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Questo ragazzo è fuggito dalla Corea del Nord per diventare uno chef di sushi negli USA

Daniel progettava la sua fuga da settimane. I dieci minuti a piedi che separano casa sua dal fiume ghiacciato sul confine cinese sarebbero stati semplici. Poi avrebbe attraversato il ghiaccio, che sarebbe dovuto essere abbastanza solido per reggere il suo peso—ma non poteva esserne certo. Se ce l’avesse fatta, sarebbe stato fuori dalla Corea del Nord.

Quella mattina, il 19enne si è alzato presto ed è scivolato silenziosamente fuori dalla porta, senza salutare nessuno. Sapeva che la sua famiglia avrebbe cercato di fermarlo se gli avesse raccontato del suo piano. Mancavano due giorni all’undicesimo compleanno del suo fratellino.

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Daniel, un ragazzo magro, alto circa un metro e settanta, non è molto bravo a nuotare. Probabilmente sarebbe stato peggio per lui cadere nelle acque gelide che essere catturato dai soldati che sorvegliano la zona. Chi viene catturato è costretto a pagare una mazzetta—oppure viene spedito nei campi di prigionia.

Il ghiaccio ha retto. Daniel si è scapicollato ad attraversare il fiume, arrampicandosi sulla riva opposta ed entrando in Cina. Nel suo piano, avrebbe dovuto trovare un lavoro migliore del rovistare tra le lamiere o faticare nei campi, ovvero di quello che faceva in Corea del Nord.

“Le persone morivano di fame,” racconta Daniel della sua gioventù in Corea. “Anche quando andavo a scuola, lavoravo così tanto che mi addormentavo in classe. Lavoravo nei campi dalle sei alle otto, poi mi lavavo la faccia e andavo a scuola. Sapevo di non avere un futuro lì.”

Non è stato possibile verificare i dettagli della fuga di Daniel, nel 2010. Tuttavia, quello che è certo è che dopo aver percorso migliaia di chilometri, attraversato illegalmente almeno un altro confine, fatto richiesta d’asilo e lottato contro la burocrazia, ha finalmente trovato un nuovo lavoro. Ora prepara sushi in California, vicino a San Francisco.

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Daniel, uno pseudonimo adottato per proteggere la sua famiglia rimasta in Corea del Nord, ha raccontato a VICE News la sua storia, seduto al tavolo da pranzo del suo bilocale. La sua casa è modesta; un divano nero è l’unico mobile oltre al tavolo, su cui sono disposti ordinatamente dei calici per il vino, un set da tè, un vaso di fiori finti, e delle tovagliette con su scritto “Benedici la Nostra Casa.”

È uno dei 186 rifugiati che si sono stabiliti negli Stati Uniti dall’approvazione del North Korean Human Rights Act del 2004, una legge che ha creato un iter grazie alla quale chi fugge dalla Corea del Nord può ottenere asilo negli USA. Del gruppo fa parte una piccolissima percentuale dei disertori sparsi in tutto il mondo. La maggioranza – ad oggi più di 28.000 – vive nella Corea del Sud, dove un programma governativo li aiuta ad adattarsi alla loro nuova vita.

Tutti i disertori rischiano moltissimo. Oltre a dover affrontare le guardie di frontiera della Corea del Nord, sono spesso arrestati e rimpatriati dalle autorità cinesi, sostenitori del regime di Kim Jong-un. Coloro che vengono mandati indietro sono condannati ad anni di lavori forzati e abusi, e spesso incontrano la morte nei brutali campi di prigionia. Ma oltre a condividere la minaccia delle violenze fisiche, la manciata di nord coreani che si dirige in America invece che in Corea del Sud deve affrontare uno strato aggiuntivo di sfide culturali, psicologiche ed emotive.

I nordcoreani vivono sparsi in più di trenta città americane, da Los Angeles a Chicago fino a piccole cittadine dell’Idaho, della Virginia e del Kentucky. Passare dal piccolo stato isolazionista al regno dei fast food, del consumismo e delle libertà individuali è come piombare in un universo parallelo. Quelli coraggiosi e fortunati abbastanza da raggiungere l’America si godono la sicurezza e la libertà, ma la vita nella terra delle opportunità può essere anche scoraggiante. Molti disertori vengono abbandonati a loro stessi.

Daniel può passare facilmente per un coreano-americano, nato e cresciuto negli Stati Uniti. Sembra in salute e vive una vita dignitosa. Guida una macchina, cosa che sarebbe stata considerata un lusso sfrenato in Corea del Nord. Ma non può fare a meno di pensare alla sua vecchia vita con una vena di nostalgia. Vive da solo, e non parla con la sua famiglia da più di cinque anni.

“Mi manca tutto,” dice in coreano. “L’odore della terra. Il fango. Tutto. Non mi rendevo conto dell’importanza di una famiglia. Ora non ce l’ho più.”

Dopo aver attraversato il fiume Yalu durante la sua fuga, Daniel dice di aver marciato attraverso le montagne, diretto verso una cittadina cinese a circa un’ora di distanza. Era già stato in Cina una volta da adolescente, quando aveva attraversato il confine con un amico di famiglia che chiamava “zio.”

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Lasciare la Corea del Nord senza un permesso è illegale, ma alcune persone che vivono lungo il confine si dirigono nelle città del nord-est della Cina, dove vive una numerosa comunità di etnia coreana, per guadagnare soldi o reperire della merce da rivendere in Corea.

Le cose non sono andate secondo i piani. Daniel aveva solo 15 anni – troppo giovane per trovare lavoro – ed è finito a “girovagare da un posto all’altro” per quasi tre anni prima di tornare a casa.

Ma la vita in Cina gli ha aperto gli occhi. Ha capito di aver subito un lavaggio del cervello crescendo in Corea del Nord. Nel 2009, Kim Jong-il, padre dell’attuale leader Kim Jong-un, era ancora vivo, e l’economia del paese era in rovina. La carestia che aveva ucciso centinaia di migliaia di persone alla fine degli anni ’90 era finita, ma la sicurezza alimentare era ancora un problema. Ai coreani veniva imposto di venerare la famiglia Kim, ma Daniel aveva perso la fede.

“Quando avevo 12 o 13 anni, credevo fermamente che il Caro Leader non andasse in bagno, lo consideravo un essere divino, unoche viveva su un piano completamente diverso dal nostro,” dice Daniel.

Poco dopo il suo ritorno, i suoi genitori hanno deciso di trasferirsi in una città sul confine cinese – Daniel non vuole rivelarne il nome per proteggere la sua famiglia – per vivere vicino alla nonna materna. La sua frustrazione con il regime nord-coreano è cresciuta mentre vedeva fame e privazione tutto intorno a sé.

“Avevo assaggiato la libertà, e la mia prospettiva era cambiata molto,” dice. “Il lavaggio del cervello e l’indottrinamento in Corea del Nord erano strumenti politici. Il nostro leader ci diceva che la nostra era una bella vita, mentre le persone morivano di fame e non avevano una casa—ho pensato, ‘questa è una bugia.’”

Ha iniziato a pianificare la sua seconda fuga senza dire nulla alla famiglia. “È l’unica cosa che mi spezza il cuore,” dice mentre esprime rimorso per non averli salutati. “Se avessi detto ai miei genitori che stavo cercando di andarmene, avrebbero detto ‘A volte si hanno i soldi, a volte no. È la vita, bisogna solo sopravvivere. Questo è l’importante—quello che conta è essere vivi.’”

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Daniel era già stato ospite di un’anziana cinese che lui ha iniziato a chiamare “nonna.” Il suo numero di telefono era ancora attivo, e quando l’ha chiamata lei è stato molto felice di sentirlo. È passata a prenderlo, poi hanno viaggiato in autobus fino a un’altra città della regione. Lì lo ha messo in contatto con un missionario cristiano che, dice Daniel, sapeva come aiutare i rifugiati a raggiungere la Corea del Sud o gli Stati Uniti.

“Alcuni missionari ti danno solamente dei soldi e ti dicono di tornare in Corea del Nord per diffondere il verbo, ma quest’uomo non lo ha fatto, ” dice Daniel. “Mi ha chiesto se volessi andare in America o in Corea del Sud. Io ho detto ‘America.’ Allora non sapevo nulla sugli Stati Uniti.

Gli Stati Uniti hanno combattuto contro la Corea del Nord durante la guerra di Corea, e i nord coreani sono ancora bombardati dalla propaganda anti-americana. Nel suo primo viaggio in Cina, Daniel aveva imparato che gli Stati Uniti sono un paese ricco—contrariamente a quanto gli era stato spiegato dal suo governo.

“Qualsiasi cosa legata all’America ha una connotazione molto negativa [in Corea del Nord], ma ero curioso,” racconta Daniel. “Sapevo che gli Stati Uniti sono un paese ricco, ho pensato che forse sarei dovuto andare lì. In Corea del Nord, ci insegnano a odiare l’America, ma in parte è per quello che volevo andarci.”

Daniel seduto sul divano nel suo appartamento. (Foto di Grace Kim/VICE News)

Il missionario ha messo Daniel in contatto con un rappresentante di Liberty in North Korea (LINK), una ONG di Los Angeles che lavora con i rifugiati nord-coreani. Da quando è stata fondata nel 2004, LINK ha aiutato più di 400 disertori ad attraversare la Cina e il sud-est asiatico per arrivare in Corea del Sud o negli Stati Uniti, dove possono fare richiesta di asilo politico.

Sokeel Park, il direttore della ricerca e della strategia di LINK, ha spiegato in un’intervista telefonica dal suo ufficio di Seoul che la sua organizzazione non compie “estrazioni”—non aiuta le persone ancora dentro la Corea del Nord a scappare dal paese. Invece, LINK si occupa dei rifugiati come Daniel che sono già scappati, o riceve “raccomandazioni” dai disertori rimasti in contatto con le famiglie tramite cellulari trafugati o altri mezzi di comunicazione e sanno che stanno per scappare.

Sia la Cina che la Corea del Nord cercano di arrestare i disertori—e potenzialmente coloro che li aiutano a scappare. Per questo, Park ritiene che la “sicurezza operativa” sia di fondamentale importanza, quindi il primo passo dopo aver incontrato i rifugiati è di verificarne l’identità. Quando LINK è sicura che non si tratti di agenti del regime coreano, si organizza per trasferire i disertori dal confine cinese nord-orientale in un paese terzo, solitamente nel sud-est asiatico, dove i rifuagiati possono mettersi in contatto con il Dipartimento di Stato americano.

“Il tutto può avvenire molto velocemente,” spiaga Park. “Possono volerci anche solo pochi giorni.”

In passato, i disertori potevano anche semplicemente recarsi nei consolati o nelle ambasciate americane in Cina per ricevere protezione. Tuttavia, per poter uscire dall’avamposto diplomatico e spostarsi nella destinazione successiva, c’era bisogno del lasciapassare del governo cinese, e Pechino ha iniziato a far passare mesi o anni prima di permettere ai rifugiati di continuare il loro viaggio. La Cina ha anche rafforzato i controlli fuori dalle ambasciate americane, rendendo più difficile l’accesso alle strutture diplomatiche.

Alcuni vanno verso ovest, in Mongolia, attraverso il deserto del Gobi, ma il percorso è così pericoloso che gran parte dei rifugiati decide invece di dirigersi verso sud. Daniel dice di aver attraversato la Cina con numerosi treni e autobus, e di aver raggiunto dopo un viaggio di quasi 5.000 chilometri un paese del sud-est asiatico—di cui non vuole fare il nome per proteggere i memberi di LINK e gli altri disertori che compiono lo stesso percorso.

Daniel sapeva che le autorità cinesi erano alla ricerca di disertori come lui, ma LINK aveva già organizzato tutto. Questo voleva dire che Daniel non poteva fare nulla se non sperare e pregare che tutto andasse liscio. Generalmente i viaggi organizzati da LINK hanno successo – secondo Park circa il 95 per cento dei viaggi va a buon fine – ma non ci sono garanzie.

“Sapevo che era rischioso,” dice Daniel alzando le spalle. “Sono stato fortunato.”

Il viaggio di Daniel è durato anche meno del solito. Ha aspettato cinque mesi un una località che il suo traduttore, membro di LINK, si rifiuta di divulgare per motivi di sicurezza. Ha letto libri, guardato la TV, e cercato di studiare l’inglese per prepararsi alla sua nuova vita in America.

“In Corea del Nord è impossibile prendere un aereo,” spiega, ancora sbalordito dal ricordo del suo primo volo.

Dopo un breve scalo in Corea del Sud, il volo di Daniel è atterrato a Los Angeles. Ha viaggiato insieme ad altri rifugiati, tra cui due donne che sono poi diventate sue coinquiline. Le chiamava “sorelle.” Ricevevano un piccolo contributo economico da un’associazione finanziata dall’ufficio del governo americano per l’accoglienza dei rifugiati. LINK forniva sostegno aggiuntivo e presto hanno tutti trovato lavoro.

“Mi pento di non aver iniziato a studiare inglese prima, invece di cercare subito un lavoro,” dice Daniel. “Ma non avevo scelta, dovevo lavorare.”

Daniel ha trovato lavoro nel posto più americano che esista: un centro commerciale. Lavorava in un ristorante/panetteria dalle 6 del mattino a mezzogiorno; poi, dalle 12:30 alle 17:00, faceva l’aiuto cameriere in un altro ristorante del centro. Riusciva ad andare avanti, ma voleva di più. Alla fine è stato licenziato dal primo lavoro e si è dimesso dal secondo. Dice di aver passato un mese a letto, in preda alla depressione.

“Volevo guadagnare un sacco di soldi,” dice. “Volevo comprare le cose che avevano tutti. Ero molto ambizioso. Ero avido.”

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Dal 1999 in Corea del Sud è stato istituito un centro di sostegno dove i disertori nord-coreani possono seguire tre mesi di orientamento in cui imparano come svolgere operazioni basilari come fare la spesa al supermercato o ritirare i soldi dallo sportello del bancomat, che in Corea del Nord nemmeno esiste. Frequentano anche dei corsi per imparare determinati mestieri, o per dis-imparare le distorte nozioni di storia acquisite nel nord. Per cinque anni ricevono anche un sostegno economico dal governo.

Secondo Kris Potter, manager di LINK che si occupa dell’adattamento negli Stati Uniti, e traduttore durante una delle interviste con Daniel, i rifugiati sono “resilienti” e “molto determinati.” Ha detto che molti di loro riescono a trovare un lavoro in America appena arrivati. “Riescono sempre a trovare un modo per essere autosufficienti,” ha spiegato Potter. “[Per loro] non è un problema trovare un lavoro; la sfida più grande è l’inserimento nella società americana.”

Come per altri rifugiati che non parlano inglese, la barriera linguistica è un grande ostacolo per i nordcoreani, e molti finiscono per isolarsi all’interno delle comunità coreano-americane. I rifugiati più giovani approfittano della loro età per iscriversi a scuola, frequentare le lezioni di inglese e ricevere un’educazione americana, ma generalmente per gli adulti non è possibile.

“Il governo americano non riconosce l’educazione superiore ricevuta in Corea del Nord, e comunque molti dei disertori non hanno un diploma di scuola superiore,” ha detto Potter. “Devono iniziare dalle basi.”

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Dopo svariate ore di conversazione con Daniel, si è passati a parlare della percezione che gli americani hanno della Corea del Nord. Non aveva mai sentito parlare del film The Interview, in cui James Franco e Seth Rogen recitano la parte di due giornalisti americani che vogliono uccidere Kim Jong-un. Ha guardato il trailer sul suo iPhone per circa 90 secondi, poi ha chiuso il video e scosso la testa.

“Non è divertente,” ha detto in inglese.

Tramite il traduttore, ha spiegato che capisce perché alcune persone potrebbero trovare divertente “il Leader,” come ha definito Kim. Ma per Daniel, c’è poco da scherzare.

Dalla Corea del Nord arrivano così spesso storie stravaganti – come quella secondo cui Kim avrebbe ucciso un allevatore di tartarughe “incompetente” – che le violazioni di diritti umani e la mancanza di cibo sono spesso banalizzati. Il fatto è che diventa sempre più difficile scappare dalla Corea del Nord. Dal 2007 al 2011, circa 2.600 persone sono scappate ogni anno in Corea del Sud. Nei due anni seguenti, quando Kim Jong-un è salito al potere dopo la morte del padre, è stata rafforzata la sicurezza alle frontiere e le defezioni sono crollate del 44 per cento. Secondo un sondaggio del 2014, meno della metà degli americani aveva sentito parlare dei campi di prigionia della Corea del Nord.

Nonostante le condizioni terribili in cui versa il paese, negli anni alcuni disertori hanno cercato di tornare a casa. In un caso, il governo della Corea del Sud ha impedito a una donna di 45 anni di tornare dal marito, dalla figlia e dai gentiori malati. Oltre a motivi familiari che li spingono a voler tornare, a volte i coreani del nord vengono ostracizzati in Corea del Sud.

“C’è un forte retaggio,” dice Park, che lavora per LINK a Seoul. “C’è un senso di incertezza e curiosità, che a volte diventa eccessiva. Se sei un rifugiato nord-coreano, non è solo una delle tue etichette, è una cosa che ti identifica e che influisce su tutte le tue interazioni.”

Daniel è guarito dalla depressione che l’ha tenuto a letto per un mese, e ora lavora come chef in un ristorante di sushi di proprietà di un coreano. È molto fiero del suo lavoro: spiega che il riso deve essere “perfetto” e i filetti di pesce devono essere dello spessore giusto; ma è anche chiaro che nella sua vita manca qualcosa. Quando gli viene chiesto cosa gli piace fare nel tempo libero, risponde: “Pulisco casa.” Ha anche iniziato a giocare a golf. “È come un hobby, non lo amo particolarmente, ma sto cercando di apprezzarlo,” dice. “Non ho altro da fare nei miei giorni liberi.”

Ha alcuni amici coreani – uno dei quali ha lasciato una chitarra scordata nel suo salotto – ma non è rimasto in contatto con le due donne con cui ha vissuto appena arrivato in California. Si torna sempre a parlare di cibo—le piante che raccoglievano i genitori per preparare una minestra, o un piatto di tofu con del riso marinato che non riesce a riprodurre in America.

Daniel è riuscito a rimanere in contatto con la sua “nonna” cinese, ma non è stato in grado di comunicare con la sua famiglia. Alcuni disertori mandano i soldi a casa tramite elaborate reti di contrabbando—si stima che ogni anno circa 13 milioni di euro vengano mandati in Corea del Nord da familiari che vivono in Sud Corea o negli Stati Uniti. Daniel ha detto di sentirsi in colpa per il suo stile di vita, che è relativamente umile.

“Un tempo pensavo che la stabilità economica fosse la cosa più importante, ma ho capito che non è così,” dice. “Le relazioni umane, quelle sono la cosa più importante nella vita.”

Quando gli è stato chiesto se consiglierebbe ai suoi genitori o ai suoi fratelli di scappare, ha risposto che lo direbbe solo ai suoi fratelli più giovani, mentre i suoi genitori sono troppo vecchi. Ha ancora nostalgia di casa, ma ha in programma di richiedere la cittadinanza americana il prossimo anno e di aprire, eventualmente, un suo ristorante.

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“Non è un grande sogno, ma ho capito che non importa dove lavori, che sia un ristorante o qualsiasi altra cosa, quello che conta è la tua mentalità,” spiega. “Quella è la cosa più importante.”

La sua casa è decorata solo da una foto della Toscana che ha comprato in un mercatino. Mostra una villa solitaria sulla cima di una collina, circondata da campagna verdeggiante. Dice che in futuro, se la Corea del Nord si aprisse e fosse sicuro per lui tornare, vorrebbe costruirsi una bella casa e tornare a fare il contadino, magari con un gregge di pecore. Per ora però, è dedito alla sua nuova vita in America.

“Ho dovuto imparare a essere autosufficiente, e ce l’ho fatta, ” dice. “A volte mi sento triste, ma quando mi guardo indietro, vedo che sono sopravvissuto. Che ce l’ho fatta.”

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