Nell’arco di una sola notte il tentativo di golpe che è andato in scena il 15 luglio ha portato l’attenzione dell’opinione pubblica italiana sulle vicende della Turchia, un paese tendenzialmente percepito come esotico e le cui dinamiche interne sono pressoché sconosciute.
Come molti altri anche io quella notte sono stato incollato ai social per seguire la cronaca degli eventi, visto che non capita tutti i giorni di poter seguire in diretta un colpo di stato. Fin da subito, però, si era imposta la necessità di capire cosa effettivamente stesse succedendo. E così, da diversi giorni, siamo bombardati da ogni tipo di analisi e commenti—molti dei quali fatti da persone che da un giorno all’altro si sono trovate costrette ad azzardare una spiegazione che tenesse insieme tutti i pezzi di un puzzle molto complicato.
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Naturalmente un evento del genere è così clamoroso che è oggettivamente difficile da leggere, anche per chi abitualmente studia il paese e la sua storia; e allo stato stato attuale delle cose, inoltre, non ci sono interpretazioni o implicazioni certe rispetto a quanto è successo venerdì notte. In più, la repressione spietata degli ultimi giorni lanciata da Erdoğan nei confronti di militari e oppositori—con tanto di arresti di massa, purghe e addirittura lo spettro della pena di morte—rende il tutto ancora più caotico.
Tuttavia, ci sono alcune domande che tutti ci stiamo facendo e che—almeno secondo me—meritano quantomeno di essere analizzate. Ne ho dunque messe in fila un paio per cercare di rispondere.
SI È TRATTATO DI UN GOLPE “MALDESTRO”?
Stando alle reazioni che ho potuto vedere sui social—e non solo—in molti hanno liquidato questo putsch come una specie di riedizione turca di Vogliamo i colonnelli, ossia un tentativo velleitario fuoriuscito dai meandri dagli anni Settanta. In realtà si è trattato di un evento dannatamente serio, e che a un certo punto non è stato nemmeno troppo lontano dall’andare in porto. I motivi del fallimento, pertanto, vanno ricercati altrove.
Anzitutto, secondo una ricostruzione di Al Jazeera i servizi segreti turchi sarebbero venuti a conoscenza della possibilità di un golpe già a partire dalle 16 di venerdì. Attorno alle 20, ormai certi di un colpo di stato imminente, hanno informato il presidente Erdoğan. I cospiratori—venuti a sapere della fuga di notizie—avrebbero fatto così scattare in anticipo le operazioni del golpe, originariamente fissate per le 3 di notte. Non si sa quanto sia verificata o meno questa versione, ma di sicuro contribuirebbe a spiegare le molte stranezze del fallito colpo di stato.
In secondo luogo, i cospiratori potevano contare su poche migliaia di uomini e alcune decine di mezzi, in un paese di 80 milioni di abitanti grande due volte e mezza l’Italia. Di fatto, poi, l’azione golpista ha interessato quasi esclusivamente le città di Ankara e Istanbul.
A questo deficit iniziale si sono aggiunti diversi errori strategici—tra cui spiccano il non essere riusciti a limitare le comunicazioni (specialmente Internet), e il non aver arrestato o “neutralizzato” le personalità chiave del governo e della burocrazia turche. Considerando anche la debolezza e le forze limitate, la vera follia è stata quella di bombardare l’edificio del parlamento turco, simbolo della democrazia e dell’unità del paese. Questa decisione incomprensibile ha sconfessato agli occhi di tutti gli osservatori—anche gli oppositori del governo di Erdoğan che potevano avere simpatia per un cambio di regime—qualsiasi legittimità del golpe.
E qui arrivo al tema della mancanza di appoggi interno o esterni al paese. Dopo la lettura del comunicato in cui i golpisti dicevano di aver preso il potere per proteggere l’ordine costituzionale e lo stato di diritto, nel giro di qualche ora tutti gli attori che avrebbero potuto determinare il successo del golpe ne hanno preso le distanze: la maggior parte dei vertici delle forze armate, i partiti di opposizione e—con una certa calma e prudenza—anche le potenze internazionali che hanno interessi diretti nelle vicende interne della Turchia.
Ad esclusione di chi l’aveva organizzato, dunque, era chiaro che il colpo di stato non era voluto da nessuno e che i golpisti si trovavano isolati. Di fatto il colpo di stato era fallito prima di cominciare.
COS’È SUCCESSO SUBITO DOPO?
Un altro elemento decisivo è stato indubbiamente la gigantesca mobilitazione di massa a difesa delle istituzioni civili. Chiamate in causa dal presidente Erdoğan—tramite FaceTime—e da altri esponenti politici di primo piano, migliaia di persone sono scese in strada opponendosi fisicamente all’azione dei golpisti.
In gran parte si trattava di sostenitori del governo, ma in misura minore anche di persone di diversa idea politica. Non c’è dubbio che si sia trattata di una grandissima prova di forza di Erdoğan, che non solo ha dimostrato quanto la sua leadership conservi l’appoggio di un gruppo vasto e coeso di “fedelissimi,” ma—almeno in quei momenti—ha dimostrato di avere un grado di legimittà maggiore rispetto a quello dei golpisti.
Sin dal primo momento anche le opposizioni si sono espresse contro il colpo di stato, dimostrando un grande senso delle istituzioni, e hanno avanzato la volontà di collaborare per evitare ulteriori contrasti e divisioni in una situazione sociale già incandescente.
Purtroppo, questo spiraglio di riconciliazione nazionale offerto dalle opposizioni non sembra essere stato recepito dal partito di governo—un’evenienza su cui non c’era comunque da farsi alcuna illusione. Invece di calmare gli animi, infatti, Erdoğan e i suoi collaboratori hanno fomentato l’eccitazione popolare e invitato la gente a rimanere in strada nei giorni seguenti, con effetti deleteri.
L’informazione legata alla sinistra turca e alle minoranze etniche e religiose ha segnalato provocazioni rivolte alla comunità alevita e a quelle cristiane, attacchi xenofobi verso i profughi siriani e altri gesti di intolleranza e di fanatismo nazionalista o religioso. Si tratta di episodi sporadici che in sé nulla hanno a che vedere con l’opposizione al colpo di stato, ma che trovano terreno fertile in una condizione di esaltazione collettiva in cui sembra che al “popolo” tutto sia permesso.
Questa chiamata alla “mobilitazione popolare permanente” da parte di Erdoğan è del tutto irresponsabile, e rischia di sfuggire di mano e portare conseguenze imprevedibili e potenzialmente devastanti per la società turca sul lungo periodo.
CHI PUÒ ESSERCI DAVVERO DIETRO AL TENTATO GOLPE?
Erdoğan e i suoi sostenitori non hanno dubbi su chi sia il mandante del tentato golpe: secondo loro è Fethullah Gülen, un potentissimo leader religioso auto-esiliatosi negli Stati Uniti nel 1998 dopo essere stato accusato di attività sovversiva contro lo stato.
Gülen è il leader di una grande comunità religiosa ( cemaat), che oltre a voler proporre sul piano teorico una visione moderna dell’Islam adatta al mondo globalizzato contemporaneo, costituisce soprattutto un’organizzazione capillare e gerarchica fondata sull’obbedienza ai superiori e alla fedeltà al movimento, e orientata da precisi interessi politici ed economici.
L’organizzazione di Gülen non è dunque un’invenzione di Erdoğan, ma è realmente presente e radicata nel mondo dell’imprenditoria così come nella politica, nella burocrazia, nella magistratura e nelle forze di sicurezza della Turchia. I seguaci di Fethullah Gülen—chiamati Fethullahçı—hanno esercitato un potere e un’influenza determinanti, di cui lo stesso Erdoğan si è per lungo tempo avvantaggiato durante gli anni dell’amicizia con Gülen.
Il rapporto tra i due leader ha cominciato a incrinarsi attorno al 2010, finché l’inimicizia non si è palesata in modo eclatante nel dicembre del 2013, quando la magistratura legata a Gülen ha dato il via a una grande operazione contro i membri del partito AKP di Erdoğan, investito da un grande scandalo di tangenti e corruzione.
Da quel momento l’AKP e il movimento di Gülen si sono affrontati in una lotta senza quartiere per il potere e per la propria sopravvivenza, fatta di reciproche minacce, indagini, arresti, rimozioni di prefetti e giudici e accuse di terrorismo. Questo scontro ha rappresentato la principale dinamica della politica turca negli ultimi tre anni, e oggi sembra giunto al suo capitolo conclusivo.
La preoccupazione di Erdoğan, nelle ore successive al colpo di stato, non è sembrata quella di indagare sulle dinamiche e le responsabilità specifiche, quanto quella di sferrare un attacco decisivo al movimento del rivale. Questo spiega anche la sorprendente velocità con cui, nel corso degli ultimi due giorni, sono stati eseguiti migliaia e migliaia di rimozioni di pubblici ufficiali e di arresti.
A essere colpiti sono dunque soprattutto i nomi già conosciuti delle persone legate al movimento, e probabilmente l’AKP aspettava soltanto un’occasione propizia per arrivare alla resa dei conti. Lo dimostra il fatto che, al di là dei militari, la categoria più colpita sia la magistratura, proprio laddove il movimento è più forte e negli ultimi anni ha messo in difficoltà il partito di Erdo ğan. Queste considerazioni non cancellano la possibilità che tra gli indagati e le persone licenziate in queste ore ce ne possano essere molte che non hanno alcun serio legame con il movimento. Un’epurazione così rapida corre sicuramente il rischio di essere ancora più sommaria di quanto pianificato dai suoi stessi autori.
Ora—e senza scadere troppo nel complottismo—non è del tutto implausibile che la rete di Fethullah Gülen sia realmente alla radice del tentativo di colpo di stato. Il punto è che, anche se così non fosse, Erdoğan avrebbe forse agito in questo modo lo stesso, tanto è feroce lo scontro con Gülen e ghiotta l’occasione per disfarsi una volta per tutte della sua organizzazione. Del resto è difficile che, nel momento in cui sono cominciati gli arresti, potessero esistere delle prove concrete del coinvolgimento dei membri del movimento in quanto tali.
Se si considera che oggi la principale frattura nella vita politica turca è quella tra l’AKP di Erdoğan e la comunità di Gülen, è inoltre poco utile ragionare in termini ideologici e sulle contrapposizioni tra religiosi e laici, conservatori e progressisti. Non esiste, infatti, una vera differenza ideologica tra le due fazioni che si stanno scontrando: entrambe fanno riferimento alla tradizione politica conservatrice e hanno un analogo punto di vista religioso. I quadri e i dirigenti del partito AKP e della cemaat provengono dallo stesso ambiente culturale e condividono la stessa idea di società.
Nel frattempo i progressisti laici, che costituiscono quasi il cinquanta percento della popolazione ma in questo momento hanno scarso peso politico e poco margine d’azione, stanno tenendo un profilo molto basso. Coltivano chiaramente la speranza che la sete di vendetta del presidente si scagli unicamente contro Gülen—che detestano quanto e più di Erdoğan—e li risparmi. Il loro comportamento, in un certo senso, ricorda in questo momento quello dei protagonisti del film Jurassic Park che speravano, stando fermi, che il tirannosauro non li avrebbe visti e divorati.
ERDOGAN SI È ORGANIZZATO DA SOLO IL GOLPE?
Una delle teorie che si è affacciata in fretta sui media—e in particolar modo su quelli italiani—è stata quella di una messa in scena organizzata dallo stesso Erdoğan per guadagnare popolarità e legittimarsi agli occhi dell’opinione pubblica turca, e avere finalmente le mani libere per liberarsi degli oppositori. Del resto questa è la strategia difensiva dello stesso Fethullah Gülen.
Personalmente la ritengo una teoria improbabile e non supportata da argomentazioni convincenti, anche perché le obiezioni dei “complottisti” possono essere spiegate anche senza ricorrere alla suggestione dell’auto-golpe.
Il punto di partenza è il seguente: Erdoğan è la persona che più di tutti ha guadagnato dal golpe e dal suo fallimento . E qui non penso che ci siano dubbi, è evidente; questo però non si significa che se lo sia fatto da solo. Per tutta la sua carriera, almeno a partire dal ” colpo di stato post-moderno” del 1997, Erdoğan ha costruito la propria fortuna sugli errori altrui. Questa capacità fa parte di un’abilità politica indiscutibile, benché estremamente perversa.
I sostenitori della teoria dell’auto-golpe, poi, ritengono che il colpo di stato si stato organizzato in modo troppo maldestro per essere vero. Dato che è già stato confutato in precedenza questo assunto, mi limito a ribadire che gli eventi probabilmente hanno avuto un’improvvisa accelerazione che non era stata prevista dai cospiratori.
Probabilmente quest’ultimi erano a conoscenza di imminenti purghe tra i sostenitori del movimento di Gülen—previste per la riunione del Gran Consiglio militare del 1° agosto—e hanno deciso di agire in modo disperato, non avendo più nulla da perdere.
Va concesso che la velocità con cui si sono effettuati migliaia di arresti è quanto meno sospetta. E se da un lato questa vendetta sommaria è assurda e deprecabile, dall’altro ha sicuramente a che fare con le dinamiche dello scontro tra Erdoğan e Gülen: dimostra la volontà del governo di colpire i membri del movimento e considerarli complessivamente come responsabili del colpo di stato. Ma, ancora una volta, non è una prova del fatto che Erdoğan abbia organizzato il golpe.
QUALI POSSONO ESSERE LE CONSEGUENZE A LIVELLO INTERNAZIONALE?
Benché la comunità internazionale abbia, senza eccezione alcuna, espresso il proprio supporto per il governo turco contro il colpo di stato, la furia del presidente turco sta creando grandi problemi e imbarazzi ai suoi alleati occidentali. Erdoğan non intende infatti limitarsi a colpire il movimento di Fethullah Gülen: è deciso a trascinarne lo stesso leader davanti a un tribunale turco.
Per fare ciò è disposto perfino a scatenare una crisi diplomatica con gli Stati Uniti. Erdoğan ha infatti annunciato di voler chiedere l’estradizione di Gülen; e sebbene gli americani abbiano risposto con una certa freddezza, i rappresentanti del governo turco hanno imposto il blocco totale della base NATO di İncirilik, di vitale importanza per la politica statunitense nel Medio Oriente (da lì partono i raid anti-ISIS).
La caccia nei confronti dei gülenisti è arrivata ad un punto tale per cui si è persino ventilata la possibilità di reintrodurre la pena di morte, e soprattutto di utilizzarla retroattivamente per eliminare i golpisti. Questo ha chiaramente irritato i partner europei, che hanno minacciato la Turchia con l’interruzione dei negoziati per l’adesione all’Unione Europea.
Paradossalmente sembrano molto meno scossi i rapporti con il grande nemico di ieri, cioè la Russia. Erdoğan e Putin hanno infatti avuto un dialogo telefonico e hanno confermato la volontà di proseguire nel riavvicinamento tra i due paesi, iniziato dopo la gravissima crisi diplomatica scoppiata in seguito all’abbattimento del jet russo.
In un momento così difficile dal punto di vista della politica interna, comunque, la situazione internazionale della Turchia rimane più difficile e precaria di quanto lo fosse prima del golpe. Il fatto che Erdoğan non si preoccupi di rischiare la frattura con i principali alleati pur di andare a fondo nell’opera di “pulizia” dimostra quanto egli la consideri una questione di vita e di morte, da anteporre a qualsiasi altra considerazione.
COME È STATO VISTO DALL’ITALIA IL TENTATO GOLPE?
A questo punto torno all’Italia, e soprattutto a come è stato raccontato il tentato golpe. Nell’immediatezza dell’evento—e anche nelle fasi successive—diversi commentatori e politici hanno apertamente tifato per i militari. Roberto Saviano, ad esempio, in uno status su Facebook ha parlato di “cingolati contro il potere totale e corrottissimo che Erdoğan ha realizzato,” invitando l’Europa a “salvare i soldati golpisti.”
Una simile percezione è filtrata dall’immagine romantica di un esercito custode dei valori repubblicani, e in quanto tale laico e “progressista.” Ma in tutto ciò c’è un evidente problema: l’attuale composizione dell’esercito turco e i suoi comportamenti pregressi mandano in frantumi una narrativa di questo tipo.
Il più importante e sanguinoso degli interventi militari nella vita politica turca, il golpe del 12 settembre 1980, è stato infatti sostenuto da un’ideologia che mischiava un nazionalismo esasperato a richiami di origine religiosa, cambiando per sempre la società turca e spianando la strada all’attuale egemonia conservatrice.
Tra l’altro, l’esercito turco non è mai stato interessato a difendere la laicità e il progressismo in quanto tali, ma ha sempre agito in funzione del mantenimento e del rafforzamento dell’ordine e della stabilità del paese, identificando questi principi in forze storiche diverse a seconda dei contesti.
Per questa ragione il golpe del 1980 è stato ideologicamente conservatore e tendenzialmente religioso; mentre quello del 1997 ha avuto un aspetto laico e progressista. Oggi è probabile, vista l’indifferenza della gran maggioranza dei reparti dell’esercito turco per il tentativo di golpe, che sia Erdoğan a essere considerato la migliore garanzia di ordine possibile.
Non può essere ignorato—come hanno fatto gli opinionisti italiani—il fatto che l’azione dei militari nei passati colpi di stato (e in particolare nel 1980) abbia lasciato ferite profonde nella società turca e rappresenta ancor’oggi una pagina orribile del passato, di cui proprio gli attuali oppositori di Erdoğan sono stati le principali vittime. Ciò spiega anche perché non vi sia stata alcuna manifestazione di simpatia popolare per il golpe, neppure tra i più accaniti oppositori del governo.
LA TURCHIA È UNA DEMOCRAZIA?
Nessuno può negare che oggi, in Turchia, sia molto difficile parlare di “democrazia.” Il sistema politico turco è formalmente quello di una democrazia parlamentare, ma le istituzioni sono sempre più svuotate delle loro prerogative.
Erdoğan ha più volte mostrato di considerare la democrazia una forma di dittatura plebiscitaria del partito di maggioranza, e di considerare la normale dialettica con l’opposizione e gli altri poteri dello stato come un ostacolo alla realizzazione della volontà popolare. Un ostacolo da aggirare e superare in ogni modo. La repubblica presidenziale sognata da Erdoğan—ormai a un passo dalla sua realizzazione—assomiglia più a uno stato post-sovietico.
Il golpe è stato pertanto il più grande disastro politico che potesse capitare alla Turchia. In caso di vittoria avrebbe probabilmente avuto l’unico risultato di trasformare—almeno momentaneamente—questa pseudo-democrazia in una vera e propria dittatura.
Avendo fallito non ha fatto altro che accelerare la trasformazione del potere di Erdoğan in una sorta di “Putinismo alla turca,” che nulla ha a che vedere con un’autentica democrazia.
Carlo è storico e scrittore. Si occupa di Turchia, Europa orientale e Asia centrale. Seguilo su Twitter.
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