Con la gioventù dorata che passa la vita a fare stage sottopagati a Bruxelles

Sono da poco passate le sei e Place du Luxembourg, a Bruxelles, è strapiena. Persone in tailleur, gonna o completo affollano il marciapiede e la strada con una birra o un mojito in mano, parlando in spagnolo, tedesco, francese e soprattutto inglese. Come ogni giovedì sera, stiamo assistendo all’aperitivo degli expat che lavorano al Parlamento Europeo. L’happy hour è appena cominciato e Fabian, tedesco, ne approfitta per buttare giù una pinta. Anche lui in completo e scarpe lucide, potrebbe tranquillamente passare per un habitué. Invece, mi spiega, “è la terza volta che vengo. Sono a Bruxelles da tre settimane!” Neolaureato, è qui per fare uno stage di sei mesi accanto a un parlamentare europeo. E non è l’unico in città per questo motivo.

Come Fabian, ogni anno giovani da tutta Europa si riversano in città per entrare a far parte della “EU bubble”. Hanno lauree in giurisprudenza, scienze politiche, internazionali e diplomatiche, studi europei o economia e sperano di rimediare un lavoro in qualche istituzione europea, ONG o in una delle tante lobby che gravitano attorno ai centri di potere di Bruxelles. Molti conducono la loro vita professionale in una dimensione di semi-Erasmus, con stipendi buoni e l’idea di lavorare nel cuore delle relazioni internazionali—in pratica, una situazione allettante. A volte anche troppo: “Vengono tutti qui perché è una specie di Washington europea,” dice Bryn Watkins dell’associazione B!NGO, che si batte perché la città offra stage di qualità. “Ma c’è un problema: il mercato è inondato da expat poliglotti e plurilaureati.”

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Risultato: nella bolla di Bruxelles, il periodo di stage post-laurea può dilatarsi all’infinito. Lucas ha 25 anni e da due passa da uno stage all’altro senza trovare un posto fisso. Ha una magistrale in diritto europeo, ma ha rifiutato un dottorato di ricerca per lanciarsi all’assalto del mercato del lavoro di Bruxelles. Indispettito, mi dice di aver ricevuto poche ore prima una risposta negativa dopo un colloquio. “Ormai sono completamente scoraggiato. Ho mandato centinaia di CV, ma niente. I miei studi mi aprivano un futuro. Ma due anni dopo, mi pare mi abbiano destinato a una continua umiliazione intellettuale.”

In questo settore iper-competitivo, anche la lotta per gli stage è spesso serrata. Alla Commissione europea viene accettato solo il quattro percento dei candidati per lo stage retribuito. Lo stesso succede con gli organismi internazionali. “Per ogni posizione di stage che si apre riceviamo almeno un centinaio di candidature,” spiega Andrew Stroehlein, direttore della comunicazione per Human Rights Watch Brussels. “Mi è già capitato di dover mandare indietro persone con due master e quattro lingue conosciute…”

Una volta conquistato uno stage, il cammino verso l’autosufficienza è lungo. Molti sono infatti poco—o per niente—retribuiti. Basandosi sui dati del registro UE per la trasparenza, B!NGO stima che circa la metà degli 8.000 stagisti che transitano ogni anno per la bolla non vengano pagati. “Visto il numero di persone sul mercato, ci sarà sempre qualcuno disposto ad accettare uno stage non retribuito,” aggiunge Bryn Watkins. “Per lo stagista è una voce in più sul CV, un’esperienza.” Un’esperienza che non tutti possono permettersi.

“Durante il mio primo stage prendevo 149 euro al mese. Nel secondo, 49 euro,” spiega Gisela. Laureata da un anno, francese, è passata da uno stage in una ONG a un altro. “Essendo un lavoro full-time non è facile trovare un secondo impiego. E infatti i miei genitori devono darmi una mano. Sono privilegiata, lo so. Ed è anche questo che mi fa arrabbiare: il fatto che sia un mondo riservato ai più fortunati.”

Anche Lucas dice che “se mia madre/mio padre non avessero i mezzi per aiutarmi e pagarmi l’affitto non potrei certo permettermi di portare avanti questo percorso. È un posto per ricchi. Tanti [dopo un’esperienza] sono costretti a tornare a casa, oppure cambiano campo. Dicono che l’UE sia scollata dalla realtà, ma in una situazione del genere la cosa non stupisce affatto.”

Quello dell’ingiustizia sociale è uno dei temi più ricorrenti, quando si affronta l’argomento stage. “Qui sei di fronte alla gioventù dorata d’Europa,” spiega Bryn Watkins. “Ci sono delle eccezioni, ovviamente, ma in generale arrivano tutti dalla classe medio-alta.”

Il Parlamento europeo è una delle istituzioni più criticate. “Anche io ci sono passato, come stagista. Basta metterci piede per capire che lì dentro non c’è traccia di tutta la diversità sociale caratteristica dell’UE. Eppure si tratta di un organismo che dovrebbe rappresentare il popolo.”

In effetti, la situazione al Parlamento europeo è tutt’altro che rosea. Gli stage ufficiali, ben retribuiti, esistono, ma ci si arriva attraverso un processo estremamente selettivo. E quando un parlamentare sceglie di prendere uno stagista nel suo staff per fargli fare da assistente, è libero di decidere se pagarlo o meno. Non esiste una normativa in materia, con la conseguenza che nello stesso gruppo politico ci sono stagisti pagati 1.200 euro al mese e altri che non vengono retribuiti. A volte questa incertezza può causare brutte sorprese, come nel caso di Debora*: “Il primo giorno di stage mi hanno detto che, a causa di una revisione del budget, avrei preso 250 euro al mese anziché i 500 pattuiti. Ero arrabbiata, ma come potevo rifiutare? Era comunque una buona opportunità.”

Ottenere cifre precise non è facile, ma un’indagine informale condotta nel 2013 può dare un’idea: il 20 percento degli stagisti nello staff di un europarlamentare non sarebbe retribuito; il 25 percento guadagnerebbe meno di 600 euro al mese.

Commentando la situazione, la parlamentare tedesca Terry Reintke sostiene che “alcuni non si rendono conto dell’ingiustizia rappresentata da questa situazione.” Altri invece, “si oppongono proprio in generale all’idea di retribuire uno stagista, perché retribuirli significherebbe non poterne prendere più così tanti. Affermano di ricevere continue candidature da parte di persone disposte a lavorare gratuitamente, quindi perché smettere? Per me, un ragionamento di questo tipo non fa che alimentare il circolo vizioso.”

A volte, anche in assenza di retribuzione, i datori di lavoro richiedono di stipulare una convenzione di stage con un’università o un ente privato, così da demandare i costi per l’assicurazione sul lavoro. “In un caso,” spiega Lucas, “per riuscire ad accedere a uno stage mi sono re-iscritto all’università. Non ho dato esami, ho solo pagato la tassa d’iscrizione. Non è stata una grossa spesa, e almeno ho avuto diritto all’abbonamento studenti per i mezzi pubblici.”

Molte ONG, invece, offrono una convenzione di volontariato. Nino, fondatore di B!NGO, è passato per una di queste esperienze. “Il contratto permette di coprire tutto il periodo di stage,” spiega. “Ma non è troppo onesto, perché non si tratta di volontariato.” Tra le ONG accusate di giocare “sporco” c’è anche Human Rights Watch. Nel 2015, una lettera interna degli stagisti dell’ufficio di Bruxelles aveva denunciato l’assenza di retribuzione volta a sostenere un “sistema iniquo”. Oggi, Andrew Stroehlein assicura di non avere più stagisti non retribuiti. Ma ammette che per molto tempo le ONG, tra cui anche HRW, hanno considerato gli stagisti al pari di volontari. “Gli stage di questo tipo,” aggiunge, “sono ingiusti sia per la persona singola che per la società. E danneggiano il nostro stesso funzionamento. Mi spiego: se per fare uno stage devi potertelo permettere, inizi a ricevere solo candidature dall’Europa Occidentale. Mentre per lavorare noi abbiamo bisogno di persone che parlino lo slovacco, il ceco e via dicendo. Ovvero, persone che vengono dai paesi meno ricchi.” L’eterno problema? Il budget. “Non abbiamo i mezzi di una grande lobby, stiamo in piedi grazie alle donazioni,” aggiunge. “Ed è su questa base che bisogna pensare alle donazioni: l’idea di dare dei soldi per sostenere un progetto concreto ti invoglia. Fare una donazione per retribuire degli stagisti, meno.”

Per ovviare a ciò, HRW ha optato per una soluzione “creativa”, come la definisce la stessa organizzazione: “Accettiamo solo gli stagisti del programma Erasmus o Erasmus +,” spiega Andrew Stroehlein. Chi è parte di questo programma riceve una borsa di 450 euro al mese con possibilità di supplemento. In questo modo non è HRW a pagare, ma lo stagista riceve comunque una retribuzione.

Al di là dell’aspetto economico, B!NGO e Terry Reintke denunciano anche irregolarità circa la qualità degli stage. “Non si possono usare stagisti come finti dipendenti,” sottolinea Bryn. “Se un’azienda o un’organizzazione non funziona senza stagisti, vuol dire che deve mettere in discussione la sua stessa esistenza. E non sono situazioni così rare.”

Molti stagisti non ne parlano volentieri per paura di avere difficoltà in futuro; in tanti preferiscono cercare consigli sui vari gruppi Facebook. Ma nel 2013 un gruppo di stagisti infuriati si è riunito davanti al Parlamento per una “protesta del sandwich“—usando il panino come simbolo della loro precarietà.

Naturalmente non esistono solo i lati negativi: i buoni stage ci sono, e alcuni possono anche essere la porta d’accesso a un buon lavoro. Benoit, per esempio, è stato assunto da un’organizzazione in seguito al primo stage post-laurea. Su Skype—si stava recando in Slovenia per lavoro—mi ha spiegato che ha avuto molta fortuna. “Mi sono trovato al momento giusto nel posto giusto.” Laureato in un’università prestigiosa di Bruges—con una retta di 24mila euro all’anno, Benoit ha aggiunto che però molti dei suoi ex compagni di studi stanno “ancora facendo stage.”

Se alcune competenze—come una specializzazione ben precisa e un’ottima padronanza delle lingue—facilitano la ricerca di un lavoro, è anche necessaria una buona dose di fortuna. E il problema è sempre lo stesso: i posti di lavoro sono inferiori al numero di candidati. “Noi non ci battiamo per la creazione di posti di lavoro che non esistono,” dice Bryn. “Ci battiamo semplicemente contro gli abusi e per l’uguaglianza.” Comunque, Lucas non ha perso le speranze: “Credo che a 25 anni sia troppo presto per rinunciare ai propri sogni.” Gisela, invece, si è iscritta a un corso serale per conseguire il secondo master, in diritti umani: “Voglio diversificarmi dagli altri candidati. Con questa qualifica potrei lavorare ovunque.”

A Place du Luxemburg si beve, si brinda e si fa unetworking. Fabian sembra felice a Bruxelles. Tuttavia, in tre settimane di stage ha già imparato a essere realistico: “Mi rendo conto che non sarà facile trovare un lavoro. Infatti ho già in mente di cercare qualcosa a Berlino o a Vienna.”

*Il nome è stato cambiato.

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