Com’è vivere dopo cinquantamila scosse di terremoto in cinque mesi

La testimonianza è stata raccolta da Leonardo Bianchi.

Sono nata e cresciuta a Camerino, nelle Marche, e fin da piccola mi sono abituata a fare i conti con la presenza del terremoto e con tutto quello che si porta dietro. La prima volta che l’ho sentito è stato nel 1997, quando il sisma nelle Marche e in Umbria aveva fatto crollare la volta della basilica di Assisi e provocato danni ingenti anche nella mia città. E sebbene ci fossero state 11 vittime, l’idea della morte non mi aveva nemmeno sfiorato.

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Quest’estate, invece, è cambiato tutto. Lo scorso 24 agosto ero a Offida, un paese in provincia di Ascoli Piceno, dove vivo da tre anni e che dista circa 100 chilometri da Camerino. Stavo dormendo profondamente quando, dopo le tre di notte, è arrivata la scossa che ha polverizzato Amatrice, Accumoli e altri paesi. I vetri delle finestre hanno tremato, e ho riconosciuto il rumore inconfondibile del terremoto. Ogni cosa si muoveva, come se fuori un gigante avesse afferrato l’intera casa e la stesse scuotendo avanti e indietro, quasi a volerla sradicare.

Io e il mio compagno siamo andati per mano verso l’architrave davanti al portone d’ingresso, ci siamo stretti e immobilizzati in quel punto, col cuore impazzito e l’affanno. Quella stessa notte lui, per lavoro, è poi andato a Pescara del Tronto, a una manciata di chilometri da casa. Dopo qualche ora mi ha chiamato: davanti ai suoi occhi era stato estratto il corpo di una bambina. Una settimana dopo, percorrendo la Salaria in macchina, ho potuto vedere anch’io le macerie e il silenzio della devastazione.

Il ricordo e le sensazioni di quei lunghissimi secondi me li sono portati dietro a lungo. Nelle ore successive a un grosso sisma la testa gira continuamente, a volte manca l’equilibrio. I giorni seguenti ci si sente molto confusi, a tratti depressi, e si rimane come in attesa di qualcosa che, all’improvviso, potrebbe ribaltare tutto. È un effetto che si nota molto negli animali, che rimangono nascosti o immobili—a volte anche per giorni.

Le scosse notturne, che senti anche quando stanno sotto il 4 di magnitudo, sono quelle più fastidiose: non ti svegliano mai completamente, ma si intrecciano ai sogni e ai rumori dei camion che passano lunga la strada davanti a casa. Ed è da allora che, appena mi sveglio, come prima cosa controllo i monitoraggi dell’INGV.

La mappa della sequenza sismica in Italia Centrale dal 24 agosto 2016 al 23 gennaio 2017. Via INGV

La nostra vita è iniziata a cambiare piuttosto velocemente. Ci siamo abituati a vedere lampeggianti ovunque, sapere che a pochi chilometri da noi si era consumato un dramma, assistere a scenari post-bombardamento. Per settimane Offida è diventata una delle basi logistiche degli aiuti: decine di tir arrivavano giorno e notte, mentre la terra continuava a tremare quotidianamente. Solo un viaggio all’estero, programmato da tempo, ci ha consentito di evadere, metterci al sicuro, tirare finalmente un sospiro di sollievo.

Poi è arrivato il 26 ottobre. Verso le 19 sono tornata dal lavoro e, parcheggiando la macchina, ho notato strani movimenti. C’era molta gente per strada, tutti con i telefoni in mano e una faccia da funerale. Era il segno inequivocabile che c’era stato un altro terremoto.

La voce che girava—poi confermata—era che l’epicentro fosse a Castel Sant’Angelo sul Nera, un paesino vicinissimo a Camerino. Non appena l’ho realizzato mi sono guardata intorno, disorientata, e ho pensato ai miei familiari e a tutti i miei amici. Non era facile telefonare; come sempre, le linee erano completamente intasate. A un certo punto sono riuscita a parlare con mio nonno, che fortunatamente stava bene.

Alle 21 è arrivata la seconda scossa, fortissima e interminabile, di magnitudo 5,9. Mi sono fiondata fuori casa perché la porta era aperta; l’asfalto sotto di me sembrava una pedana in movimento, e non riuscivo a tenermi in piedi. L’unica cosa a cui riuscivo a pensare era che una scossa del genere avrebbe potuto radere al suolo Camerino. Nella mia testa c’era il caos più totale, unito all’angoscia più grande mai provata in vita mia.

Mi sono di nuovo attaccata al telefono, e di nuovo la linea cadeva di continuo. Mio padre—che non era a Camerino—è riuscito a dirmi che una zia molto anziana era bloccata al piano superiore del palazzo di casa nostra, e che per portarla via erano stati chiamati i pompieri.

L’ansia era ormai insormontabile: dovevo raggiungere Camerino. Sono partita in fretta e furia con il mio compagno. Abbiamo impiegato il doppio ad arrivare a Camerino: diluviava, si sentivano sirene, volanti e automobili sfrecciavano in tutti i sensi di marcia—chi per entrare, chi per uscire da quell’apocalisse.

All’entrata nel paese ho incrociato la macchina di mio fratello. Insieme a lui abbiamo trovato mio nonno, che era stato portato insieme ad altre persone al deposito degli autobus, in seguito divenuto uno dei centri di accoglienza. Siamo tornati verso il centro della città, e di fronte alla chiesa di Santa Maria in Via ho visto un palazzo sventrato a metà dal crollo del campanile. Una squadra di pompieri illuminava la scena con un faro e si poteva vedere una metà del campanile ancora in piedi, mentre l’altra era sparsa ovunque, come se fosse esplosa.

Gli studenti che abitavano nel palazzo erano usciti tutti dopo la prima scossa, e così si erano salvati. Di nascosto poi siamo entrati a casa mia: il soffitto dell’androne sembrava fango seccato al sole, talmente era pieno di crepe e filamenti. Tutto era caduto sul pavimento: ogni armadio era aperto e vuoto, gli oggetti erano sparsi ovunque e nel mio vecchio letto c’erano pezzi di intonaco e muro. Abbiamo raccolto le cose più importanti e siamo usciti in fretta.

La via dove si trova la casa dell’autrice a Camerino, dopo le scosse di ottobre 2016.

Per farci strada ci siamo arrampicati sopra mucchi di mattoni, pilastri crollati e macchine sfondate. La notte l’abbiamo trascorsa al centro d’accoglienza a parlare con amici e conoscenti, a sentire le loro storie. Molti avevano appena perso tutto. C’erano studenti impauriti—anche stranieri—che cercavano di capire come tornare a casa. Le famiglie, gli anziani e i bambini si tenevano per mano sulle brande. Tutti avevano stampata in faccia la stessa identica espressione: quella di totale impotenza.

Quattro giorni dopo, il 30 ottobre, sono tornata a Camerino. Alle 8 di mattina avevamo l’appuntamento con i pompieri per il recupero dei beni da casa. Proprio quella notte, fortunatamente, c’era stato il cambio dell’ora legale. E così, quando alle 7.40 c’è stata la scossa più forte e spaventosa dal 1980 a oggi—6.5 di magnitudo—eravamo fuori dalle abitazioni. Senza quella circostanza fortuita, qualcuno avrebbe potuto anche morire.

Dopo queste due esperienze, ho partecipato ad alcune operazioni di aiuto con l’associazione BSA (Brigate di Solidarietà Attiva): assistere cittadini terremotati è stata l’unica cosa che ha dato un—seppur minimo—senso alla catastrofe, alla paura, al dolore.

I miei parenti—tranne mio fratello—sono andati tutti via da Camerino, al sicuro. Dopo le due scosse di ottobre mi è sembrato di aver salutato per sempre la città in cui sono cresciuta, dove nell’arco di qualche ora sono scomparsi i punti di riferimento; è rimasta in piedi solo una parte dei nuovi quartieri residenziali. In pratica, Camerino è diventata una città dormitorio.

Mi capita spesso di pensare a come sarà tra qualche anno, e me la immagino necessariamente diversa, magari con costruzioni moderne a colmare i vuoti dei palazzi storici. Il primo segnale positivo in questo senso, è stato quello dell’Università: spostando tutte le sedi nelle recenti strutture antisismiche fuori dal centro è riuscita a rimanere quasi sempre aperta, tranne nei primi giorni dopo il terremoto.

Per il resto, come mi confermano amici e parenti, la mia città sta attraverso una fase di psicosi generalizzata. Ciò è particolarmente evidente nei social, dove il nervosismo è aumentato e ci si scontra facilmente quando si dibatte su questioni attinenti la ricostruzione e la messa in sicurezza. Si sono anche formate correnti di pensiero contrastanti: c’è chi ha optato per cambiare città per svariati motivi (lavorativi, per paura, per ricominciare altrove) e chi invece ha preferito rimanere, con tutte le difficoltà annesse. 

Questo dilemma si estende per tutto il “cratere”—ossia la vasta area colpita dai terremoti, e che non si limita ai luoghi simbolo di cui si è sentito parlare spesso nei media. Negli ultimi mesi la vita di migliaia e migliaia di persone tra Umbria, Abruzzo, Lazio e Marche è stata azzerata: da un giorno all’altro si sono ritrovate senza più lavoro, casa, beni, e soprattutto senza più condizioni materiali adatte a proseguire qualunque tipo di progetto.

L’identità è disgregata e gli orizzonti futuri sono incerti. Ho però visto molta voglia di lavorare e rimboccarsi le maniche, solidarietà consapevole più che compassionevole, e resilenza. A Camerino, ad esempio, un gruppo di giovani del posto ha creato un’associazione—chiamata “Io non crollo“—che si è occupata di organizzare attività ricreative, fornire aiuti alla popolazione e collaborare con le autorità locali.

Una volontaria delle Brigate di Solidarietà Attiva ad Arquata del Tronto, gennaio 2017. Foto via Facebook

Qualche giorno dopo il terremoto di fine ottobre sono andata a Gagliole—un piccolo paese in provincia di Macerata—dove i cittadini e il sindaco avevano organizzato un autonomo centro di accoglienza nella scuola del paese (aiutati anche da volontari delle BSA), e tutta la popolazione condivideva quello spazio, dormendo e mangiando insieme.

Situazioni di “auto-gestione” sono nate anche in altri comuni, in zone impervie del cratere come Fiastra e Roccafluvione, a ridosso dei monti Sibillini, dove i cittadini stessi si occupano degli aiuti e di pianificare il post sisma. A Norcia si è formata l’associazione “Montanari Testoni,” per “parlare e confrontarci sulla situazione personale e collettiva di ognuno di noi” e provare a far rifiorire un “tessuto sociale messo già a dura prova dal sisma.”

Spesso e volentieri, tra l’altro, quella dell’autogestione dell’emergenza è una scelta quasi obbligata. Ci si è accorti in fretta che dove non arriva la copertura mediatica—o sceglie di non arrivare, perché magari manca la “notizia”—non arrivano nemmeno gli aiuti. E diversi sindaci, tra cui quello di Camerino, si sono lamentati della burocrazia che rallenta i piani di ricostruzione e di una scarsa assistenza dello Stato. A Grisciano, una frazione di Accumoli (Rieti), il 15 gennaio centinaia di persone (giunti anche dalle vicinissime  Marche) hanno protestato per la gestione post-sisma nei piccoli centri. “Siamo stati abbandonati, qui non si è visto più nessuno,” hanno detto i manifestanti. “Non siamo meno di Norcia o Amatrice, dove gli interventi sono stati più tempestivi.”

A livello personale e familiare non mi sono sentita “abbandonata”—forse è ancora troppo presto per esserlo. Mi sento tale, tuttavia, quando in tutta Camerino ci sono solo due tecnici che fanno sopralluoghi per determinare l’agibilità di immobili; o quando non si fa nulla per contenere l’incremento degli affitti di appartamenti e stanze per studenti universitari (come sta succedendo sempre a Camerino); o ancora, quando in pieno inverno chi ha scelto di continuare a vivere nel “cratere” è ancora in roulotte o—nella migliore delle ipotesi—in container con cucine e bagni in comune.

A complicare il tutto sono arrivate anche le massicce nevicate delle settimane scorse. A Pievetorina, un comune piccolissimo tra Visso e Camerino, la struttura container adibita a scuola materna è crollata sotto il peso della neve. Chi volesse lasciare i figli nelle scuole dove andavano prima del sisma, a condizione di fidarsi di strutture come quella, dovrebbe percorrere chilometri dalla costa—dove si trovano gli alberghi che ospitano i terremotati—oppure piazzare un camper, roulotte o abitare un garage.

Sui monti Sibillini, dove si vive di allevamento e turismo, alcuni allevatori sono rimasti isolatI nelle roulotte; altri, a Castelluccio di Norcia, hanno fatto avanti e indietro dalla costa per i loro animali, macinando ore e ore di viaggio. Chi avrebbe dovuto lavorare con gli impianti sciistici non ha più le strutture né le abitazioni, com’è successo a Ussita, Visso e Bolognola.

Poi, come in un incubo senza fine, sono arrivate le quattro scosse consecutive del 18 gennaio. Mi trovavo a Offida, dove l’energia elettrica era tornata soltanto la sera prima e fuori c’era quasi un metro di neve. Durante il terremoto ho scelto il solito architrave, dopodiché sono corsa a casa di un’amica che aspetta un bambino. Abbiamo passato la giornata davanti alla porta-finestra, la via di fuga più immediata. La sensazione di precarietà è tornata, trasformata in vulnerabilità estrema con l’aggiunta della neve e del ghiaccio.

Più in generale, su tutti noi è calata ancora una volta la coltre di spaesamento, dovuta anche alle oggettive difficoltà nei soccorsi e alle proibitive condizioni climatiche. Ma soprattutto, si è cronicizzato il lacerante conflitto tra la speranza di tornare a far ripartire il posto, e la realtà di popolazioni sparpagliate tra alberghi e sistemazioni provvisorie. Banalmente, un terremotato non potrebbe mai compilare i campi richiesti in un profilo su Facebook: non si sa dove si vive, se il lavoro che faceva esiste ancora, e nemmeno se il posto in cui si è nati possiede ancora le caratteristiche di una città.

Per il resto non so cosa aspettarmi nei prossimi tempi, né se ci saranno altre scosse forti (ma questo nessuno può saperlo). Non temo però il terremoto in sé—ormai, anche se può sembrare strano, l’abbiamo in un certo senso introiettato; temo, piuttosto, una ricostruzione poco intelligente.

Secondo la mia precedente esperienza ci vorranno almeno dieci anni; molti fra quelli che si sono allontanati troveranno lavoro altrove, e la zona sarà più spopolata. A mio avviso, i cittadini dovrebbero partecipare e spingere per misure necessarie a rilanciare il turismo (che aveva conosciuto un forte incremento prima dei terremoti), dare slancio a iniziative imprenditoriali, al patrimonio storico artistico che custodiamo nelle Marche, in Umbria e in Abruzzo, e tutelare le Università.

Se questo non accadrà e verranno solo aperti cantieri—magari diretti da persone esterne e senza alcun interesse per il territorio—allora il centro Italia potrebbe restare un cratere vuoto, in mezzo a un paese che investe solo per scavare e colmare voragini.

(Ha collaborato anche Laura Palazzi.)

In apertura: la chiesa di San Filippo a Camerino. Foto per gentile concessione di Bianca Marucci.