Francesca Leonardi ha fotografato la vita nelle case occupate di Castel Volturno

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Uno degli ingressi al Parco Saraceno, complesso abitativo nel Villaggio Coppola. Tutte le foto di Francesca Leonardi/Contrasto.

‘O post mio’ è un lavoro che ha portato la fotografa Francesca Leonardi a seguire la vita di Claudia che, insieme alle sue figlie, ha occupato una casa al Parco Saraceno, a Castel Volturno. È in corso una campagna di crowdfunding per la pubblicazione di un libro collegato—tutti i dettagli sono qui. Per l’occasione riproponiamo questa nostra intervista, in cui Francesca ci racconta come ha conosciuto Claudia e deciso di raccontare la sua storia.

Questo post fa parte della rubrica in collaborazione tra Contrasto e VICE Italia; in questa puntata abbiamo parlato con Francesca Leonardi, fotografa romana nata nel 1975.

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Nei piani di chi lo aveva concepito, nella seconda metà degli anni Sessanta, Villaggio Coppola doveva diventare una delle appendici turistico-balneari di Castel Volturno, in provincia di Caserta. Ma decenni di problemi legali, eventi naturali come il terremoto dell’Irpinia e manovre politiche hanno trasformato la zona in un’oasi abbandonata di abusivismo e illegalità.

È sotto questa luce che lo ha conosciuto la fotografa Francesca Leonardi, che nel 2010, durante un lavoro sulla vita dei migranti in Italia, si è imbattuta nel villaggio. Francesca ha iniziato a fotografare negli Stati Uniti, dopo essersi laureata in psicologia a Roma. Da allora ha lavorato principalmente sui temi dell’immigrazione e dell’urbanizzazione, e il suo progetto sul Villaggio Coppola, Terra di Cemento, parte da quest’ultimo aspetto.

Affascinata dal villaggio Francesca ha infatti deciso di tornare in altre occasioni per fotografarne l’architettura; poi, durante uno dei sopralluoghi, ha incontrato Claudia, una donna con tre figli, un ex marito detenuto, una vita emotiva altalenante e rapporti molto intensi con la comunità. Il loro rapporto è sfociato in un’amicizia che dura ancora oggi: per cinque anni, ad ogni sua visita, Francesca si è immersa nella quotidianità di Claudia fotografandone i vari aspetti.

L’ho contattata per parlare di questo rapporto, dei suoi obiettivi e di come, da fotografa, si sia trovata molto spesso a esplorare l’intimità dei suoi soggetti.

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Claudia con le sue due figlie, Alessandra e Federica, in viaggio verso il carcere dov’è detenuto il padre delle figlie e suo ex compagno.

VICE: Hai iniziato a interessarti alla fotografia negli Stati Uniti, a Miami, lavorando come assistente nella fotografia di moda. Ma da allora hai preso tutt’altra direzione…
Francesca Leonardi: Sì, quell’esperienza è stata fondamentale per la mia formazione, mi ha permesso di assorbire gli aspetti canonici della fotografia e moltissime nozioni tecniche, importantissime in quel mondo focalizzato sull’aspetto estetico. Ma ho capito immediatamente che la moda non faceva per me, e poco tempo dopo ho lasciato Miami per New York.

A New York avevo bisogno di lavorare, ho continuato a fare l’assistente e ho frequentato l’International Center of Photography, dove ho conosciuto dei fotografi meravigliosi. In quel contesto ho cominciato a pensare all’aspetto narrativo della fotografia, alla necessità di avere delle storie da raccontare, da seguire.

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Federica, secondogenita di Claudia, mentre gioca con una bottiglia di plastica in mezzo alle palazzine abbandonate del Parco Saraceno.

Qual è stato il tuo primo progetto?
Ho cominciato a fotografare una famiglia ecuadoriana, e capito da subito che ciò che m’interessava era indagare all’interno dell’intimità delle persone. Poco dopo sono dovuta tornare in Italia, ma sentivo la necessità di continuare a lavorare su quella che era la tematica che più mi aveva interessato negli Stati Uniti: l’immigrazione. [Tutto è iniziato perché] a New York mi sentivo immigrata in terra straniera e ho cominciato a frequentare altri ‘immigrati’—persone come me, lontane dalla propria casa e dalle proprie radici, incontrandomi con i vari temi che a essi sono legati: la solitudine, la nostalgia, le differenze culturali.

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Federica il giorno della vigilia di Natale,

all’interno della loro abitazione occupata al Parco Saraceno..

Credi che il fatto che tu ti sia formata professionalmente negli Stati Uniti abbia lasciato un’impronta sul tuo lavoro?
Fino ai 20 anni ho vissuto in Italia, quindi i miei riferimenti culturali ed estetici sono italiani. New York, con le sue ricche gallerie d’arte e libertà espressiva, mi ha dato senz’altro degli stimoli creativi che non avrei potuto avere in Italia. Credo anche che confrontarmi con tanti fotografi e artisti provenienti da diversi paesi mi abbia aperto la mente alle molte possibilità d’espressione.

A influenzare il mio lavoro credo poi siano stati gli insegnanti di fotografia che ho incontrato all’ICP e i fotografi con cui ho lavorato come assistente. All’ICP ho conosciuto Amy Arbus, che mi ha spinto a superare i molti timori iniziali che avevo e a cercare un certo tipo d’intimità.

Parliamo del tuo ultimo progetto, Terra di Cemento. Come nasce?
Terra di Cemento nasce da un’indagine che ho fatto a Castel Volturno sulla via delle migrazioni in Italia da parte dei richiedenti asilo. In Bed dreams, il progetto precedente a questo, mi sono occupata delle condizioni di vita degli immigrati e dei richiedenti asilo politico in Italia, e fotografando la comunità immigrata—soprattutto quella nigeriana—sono entrata nel Villaggio Coppola, che ho poi soprannominato Terra di Cemento.

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Alcuni dei palazzi disabitati in riva al mare del Villaggio Coppola.

Quando hai capito che quel luogo meritava un progetto a sé?
È successo tutto in modo molto naturale. Più andavo a fondo più la storia m’interessava, e di conseguenza ho sentito la necessità di conoscere le persone che abitavano quelle case, le loro storie personali. Sono tornata più volte per fotografare le strutture, ho cercato di trovare uno stato emotivo da legare a quei luoghi praticamente abbandonati, con palazzoni che sembravano strutture dell’Europa dell’Est, case molto diverse da quelle intorno.

Sapevo che c’erano tante persone legate ambiguamente alla legalità. Ho incontrato diversi residenti, tra cui Claudia, che poi è diventata la protagonista della parte successiva del progetto.

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Claudia in un momento di pausa nel bar dove lavora come cameriera del turno di notte.

Come hai fatto ad avere accesso alla sua quotidianità?
È stato un rapporto costruito nel tempo, nato con un caffè. Lei era tanto curiosa di me quanto io di lei. Ho iniziato a raccontarle della mia vita e gradualmente è nato un rapporto di fiducia. La sua è sempre stata una casa aperta ai tanti conoscenti e amici ed è una persona molto ospitale.

La seconda volta che ci siamo incontrate già mi ha invitata a dormire sul divano di casa sua, e questo ha facilitato tantissimo, perché voleva dire vivere la storia dall’interno. Sono entrata in contatto con le sue figlie, con le quali spesso condividevo la stanza. Ci addormentavamo con i miei racconti sull’America e le loro storie del Villaggio Coppola.

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Claudia durante l’attesa del terzo figlio.

Credi che questo rapporto di amicizia abbia influito sul tuo lavoro?
Condividere con lei la quotidianità è stato estremamente cruciale per la storia e dall’altro lato anche molto difficile. Io ero parte integrante della storia, e alle volte non è stato facile fare un passo indietro ed esserne testimone e non soggetto. Claudia è una persona con stati emotivi molto altalenanti, con picchi di grandissimi slanci sia positivi che negativi. Più il rapporto si faceva intimo, più era difficile non intervenire in determinate circostanze.

In quei momenti mi ha fermato la presenza della macchina fotografica: sapevo di dover avere la lucidità per farle avere una prova di ciò che stava succedendo dall’esterno, quello era il mio compito in quel momento e l’atto di fotografare era tanto per me quanto per lei.

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Claudia ed Emiliano,

padre del terzo figlio di Claudia, durante una violenta discussione all’interno della loro abitazione occupata, al Parco Saraceno.

Si tratta di scatti quasi ‘rubati’ che ritraggono queste persone nel quotidiano; è stata una scelta quella di non usare pose o scenari?
Non ho fatto nessun tipo di scelta estetica. Cerco di lasciare tutto al momento e al fluire delle situazioni. Penso che la situazione in cui mi sono ritrovata mi abbia permesso di avere un punto di vista molto privilegiato, di sparire. Quindi quel tipo di scatti mi sembravano il modo migliore per poter raccontare la storia dal suo interno.

A Claudia è piaciuto il progetto?
Un paio d’anni dopo che ci conoscevamo ho avuto la necessità di farle vedere le foto che avevo scattato fino a quel momento, ritenevo importante che accettasse il mio lavoro. Claudia tiene molto al suo aspetto fisico ed è abituata a vedersi in un certo modo—quindi non avevo idea di cosa avrebbe pensato di quegli scatti che la ritraevano anche in momenti di forte emotività.

Le ho portato le foto, e lei le ha sfogliate senza fare nessun commento mentre io me ne stavo timorosa a cercare di capire che ne pensava. Non mi ha detto niente finché non siamo andate a portare altre fotografie alla sua vicina di casa, una donna nigeriana anche lei ritratta nel progetto. Guardandosi, la donna ha detto “sono messa malissimo” e Claudia le ha risposto “non sono foto in cui ti vedrai bella, sono foto della tua vita, della tua quotidianità: in queste foto ti vedrai come veramente sei.” Quella frase è stata più importante di ogni frase di convenienza che avrebbe potuto pronunciare ed è stata una grande soddisfazione, dato che rifletteva perfettamente quello che era l’intento del mio lavoro.

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Federica mentre viene sgridata dalla madre Claudia

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E questo intento è ricorrente? Dagli Stati Uniti alla Colombia all’Egitto hai esplorato diverse realtà: c’è un denominatore comune che unisce i tuoi lavori?
Ogni volta seguo le necessità di conoscenza che sento nel momento. Sono sicuramente curiosità umane, e sono delle curiosità che mi portano sempre più all’interno di situazioni, in cui cercare un’esperienza personale.

In tutti i miei lavori, in Egitto come nel Villaggio Coppola, ciò che mi preme è la costruzione di un rapporto di fiducia con le persone che sto fotografando. I miei progetti sono storie che riguardano esistenze individuali attraverso le quali poter raccontare la tematica e il contesto sociale.

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Claudia ed Emiliano, padre del terzo figlio di Claudia, sul divano della loro abitazione occupata, al Parco Saraceno.


Per vedere altre foto di Francesca, vai sul suo portfolio sul sito di Contrasto.

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