Dentro la più grande comune abitativa di Milano

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L’emergenza abitativa è uno dei mali cronici di Milano. Aggravatasi negli anni della crisi, nell’autunno del 2014 la questione è esplosa a livello nazionale, quando i quartieri Giambellino-Lorenteggio e Corvetto sono stati luogo di scontri e dure manifestazioni, dopo che Prefettura e forze dell’ordine avevano intensificato gli sgomberi.

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In città, ogni giorno vengono eseguiti sette sfratti a danno di inquilini che non pagano l’affitto, o che lo pagano in ritardo. Le persone che occupano abusivamente un’abitazione sono 4.000, e ci sono oltre 10.000 alloggi vuoti tra quelli di proprietà di Aler – Azienda lombarda per l’edilizia residenziale – e quelli del Comune gestiti da Metropolitana Milanese Spa. Ad aggravare questo dato, c’è anche il fatto che per le strade del capoluogo lombardo, attualmente, ci sono circa 2.300 senzatetto.

In assenza di risposte istituzionali credibili, negli ultimi anni sono sorte esperienze più o meno autogestite che cercano di sopperire a questi problemi. Uno di questi è il Residence Sociale Aldo dice 26X1, che si trova in piazza Mapelli a Sesto Marelli, dentro un palazzo di sette piani abbandonato da Alitalia nel 2008 e occupato nel marzo del 2014 da una ventina di appartenenti al Comitato diritto alla Casa e Clochard alla riscossa—una sorta di sindacato auto promosso dei senzatetto.

L’esterno dell’edifico (Francesco Brembati/VICE News)

Il nome deriva da una frase in codice che venne letta da Radio Londra la notte del 24 aprile 1945, per informare le brigate partigiane che era giunta l’ora di attaccare nazisti e fascisti sulle loro postazioni: “26” sta per 26 aprile, mentre l’1 sta per l’una di notte.

Si tratta di un enorme stabile nel quale attualmente trovano riparo quasi 170 inquilini di varie nazionalità in modo autogestito e autofinanziato. L’area offre circa 6.000 metri quadri di superficie abitabile e ospita decine di appartamenti e bagni, con docce, bagni e cucine condivise.

Gli abitanti del Residence sono per lo più famiglie sfrattate in forte emergenza abitativa, spesso inserite nelle liste Aler da anni e in attesa di ricevere una risposta sull’affidamento di una casa popolare. 

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Nel centro, al supporto ‘tecnico’ per le famiglie si affianca quello legale, offerto da una sindacalista che le ragguaglia sugli aggiornamenti di carattere normativo e burocratico—visto che molte di queste sono state già sfrattate o sgomberate, e rimangono lì in attesa di mettere a posto i loro documenti per entrare nelle graduatorie delle case popolari.

Ad oggi il Comune di Milano – secondo Repubblica – spenderebbe tra i 70 e i 90 euro al giorno per collocare in comunità un minore sfrattato—cifra che raddoppia se si include anche la madre. Dieci euro alla settimana è invece la quota richiesta agli inquilini di Aldo dice 26X1.

VICE News ha trascorso qualche giorno all’interno del centro per vedere da vicino questa realtà, conoscere la sua quotidianità e comprendere le ragioni di critiche e elogi che si è guadagnato.

La prima sera ci troviamo in mezzo a due compleanni e una festa d’addio: una delle festeggiate si chiama Anti, viene da Santo Domingo e abita con i suoi figli. Ha appena saputo che le è stata assegnata una casa popolare a Quarto Oggiaro dopo oltre un anno di attesa. 

È alla festa che riusciamo a incrociare Wainer Molteni, il fondatore della comune. Fatta la tara ad alcune bonarie esagerazioni, la storia della sua vita è piuttosto complessa, tanto da portarlo a scrivere un libro—Io sono nessuno. Storia di un clochard alla riscossa. Wainer è nato a Marsiglia mentre i genitori – che dice esser due ex terroristi di Lotta Continua – erano in fuga dalla giustizia italiana, e all’età di due anni è stato affidato ai nonni di Mombello (MB). 

Wainer Molteni (Francesco Brembati/VICE News)

Sostiene di aver fatto il servizio militare e un’esperienza in Somalia, poi di aver vissuto a Miami, e infine di essere tornato in Italia a lavorare, dove la sua passione per la musica lo ha portato a diventare dj, prima nei locali di provincia poi a Milano. 

Nel 2004, dopo aver perduto il lavoro, è diventato un senzatetto, e ha dormito per anni sullo zerbino di casa dell’ex sindaco di Milano, Letizia Moratti per riuscire a incontrarla e chiederle un alloggio per sé e i suoi amici.

“Una sera ci rapinarono e al mattino eravamo senza scarpe e con i piedi congelati,” racconta Molteni. “Poi scese Bedy Moratti [attrice e sorella di Letizia] e nel giro di mezz’ora avevamo una zaino Invicta nuovo, con tre libri, due telefoni e un paio di scarpe.”

Wainer Molteni e suoi barbafratelli – come li chiama lui – nel 2005 hanno occupato una mensa per poveri e fatto da consulenti informali alla Moratti per il piano contro il freddo, dopo una serie di morti fra i senzatetto.

L’esterno dell’edificio (Francesco Brembati/VICE News)

Wainer ha una compagna che si chiama Laura e di lavoro fa la sindacalista per l’Unione Inquilini, una sigla che si occupa della questione abitativa in giro per l’Italia ed è nata come costola della Cub, la Confederazione di Base Unitaria—fra i sindacati più agguerriti nati negli anni Settanta. Laura è cresciuta nel quartiere di Niguarda e per occupare il Residence Sociale di Sesto Marelli, l’anno scorso, ha lasciato casa sua dove adesso abita la figlia ventenne, che ha partorito da poco.

Alla fine della festa chiediamo dove possiamo dormire. “Qui nessuno dorme sui pavimenti” ci spiegano, dandoci una stanza per gli ospiti al terzo piano: letto a castello, posacenere pulito, una bibbia e due finestre. L’impressione è che non vogliano dare a nessuno – in particolare ai giornalisti – la possibilità di scrivere che nella comune si viva male o in mezzo alla sporcizia.

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Al secondo giorno, per capire com’è organizzata la vita nella comune, veniamo accompagnati negli appartamenti ricavati dentro gli ex uffici di Alitalia. Ogni piano è un lungo corridoio con una decina di appartamenti, dove ogni inquilino svolge le sue mansioni quotidiane, secondo una rigorosa divisione del lavoro.

Un uomo filippino, che è arrivato da poche settimane con la famiglia più numerosa dell’intera comune, pulisce le scale, mentre una ragazza italiana di vent’anni che lavora in un centro scommesse della periferia, raccoglie i vestiti sporchi delle famiglie e li lava per tutti, facendosi pagare qualche euro. 

Ci viene permesso di parlare con chiunque, tranne che con gli inquilini del primo piano—quello dedicato a persone anziane e disabili. Quando Alitalia se ne è andata – dopo la privatizzazione – ha staccato tutto. Le cabine degli ascensori oggi servono come magazzini per accatastare materiali.

Corridoio e ascensore all’interno del Residence (Francesco Brembati/VICE News)

Il primo uomo con cui parliamo quel giorno è Salem, un ingegnere egiziano fuggito dal regime di Mubarak venticinque anni fa. Racconta di quanto la sua famiglia fosse importante in Egitto ai tempi di Nasser e Sadat, dentro le gerarchie militari. Vive da solo al quinto piano perché sua moglie e i figli si trovano in una comunità dalle parti di Cremona. 

Accanto all’alloggio di Salem abita Lorenzo, un ragazzo romeno che lavora come idraulico che convive con sua madre, i figli e la moglie. Sono arrivati in Lombardia qualche anno fa dalla Puglia, dove vivevano. Anche la moglie di Lorenzo parla con noi volentieri: “Wainer e Laura sono due geni,” dice. “Hanno fatto più loro per me che lo Stato italiano. Hanno messo in piedi questo posto dal nulla.”

È a quel punto che incontriamo Alina, una donna ucraina sulla cinquantina che pare abbia lavorato nei reparti medici dell’Armata Rossa – e che non si fa fotografare perché teme potrebbero riconoscerla in Crimea – e Adina, una diciassettenne che ci fa da guida nella biblioteca, poi dentro al cineforum che si trova nella vecchia sala congressi, e nel cosiddetto “Laboratorio delle Vergini”—una sala dove si riciclano materiali per costruire oggetti.

Ci spiega che i quattro bagni presenti per ogni piano vanno lavati dopo ogni utilizzo. “È il regolamento interno.” Per questo fuori dai bagni c’è sempre un secchio con uno straccio.

Fuori dal Residence Sociale c’è una grande piazza con attività commerciali, ristoranti e uffici. “Siamo abbastanza contenti di avere la comune abusiva accanto,” mi dice il titolare di un negozio. Pare che piazza Mapelli fosse un’area di spaccio a tarda sera, che da quando sono arrivate le famiglie, i pusher si siano spostati in altre zone della periferia, e che solo i proprietari del ristorante giapponese non sopportino questa situazione.

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Il terzo pomeriggio è domenica, e veniamo messi a lavoro. Al terzo piano stanno costruendo l’”American Bar,” un saloon con luci stroboscopiche e un palco per far suonare le band. A dirigere i lavori c’è Luca, un operaio edile di Cinisello Balsamo. Quando è in ferie o fuori dall’orario di lavoro viene a dare una mano dentro la comune, dove si è guadagnato il soprannome di “Macgyver.”

Mentre ci diamo da fare spostando assi in legno e sgabelli della Coca-Cola, veniamo accompagnati nel seminterrato, dove oltre al magazzino si trova il famoso archivio lasciato incustodito da Alitalia—contabilità, cartelle, documenti degli ex dipendenti. “Per questo non ci sgomberano,” mi dice Wainer, forse esagerando coi suoi modi un po’ megalomani: “Conosciamo tutti i loro segreti, e se potessi parlare ne verrebbero fuori delle belle.”

La sera veniamo caricati in macchina e portati in piazza Fontana, in centro a Milano, dove va in scena quello che loro definiscono l’evento dell’estate. Lo chef della Comune e altri volenterosi, preparano pentole di pastasciutta o riso e le distribuiscono ai senzatetto del centro città. Il motivo ufficiale è che molte mense dei poveri ad agosto chiudono, per mancanza di volontari—quest’estate a Milano ne sono rimaste aperte solo tre.

In alcune occasioni sono stati invitati un paio di gruppi a suonare, per intrattenere i senzatetto. Una cover band di Rino Gaetano e un’altra band di musica latina: si chiama Jazz Picante Latin Ensemble, per lo più composta da sudamericani.

I Jazz Picante Latin Ensemble (Francesco Brembati/VICE News)

Siccome quella sera in piazza Fontana ha piovuto, la Latino Ensemble si è spostata col generatore sotto i portici, davanti alla sede di Bloomberg. Tornati al Residence, Wainer ha detto loro che i militari presenti in centro erano particolarmente tesi perché davanti a Bloomberg sarebbe suolo americano.

“Avete fatto la storia,” dice loro. I sudamericani erano pazzi di gioia per aver quasi ‘invaso’ il suolo americano. Hanno festeggiato tutti insieme bevendo il mojito preparato con le foglie della menta che coltivano fuori dal Residence, e con del rum di non eccelsa qualità comprato in un market indiano di viale Monza. Mentre andiamo, ci informano del fatto che a breve fonderanno anche un borgo agricolo, “il primo interamente gestito da senzatetto e sfrattati.”

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I corridoi del Residence (Francesco Brembati/VICE News)

Dentro il Residence sociale si ha la sensazione di abitare in una “cittadella dentro la città,” con leggi e regole diverse rispetto a quelle ‘esterne’. Anche l’umanità che vi abita può quasi sembrare diversa rispetto a quella che s’incontra ogni giorno per le strade di Milano: storie normalissime, sfortunate, o da romanzo, cui la povertà e la mancanza di alloggi ha costretto a trovare un modo per reinventarsi e riscrivere il proprio passato e il proprio presente.


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Foto di Francesco Brembati