopravvivere grazie all’appoggio esterno—e/o l’effettivo ingresso in maggioranza—di quasi tutto il gruppo parlamentare montiano confluito nel PD, di una cerchia di indipendenti e del gruppo di Denis Verdini, un canuto senatore toscano noto per le vicende giudiziarie, i suoi rapporti con la P2, e per esser stato uno dei Rasputin di Silvio Berlusconi per una vita.
Renzi non ha mai faticato troppo per allontanare l’ingombrante aura di Verdini da palazzo Chigi, e tutt’oggi—a conferma del punto sull’annichilimento del dibattito e delle critiche analizzato più sopra—è difficile leggere in giro le stesse critiche lette, in tempi non troppo lontani, quando a formare alleanze con Mastella o Casini erano altri leader, in altri scenari, con altre storie.
La forza centripeta del renzismo ha comunque trovato sporadiche e velleitarie crisi di rigetto. Uscire dal PD per coloro che negli ultimi mesi hanno affrontato questo processo—da Mineo a Civati a Fassina—è stato un lungo e dolorosissimo travaglio, che oltre alla formazione di Possibile di Pippo Civati, non ha portato finora che alla creazione di un gruppo dal nome altrettanto evocativo che domenica scorsa è stato accolto da una platea composta da decine di giovani over 65: Sinistra Italiana.
Alla sinistra di Renzi, in pratica, attualmente si contano un partito rappresentato in parlamento (Sel), un paio di neonate formazioni dal peso elettorale insondabile (SI e Possibile), qualche leader in potenza (Landini) e una specie di listone inesistente e senza rappresentanza che vorrebbe creare qualcosa che stia a metà strada fra l’esperienza spagnola di Podemos e quella di Tsipras in Grecia.
In sostanza, fatti salvi gli inconvertibili grillini e i leghisti, Renzi ha avuto facoltà di inglobare il resto dell’arco parlamentare disponibile, mangiando a destra e a sinistra su un buffet che ha servito—contemporaneamente—Ilaria Borletti Buitoni e Gennaro Migliore di Sel.
RENZI E LO SPAZIO POLITICO
Il giorno in cui vi troverete davanti alla vostra scheda elettorale—verosimilmente nel duemilaboh—sarete invitati ad apporre un segno su una delle quattro liste principali: quella di Matteo Renzi, a guida di qualcosa che probabilmente si chiamerà ancora Partito Democratico; la lista lepeniana con la Lega insieme a Silvio Berlusconi e Giorgia Meloni; il Movimento 5 Stelle; e un’ancora inesistente coalizione di sinistra.
Lo spazio per un ‘contenitore’ alla sinistra di Renzi, stando ai sondaggi che si sono succeduti in questi mesi di scollamenti e scissioni, sembra essere piuttosto esiguo: secondo varie rivelazioni, ancora adesso Sinistra Ecologia e Libertà girerebbe a fatica al di sotto del 4 percento, rischiando persino di non contare nulla alle prossime elezioni—ammesso riesca a sopravvivere al crepuscolo di Vendola. Tanto più se con la nuova legge elettorale deciderà di non appoggiare il Partito Democratico nell’eventuale “spareggio”, arrivando alla sicura estinzione parlamentare.
In buona sostanza, nel giorno delle prossime elezioni politiche, la scelta che potrà muovere la nostra mano dovrà ricadere su un partito creato ad arte da un esperto di marketing e veicolato da un ex comico che adatta i propri messaggi a seconda della platea alla quale parla; una lista di centrodestra che include il meglio del neofascismo ripulito che l’Italia ha da offrire; “un’ancora inesistente coalizione di sinistra”; o Matteo Renzi.
La scelta potrebbe poi diventare ancora più stringente e facilitata dallo scenario dell’Italicum, con il quale verosimilmente saremo chiamati a sceglierci il prossimo parlamento: stando alla conformazione attuale della riforma, sarà molto probabile che due delle liste finiscano poi per sfidarsi al ballottaggio. A quel punto sarà uno o l’altro, e—ancora—sarà Renzi contro un X.
Quell’X ad oggi dovrebbe essere un esponente del partito di Beppe Grillo: stando ai sondaggi pubblicati da EMG per il Tg di La7 proprio in questi giorni, in un eventuale ballottaggio, il M5S vincerebbe col 51,7 percento contro il 48,3 del Pd. Ma non è detto che una lista di centrodestra non possa arrivare in qualche modo alla seconda tornata, dato che già adesso—sempre secondo EMG—la somma dei partiti in lista supererebbe il 32 percento.
Sarà a quel punto, quando uno fra Salvini e Grillo contenderà a Renzi la vittoria alle elezioni, che ci renderemo conto che Renzi è ormai quel tutto che Grillo e Salvini contestano, è l’alternativa che resta a Lega e M5S, l’unico rimasto sulla scena che non abbia un SWG 4 Airganon in mano o una felpa con su scritto Rodengo Saiano. Perché Renzi avrà occupato ogni punto di vista plausibile, ogni posizione accettabile. Perché Renzi ha occupato tutto lo spazio politico esistente.
E l’aspetto peggiore dell’intera faccenda non è solo ed esclusivamente il dominio assoluto di Matteo Renzi sulla sfera pubblica; è che, molto probabilmente, è l’unica cosa che in questo momento storico ha ragione di esistere in Italia. Si è preso tutto senza che ce ne accorgessimo, e ci ha fregati tutti quanti.
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