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Che cos’è diventata la Dark Polo Gang?

Illustrazione di Yara de Freitas. Seguila su Instagram e Facebook. 

Negli ultimi mesi sono successe molte cose che hanno sfidato il mio livello di comprensione della realtà, e fatto capire che dare una spiegazione un minimo logica a tutto ciò che vedo, leggo e penso non è oggettivamente possibile.

Tipo: credevo che la società—proprio a livello globale—stesse lentamente ma inesorabilmente andando verso un’evoluzione culturale vagamente progressista. L’esempio me lo dava il fatto che esprimere valutazioni ‘reazionarie’ o ‘conservatrici’ sembrava ormai suonare rischioso, in qualche modo, lontano dal concetto di modernità—tanto da arrivare al punto che persino le multinazionali hanno cominciato a produrre promo inclusivi a sostegno di temi come—esempio—i diritti civili.

Invece Trump, Brexit, la Francia, l’Olanda, Le Iene. Avevo sbagliato, e devo ancora capire dove.

Allo stesso modo, mentre poco più di un anno fa mi spostavo verso il locale milanese che stava per ospitare il primo concerto della Dark Polo Gang, credevo stessimo convergendo—e in pochi—per cercare di capire essenzialmente due cose: primo, di cosa stessimo parlando da settimane; secondo, a quale livello di ironia si stava posizionando il nostro ascolto delle loro canzoni. 

Invece non sono neppure riuscito ad entrare. Ed erano—eravamo—tutti abbastanza seri.

Da allora sono cambiate molte cose e la mia percezione di Dark Polo Gang—che all’epoca rimbalzava dall’apprezzamento per le strumentali di Sick Luke alla curiosità per il filone italiano che da “Cavallini” in poi ha preso piede come un pianeta che segue la sua orbita circondando una Air Jordan 11 incandescente.

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Il primo concerto della Dark Polo Gang.

Da quel giorno hanno cominciato pigramente a circolare i primi spiegoni su cosa fosse questa cosa senza mai riuscirci pienamente, passando persino dalle pagine del Corriere della Sera: i loro testi sono stati oggetto d’analisi più o meno serie, oscillando dal “mi fanno tenerezza” al paragonarli all’incedere “anti-narrativo” di Bret Easton Ellis.

La verità, però, è che ancora oggi è difficile darne una definizione: Noisey qui è stata tra i primi a incontrarli per capire da che persone provenissero versi come “Vuoi fottere la gang? Non fa bene alla salute come troppa carne rossa,” e ancora adesso quell’articolo è l’101 per i novizi. Dovendo spiegare il grado zero della Dark Polo Gang per chi legge quest’articolo e non li conosce, però, si potrebbe cominciare dalle basi dicendo che la DPG sono quattro ragazzi romani—Side, Wayne, Tony Effe, Pyrex, più il producer Sick Luke—che fanno musica trap (qualsiasi cosa voglia dire) mescolando elementi della scena americana a un racconto del tutto personale della propria figura pubblica, e improntato a concetti come lusso, inside joke, fare cose con la droga e coi soldi, chiamare la gente nei video usando delle scarpe come telefono.

Questo loro modo di essere, elevato alla N sia nei testi che nei video, li ha portati ad avere una vasta schiera di fedelissimi appassionati e una frangia di hater piuttosto nutrita che ormai valica il tracciato stesso degli appassionati di rap: è un odio che va al di là della musica, ed è fatto di quella stessa materia che potreste esperire se vi fiondaste sulla bacheca di “Sesso, Droga e Pastorizia” per scrivere pubblicamente che vegano è bello.

Comunque sia, sono cosciente del fatto che una definizione del genere non basta a spiegare niente di loro, né di ciò che sono diventati dopo quattro mixtape (?), uscite pubbliche discutibili, esordio in Rai, sgravate sui social e accuse di razzismo: arrivati al marzo del 2017, con un un nuovo album (?) in uscita (Twins) e un singolo di lancio (“Spezzacuori“) che ha già superato 3 milioni di visualizzazioni su YouTube con un’estetica tutt’altro che pacificante, potremmo decidere sia arrivato il momento di farsi alcune domande.

Tipo: perché il mio amico che studia per diventare notaio, non ha mai ascoltato rap in vita sua e li conosce solo attraverso i meme di pagine come questa, ha insistito per andarli a vedere ai Magazzini Generali—dove peraltro hanno fatto il pienone? E perché li ascolto anche io? Perché felpe e cappellini vanno sold out a pochi minuti dal lancio? Cos’è davvero la DPG? E soprattutto: cos’è diventata? Ho cercato di fare delle ipotesi. Magari ci arriviamo.

SONO DEI RAZZISTI?

Voglio partire da questo elemento per chiarire alcune cose: parlare della DPG pubblicamente, da un certo punto in poi, è diventato un tabù. Questo perché in almeno un’occasione Tony Effe l’ha combinata grossa.

Non si tratta del solito dibattito sul sessismo nel rap o sull’uso della parola con la N da parte di chi non abita nei quartieri brutti di Atlanta. No: una persona ha proprio dato della scimmia a un ragazzo ghanese, e poi ha rimosso il video—era una story su Instagram, girata mentre i cinque stavano viaggiando verso Milano. Il tutto è successo perché—pare—Bello Figo avrebbe rifiutato un’esibizione di beneficenza con loro.

Da quell’episodio in poi la loro natura meta-ironica—e tutto sommato innocua—è stata presa (giustamente) sul serio, portando tanti su Facebook (specie nel giro della critica musicale) a chiedere di evitare di “propagandare” i loro contenuti parlandone, e a fare ammenda per averlo fatto precedentemente. Per riassumere: non dare spazio ai razzisti.

Alla fine sono usciti fuori con un video in cui Pyrex—peraltro di origine afro-americana—chiede scusa per tutti. “Ha parlato prima di pensare: tutti noi sappiamo che Tony chiaramente non è razzista, però quelle parole non vanno dette perché io stesso me le sono sentite dire.” Side—in pratica il rappresentante delle istanze anti-militariste e anti-atlantiste nel parlamentino della DPG—si è fatto tatuare il simbolo della pace sulla tempia come pegno.

Il gesto resta. La domanda pure. Sono razzisti?

Probabilmente no, nel senso che azioni del genere sono un’inaccettabile goliardia da stadio priva di senso—quello che Tony chiama “fratellino” è NERO!—comunque da censurare. Ma forse in qualche modo bisogna arrivare al concetto stesso di “razzismo”, per vedere se c’entri o meno qualcosa con questo episodio. Qualche tempo fa erano persino riusciti a far incazzare gli omofobi con dei baci tra i membri e frasi come “Sono frocio per mio fratello.” E allora?

Non lo so: so solo che tutto quello che li riguarda mette a dura prova la mia capacità d’analisi di ciò che ho dentro e intorno a me, che tutto quello che hanno fatto e faranno non potrà non prescindere da questo dibattito, e che probabilmente sono ormai diventati altro da sé. Ma cosa, esattamente?

SONO DEI MUSICISTI?

Malgrado tutto, al di là della cronaca, nonostante le critiche a testi e musiche, io ascolto la Dark Polo Gang. Conosco tutte le loro canzoni, e li ritengo una delle cose musicalmente più interessanti del panorama italiano—nel senso più ambiguo e diagonale del termine. Ma non so dire esattamente perché, né perché lo faccio.

Ecco a voi la base italiana più bella degli ultimi anni.

Da qualche tempo vorrei scrivere un articolo soltanto per potergli mettere il titolo “Ho cercato di capire perché ascolto la Dark Polo Gang anche se ho una laurea in economia” ma non saprei cosa scrivere, e forse è proprio quello il senso: ho davvero capito quello che vogliono fare? O forse non c’è davvero niente da capire? Perché le persone che stimo per acume si dividono fra chi li ritiene quasi geniali e chi vomita dal naso solo a sentirli nominare? E perché cerco di mantenere una dieta culturale presentabile ma quando parte “Sportswear” comincio a muovermi come un bonobo?

Partiamo da due presupposti: uno, le basi di Sick Luke. Sono abbastanza nuove senza inventarsi niente. Indovinano quasi sempre il tiro. Sono ballabili. Da lì ad apprezzarle il passo è veramente breve—specie se poi guardando Sanremo ci facciamo piacere una canzone solo perché suona più veloce di quella di Al Bano, ha i piatti in levare ed è presentata da una persona a caso con meno di 95 anni.

Secondo: le critiche sulla tecnica, il fatto che “non chiudono le rime” e che i loro testi non hanno alcun senso—sono un tema su cui sarei pronto a dibattere per settimane, e che sono sicuro mi porterebbe a toccare il concetto stesso di “musica”: serve a ballare? Serve a veicolare messaggi? Sono rumori in ritmo? È tutto? O nulla? Boh.

Mi starei solo facendo altre domande “base” sull’esistente. Eppure il loro adattamento in italiano di espressioni in inglese (“Stare alti” per dire di essere “high” dopo aver fumato; o i “gioielli malati addosso” per tradurre “sick” nel senso di “figo”), e la continua autocitazione meta-narrativa, ne fanno qualcosa di genuinamente nuovo, che mi porta continuamente a chiedermi come gli possa esser venuto in testa di dire o fare certe cose, per quanto probabilmente prive di significato—sto giustificando il fatto che mi piacciano, in pratica.

Quindi sì, la DPG è—quantomeno—musica. Ma forse. “Forse”, perché loro stessi, di sé, danno un’altra definizione: hanno un’ossessione malata (e piuttosto comune, per la verità, in un certo respiro musicale degli ultimi mesi) per il farsi definire rockstar e per il prendere le distanze da concetti come rap e freestyle, e in generale per il rifiutare la musica come mezzo per fare i soldi (i dischi sono in free, non sono su Spotify) e compiere il loro destino—qualunque esso sia. “Non siamo musica,” “Noi siamo i soldi”. Cosa cazzo sto ascoltando, allora?

SONO DEI MEME?

L’ascesa della trap italiana, per un ampio campione anagrafico cha va dai 12 ai 25 anni (diciamo), è coincisa temporalmente con quella dei meme in Italia. Non è un dato buttato lì alla cazzo: tutta la scena viene ormai declinata attraverso battute più o MENO divertenti, e i gruppi Facebook, i profili Instagram e i canali YouTube a tema ormai non si contano più. Il meccanismo schizza, però, quando si arriva alla DPG—sia che la si apprezzi, sia che la si detesti.

Da una parte, infatti, esistono diversi gruppi online—a volte in attriti fra loro—in cui si parla di DPG in un linguaggio per iniziati e il cui unico scopo è rendere memabile cose, foto, citazioni che sono (o che addirittura potrebbero essere) loro. Dall’altro, però, l’idea stessa di DPG—e tutto quello che portano a rimorchio—è diventata materia prima raffinatissima per alcune delle pagine più popolari (e a trazione bomberista) degli ultimi tempi.

Il materiale con loro sicuramente non manca: basta mettere in contraddizione le cose che dicono o fanno nei video con ciò che effettivamente sono, o citare i vari episodi di cui sono protagonisti, per diventare immediatamente dei meme—anche solo calandoli nel vissuto quotidiano, o riprendendone i video sui social.

“Ho una borsa da duemila piena di fatture”

Allo stesso modo il loro essere continuamente provocatori, e il seguente feedback negativo, sono il propulsore ideale per l’affermazione di questa “versione” della DPG. Risultato: più fama, più hater, ancora più fama, ancora più hater.

Fino a farli diventare totalmente altro da sé: tipo quando il loro nome viene usato da dei troll per creare gruppi Facebook a sfondo sessista, o riempire di commenti negativi e insulti le pagine dei ristoranti, per venire poi segnalati da SELVAGGIA LUCARELLI—che ormai li ritiene una specie di anonymous del trolling.

Probabilmente la loro esistenza stessa è una specie di meme: la loro vita—stando alle storie Instagram—è fatta di giornate in cui fumano blunt in giro per il Rione Monti e recitano slogan fino all’ossessione. Il loro immaginario è super-riconoscibile in termini estetici (jeans skinny e strappati, Nike slacciate ai piedi, portamonete legati alla cintura, bandane). Il linguaggio è un susseguirsi di parole e formule codificate, sia nei testi (il “777”, “se non parli di soldi non ti sento”/”sto fumando [nome della varietà di erba]”) che nel linguaggio colloquiale (“bufus”, i cuoricini, i “piskelletti dark”, l’uso eccentrico degli aggettivi quel/quello/quella e del “suffisso” way).

“Carlo Cracco sei un buffone”

È tutto replicabile, ed è tutto 777: se te lo tatui—diceva Tony Effe in un’intervista a Hip Hop Tv—non sei un coglione, o uno che c’è rimasto sotto: sei “famiglia”. Quindi adesso la DPG è anche un clan?

SONO UNA COSA NON DEFINIBILE CHE FA CAPO AL PIÙ GENERICO CONCETTO DI “STILE”?

In quella stessa intervista, Tony dice che “Dark Polo è principalmente moda. Poi anche altre cose.” Se li segui sui social, raramente li vedi provare pezzi o registrare qualcosa in studio. Più facile è trovarli in giro per negozi a comprare vestiti, o a dire cose in compagnia di stylist che ne curano le uscite pubbliche, o seguire le varie settimane della moda come ospiti di firme del settore.

Quello a destra non c’entra nulla.

Se da un parte l’ossessione per lo “swag” è comunque un tratto distintivo di questo tipo di rap, e più in generale un’aspirazione molto più comune nei teenager di adesso che non in quelli di qualche anno fa, dall’altra nella Dark Polo Gang trova la sua esemplare esasperazione—un’esasperazione che parte dal lanciare una piccola linea di moda al parlare con una pochette di Gucci e portarla a fare un giro.

L’attenzione per la GVNG, nei confronti della moda, tocca queste vette: ognuno di loro ha uno stile ben connotato—e che in qualche modo si addice alla musica—e tutti insieme hanno attraversato varie fasi, che li hanno portati dall’agganciare dei pon pon rosa ai pantaloni ad esser definiti la “Rome new creative generation.” “Sai che siamo la moda,” dice Tony in “Sportswear”.

Guardandoli bene ci si accorge sempre del fatto che la base di partenza è sì quella della moda street presa dalla scena trap americana, ma che quella stessa traiettoria a un certo punto si allontana dalla strada principale, portandoli a fare scelte estetiche e accostamenti del tutto inediti o eccentrici.

Insomma, così come non riesco a trovare dei loro simili negli USA dal punto di vista musicale, allo stesso modo è difficile capire quali siano i canoni estetici di riferimento. Anche qui, come per la produzione musicale: o siamo al cospetto di uno slancio genuino, creativo e a suo modo geniale, o non dobbiamo capire nulla perché non c’è nulla da capire. Grazie mille ragazzi.

SONO UNA NUOVA FORMA DI SERIE TV IN CUI LE PUNTATE SONO LE GIORNATE DELLA LORO VITA?

A tal proposito, in genere basta dare un’occhiata a una loro foto—concentrandosi su status, taglio di capelli, vestiti o robe che fumano—perché chi li segue con una certa regolarità capisca a quale epoca risalga. Sono loro stessi a definire queste cesure temporali con l’espressione “season”, anticipata dal nome dell’album in uscita o appena uscito (per esempio adesso è piena “Twins season”: ora lo sapete).

Questa era “dark season”

Su Instagram aggiornano quotidianamente i fan con cinque stream diversi che spesso si intersecano fra di loro: dalla loro prospettiva, riusciamo a vedere giornate oziose e irregolari che concorrono alla creazione del loro immaginario, ma al di fuori di questo c’è tutto un mondo che li segue, riprende, registra e riversa in rete, pronto a raccontare una puntata inedita della loro vita.

Le loro esistenze fuori dal palco—o almeno la loro percezione—sono note almeno quanto quella musicale, se non di più: la diretta Facebook dopo il casino post-concerto di Brescia è ormai un must per chiunque approcci all’argomento da zero (“Scusa in ginocchio”, “Piacere Dylan”, “No lame”, “Belli freschi”), così come il “People Versus” di Noisey, dal quale sono nati i primi meme.

“… … Comunque tutto è connesso…”

L’esempio migliore di come la fama della DPG—in un modo o nell’altro—resti in piedi a prescindere (o nonostante) la musica risale però a qualche settimana fa, a causa di uno degli episodi più noti che li coinvolge negli ultimi mesi, e che sta contribuito a far girare il loro nome sui social. E cioè quando un ragazzo romano ha pestato Side alla fermata del tram, e pubblicato il video su YouTube.

A quel punto status e meme correlati hanno cominciato a circolare a velocità folle, tanto da portare una pagina Facebook (che sta seguendo tutta la vicenda) a organizzare un rematch della rissa con tanto di montepremi da 5mila euro in palio: non importa che siano dei musicisti, che facciano dei video, che macinino anche un po’ views, perché la rappresentazione della loro vita cominci a viaggiare a prescindere dal resto, e più velocemente. Si scagliona a tappe, un’uscita musicale dopo l’altra, un video amatoriale dopo l’altro, nel contesto di una nuova “season”: una serie tv che va in onda ogni giorno, coi suoi personaggi secondari (Gallagher, Kiko, Vegeta, Traffik, le Dark Chicas) e di cui ogni album è una nuova stagione.

MA COSA CAZZO SONO?

“Se non conoscete la Dark Polo Gang allora siete vecchi,” esordisce il rapper Amir su RaiDue, introducendoli per la prima volta al grande pubblico televisivo. Ci vengono presentati come i cavalli di razza di una società—d’estrazione prettamente romana—medio-borghese ma in senso moderno, come i figli della noia che non conoscono legge e decenza e che pensano “solo a farli,” mentre dietro di loro—muovendosi per le strade di Roma—una schiera di ragazzini adulanti li segue in giro a fare shopping. Ma è così? Sono davvero i rappresentanti di un’epoca? O di una generazione?

O sono un divertissement per iniziati, che ne apprezzavano il dadaismo (tra mille virgolette) e la cifra ironica? Se è così, per quale ragione una felpa arancione con tre “7” disegnati sopra è andata sold out in pochi minuti? A chi è sfuggita di mano, la situazione? Quello che ho capito è che ogni volta che si parla di loro, di qualsiasi cosa si tratti, sembra sempre si debba prima capire il senso dei concetti di base dei quali discutiamo—che siano la musica, i soldi, lo stile, il rap. Che è una cosa preoccupante e avvincente allo stesso tempo.

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