‘Comunista’ è l’ultimo insulto rimasto a disposizione di chi non sa cosa dire

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Facciamo un esperimento: prendete la vostra lista degli amici di Facebook, scorretela tutta e segnatevi quanti di questi contatti si definiscono—o, se interpellati, riconoscerebbero di essere—comunisti. Fatto? Bene. Che siano uno, due o 45, sono certo che in quella stessa lista, il numero di persone che in una discussione online si sono beccate del “comunista!” sarebbe due o tre volte superiore.

Ma davvero ci sono così tanti comunisti in Italia? O si tratta nella maggior parte dei casi di un appellativo utilizzato in alternanza a ”buonista” o ”radical-chic,” e concepito come insulto tanto da politici quanto da semplici cittadini? Sarete d’accordo con me nel ritenere più vera la seconda ipotesi.

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Per cercare di capirci di più ho contattato Andrea Mariuzzo, uno storico delle culture politiche che nel 2010 ha pubblicato Divergenze parallele. Comunismo e anticomunismo alle origini del linguaggio politico dell’Italia repubblicana . Di seguito, ecco un estratto della chat che ho avuto con lui.

VICE: Partiamo dalla domanda fondamentale: com’è che nell’Italia del 2019 “comunista” è diventato un insulto?
Andrea Mariuzzo: Per capirlo bisogna partire da una riflessione storica. Nell’Italia repubblicana si è sviluppato un ampio discorso anticomunista. Le ragioni sono abbastanza ovvie: c’era un grande partito comunista. Questo partito era legato sicuramente a un movimento internazionale dichiaratamente rivoluzionario e a una potenza mondiale che veniva percepita come ostile da parte di molti settori.

Questo discorso si è raccolto attorno a quattro temi principali: la critica all’ateismo militante e persecutorio di gran parte del movimento comunista internazionale (che ha portato a un anticlericalismo molto sentito anche da noi); la denuncia della repressione dittatoriale che caratterizzava i regimi filosovietici; la critica a un partito dichiaratamente asservito a una potenza straniera ostile; e la denuncia dell’inefficienza economica del sistema collettivistico.

Finché il comunismo era effettivamente presente in Italia e in Europa, tutti questi temi potevano essere ripresi e rimodulati in vari modi.

E cosa è successo dopo il crollo del comunismo?
In Italia, questo crollo si è accompagnato al collasso del vecchio sistema politico e all’ascesa di Silvio Berlusconi. Il leader di Forza Italia si è trovato a dover ricompattare molto del pubblico sensibile all’anticomunismo tradizionale.

Questo pubblico era disperso perché a quel punto mancavano i riferimenti tradizionali ma, allo stesso tempo, era in qualche modo contrapposto a chi faceva riferimento in vario modo alla tradizione comunista o comunque si richiamava a una sua accettazione.

Così, ha ripreso i temi e il lessico dell’anticomunismo piegandoli alle sue esigenze: era comunista chi si opponeva alla sua idea di libertà, alla sua presunta ricetta per la prosperità economica, all’impegno per il bene dell’Italia che poteva essere solo al suo fianco.

Questo modo di definire i comunisti è privo di un riferimento concreto ma permette anche di individuare sempre un proprio nemico. Ed è passato in parte in molti discorsi populisti. C’era ad esempio chi definiva Mario Monti un comunista perché svendeva la sovranità e il benessere dell’Italia al “nemico” Unione Europea.

Insomma, basta davvero poco per essere definito comunista.
Fin qui abbiamo parlato di contenuti; ma c’è anche un problema più interessante legato al pubblico del discorso anticomunista. Fin dagli anni Quaranta, il discorso anticomunista intercettava un pubblico non profondamente politicizzato, privo di identificazioni ideologiche forti.

Secondo me è avvenuto questo passaggio: nell’immaginario collettivo ha iniziato a dare agli avversari dei comunisti chi leggeva i richiami all’impegno, e quindi allo sforzo di informarsi e di farsi un’opinione sulla politica, come una politicizzazione forzata che andava contro la sua inclinazione.

Ma alla fine è solo una percezione, o i comunisti sono davvero più odiati di altri?
Io credo che sono odiati perché ormai, nel senso comune, è facile attribuire ad essi più o meno qualsiasi cosa non piaccia o qualsiasi cosa si pensi ostacoli la “politica del fare.”

Il fatto che l’anticomunismo sia stato un discorso così pervasivo nel senso comune ha innescato questa percezione negativa dell’essere comunista, ma si tratta ormai di una percezione che ha perso il suo bersaglio concreto e può essere orientata contro tutto quello che non piace.

In Italia i comunisti esistono ancora ma sono residuali, sia che si richiamino in modo diretto a quell’esperienza e a quella simbologia (come Marco Rizzo e il Partito Comunista), sia che si collochino in modo più ampio nell’alveo della tradizione di pensiero marxista-leninista e simili. Sono gruppi piccoli e piuttosto autoreferenziali, e la loro presenza non giustifica l’uso ancora persistente del termine comunista nella polemica.

Proprio perché di fatto ormai i comunisti in senso proprio sono un residuo inoffensivo, molto più inoffensivo e con un appeal minore dei neofascisti, scagliarsi contro il “comunista” significa scagliarsi contro un contenitore ormai vuoto che si può riempire con quello che si vuole rifiutare e stigmatizzare.

E uscendo dall’Italia, i comunisti hanno ancora un qualche peso in altri paesi?
Sull’estero devo dire che ho informazioni meno dirette, ma credo che si debba sempre fare attenzione ai contesti. Per fare qualche esempio, ho l’impressione che in America Latina l’uso polemico della definizione “comunisti” da parte di forze conservatrici o apertamente reazionarie sia strumentale—e come in Italia si richiama a un passato di Guerra Fredda.

Ma a differenza di qui, la polemica è diretta verso governi e movimenti—come le varie sfumature di chavismo—che hanno effettivamente obiettivi politici ed economici radicali, e atteggiamenti che sanno di autoritarismo

Sempre a livello internazionale, c’è anche il paradosso che nessuno dia in maniera ossessiva dei comunisti ai cinesi. Anche se attualmente alcuni leader conservatori vivono una certa tensione con la Cina (Trump su tutti), e anche se sarebbe forse il riferimento al comunismo meno fuori luogo di tutti.


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Probabilmente ormai il riferimento al comunismo è diventato così fragile e privo di denotazione che non si ritiene opportuno usarlo contro un avversario “serio” e “forte.”

Forse un avversario come la Cina non può essere delegittimato solo con il riferimento al comunismo che ormai è stantio, oppure essendo ormai è un interlocutore ineludibile, con cui si può non essere d’accordo—ma che non si può rifiutare del tutto al tavolo delle trattative—si preferisce non fare riferimento al comunismo perché ormai ha una portata delegittimante assoluta. Ma queste sono solo ipotesi.

Per finire: possiamo dire che l’anticomunismo ha molta più presa a livello di numeri dell’antifascismo—e che comunista inteso come insulto è usato molto di più di fascista?
Direi di sì. E bisognerebbe riflettere anche sul fatto che in quello stesso pubblico scarsamente politicizzato, alla diffusione di un senso comune anticomunista di lungo periodo, si è accompagnata l’accettazione di una visione dell’esperienza fascista un po’ all’acqua di rose—come di una dittatura morbida e se non illuminata almeno pratica e non accecata dall’ideologia.

Quello che in effetti è stato il più duro esperimento di politicizzazione forzata degli italiani è oggi presentato quasi come il suo contrario.

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