Cosa ho imparato lavorando come giornalista nella cronaca nera locale

Mentre scrivo sono alla Corte d’assise per seguire il processo del dramma di Moussey, nei Vosgi. In poche parole, si tratta di una specie di Funny Games nelle profondità della campagna del nord-est della Francia, con un uomo di 38 anni picchiato a morte e torturato da presunti “amici” che lo hanno poi abbandonato—ancora in vita—in un bosco, accanto alla sua auto bruciata. In generale, più sono sordide le storie su cui lavoro, più mi interessano.

Dopo sette anni nella stampa locale, è un anno che la maggior parte del mio lavoro si svolge in un’aula di tribunale. Sono una freelance specializzata in cronaca.

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Strano a dirsi, non è la carriera che mi aspettavo dopo essermi conquistata un dottorato in filosofia su Heidegger e Marx. Sono sempre stata interessata ai casi di omicidio, violenze o sparizioni, ma è sul campo che ho imparato ad apprezzare questo lavoro. Se sul campo gli argomenti non sembrano mancare, però, chi mi paga per scriverne—vale a dire i giornali, o i miei datori di lavoro—non va per i grandi numeri. Quindi, con mio grande rammarico, sono quanto più distante esista dai reporter d’assalto della cronaca giudiziaria. Mi vedo piuttosto come una galeotta dell’informazione sordida. Un commesso viaggiatore della cronaca spicciola.

Di conseguenza, per assicurare la mia sussistenza, lavoro parallelamente come correttrice di bozze in Lussemburgo. Non si tratta di un impiego molto redditizio, né necessariamente eccitante. Gli orari d’ufficio sono sfalsati e il suddetto ufficio si trova a 130 km da dove abito. Anche se relativamente noioso, tuttavia, questo lavoro ha il merito di essere molto flessibile e di permettermi di organizzare il mio tempo in funzione dei processi o dei casi che seguo. Sarò onesta: visto quanto vengono pagati i freelance, a volte potrei dire che seguo queste inchieste più per piacere che per altro.

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Non credevo di avere una particolare predisposizione per questo lavoro. Ma dicono che il fatto di essere nata in Lorena nel 1980 abbia influito. Sono cresciuta con il caso del ” piccolo Gregory“, il duplice omicidio di Montigny-lès-Metz, o con la saga mai risolta di Simone Weber. Il serial killer Francis Heaulme è quasi un amico di famiglia, per quanto ne ho sentito parlare.

Ho iniziato lavorando per un’agenzia di stampa specializzata in cronaca locale e giudiziaria. Questa collaborazione ha avuto il merito di farmi apprezzare l’idea di poter investire tempo ed energie per seguire casi interessanti e tornare a casa a mani vuote, senza essere riuscita a piazzare il pezzo. È uno dei rischi del mestiere. Scrivo anche per il celebre tabloid d’inchiesta Le Nouveau Détective, eppure, anche quando un tema ha del potenziale a livello nazionale, riuscire a convincere un caporedattore a comprare i miei articoli è difficile.

Il primo caso su cui ho lavorato si è dissolto nel nulla dopo due mesi. Si trattava di un uomo preso in ostaggio da un 17enne in una radio locale. Sullo sfondo, le accuse di stupro rivolte dal giovane in questione al direttore dell’emittente. Ricordo di aver usato tutti i mezzi per trovare l’indirizzo dei genitori (conoscevo solo il nome della città in cui vivevano) e di averli aspettati quattro ore davanti casa, in macchina. Le cose stavano andando bene, finché il loro avvocato ha finito per consigliarli di “sospendere i contatti con la stampa”. Quantomeno mi ero fatta una cultura su paesini in cui mai e poi mai sarei tornata.

Ho anche passato diverse settimane a cercare le cugine lontane di una donna ritrovata mutilata e violentata nella sua cantina insieme ai sei figli. Era successo in una cittadina lungo la Mosa e l’uccisione era stata perpetrata da alcuni soldati tedeschi nell’agosto del 1914. Grazie alla riconciliazione franco-tedesca, l’articolo non ha mai trovato acquirente.

Fortunatamente ora che collaboro con Le Nouveau Détective le cose sono più inquadrate e continue. Quantomeno amiamo gli stessi argomenti. Per loro seguo i processi e la cronaca locale. Prendo appunti sui miei casi preferiti. Ritaglio, incollo, mi aggiorno.

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A volte gli imputati mi creano qualche disguido. È un problema di controtransfert, una “reazione incosciente di fronte ai conflitti psichici altrui,” mi ha spiegato un’amica psicologa. Di conseguenza, non sono molto empatica nei confronti degli imputati che non ammettono i propri errori, presentano delle scuse poco sincere o si rifiutano di riconoscere alle vittime il loro statuto.

Ad esempio Hervé Granier, “lo stupratore della Bresse”, aveva fatto ricorso. Il che implicava che la sua giovane vittima, violentata dai 14 ai 18 anni, avrebbe dovuto rivivere per la seconda volta l’esperienza della Corte d’Assise, raccontare una seconda volta, in pubblico, come Granier aveva convinto sua madre a lasciargli sua figlia e in che modo la costringeva a procurarle rapporti sessuali. Non è stato facile, per questa giovane ragazza di appena 25 anni che stava cercando di ricostruire il rapporto con sua madre e che aspirava ancora a una vita normale. Anche se abbiamo parlato a lungo, quest’ultima si è rifiutata di farmi raccogliere la sua testimonianza. E la capisco. Per lei, questo secondo processo doveva essere l’ultimo atto di una faccenda che veniva riesumata. Non ho insistito.

Visto che sono ancora una novellina, osservo i miei colleghi più esperti. Spesso sono gli stessi che ritrovo in tribunale. Abbiamo le nostre piccole abitudini: conosciamo i tic linguistici dei testimoni, scommettiamo sui tempi di sospensione delle udienze, sulle requisitorie, facciamo sempre credere a quello che è uscito a fumare una sigaretta che l’imputato ha confessato durante la sua assenza. Proviamo tutte le nuove cose del distributore, aspettiamo il verdetto insieme al bistrot. L’atmosfera è piuttosto rilassata rispetto ai casi su cui lavoriamo.

Ritorniamo a ciò che occupa il mio tempo al momento, il remake di Michael Haneke a cui accennavo all’inizio. Il giorno dopo l’omicidio uno degli imputati, dopo essersi impietosito, era finito col chiamare i soccorsi sotto lo pseudonimo di “Xavier Bertrand”, il nome dell’ex ministro dell’UMP. I soccorsi sono arrivati troppo tardi e la vittima è deceduta in ambulanza.

Durante il corso delle indagini, la polizia ha rivelato che il caso era iniziato con un debito di 150 euro contratto nei confronti del cugino di uno degli imputati, nemmeno presente il giorno del crimine, e una frase pronunciata dalla figlia di uno del gruppo, anche lei oggi sul banco degli imputati. Il tutto su uno sfondo di alcol e inerzia. Secondo le statistiche ufficiali, il 16 percento degli abitanti del dipartimento dei Vosgi vive al di sotto della soglia di povertà.

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Ho quindi seguito dieci giorni di dibattiti nel corso dei quali si sono susseguiti testimoni in preda ad amnesia—in quanto ubriachi al momento dell’accaduto—accompagnati da imputati ammutoliti. In sala ho visto la famiglia della vittima, traumatizzata, e le famiglie degli imputati—con i quali non hanno tagliato i ponti—del tutto impotenti. Al di là dei fatti di rara crudeltà, è questo l’aspetto più duro. I parenti degli imputati che lasciano l’aula in lacrime. La figlia di uno degli imputati che affronta con dignità la discesa negli Inferi di sua madre. La famiglia che sente ancora una volta raccontare nel dettaglio la sofferenza della vittima. E al banco si vedono persone che sono presenti per aver commesso i peggiori misfatti ma che comunque restano persone, ognuna con una storia, un percorso, degli incidenti di vita, una personalità più o meno affermata.

Umanamente tutto ciò è un po’ delicato. È per questo che andare a correre o bere un bicchiere a fine giornata è necessario.

Anche per far rientrare la pressione continuo a leggere il Nouveau Détective, al quale resto abbonata anche se ci lavoro. Allo stesso modo non mi perdo mai un episodio di Faites entrer l’accusé. Pratico anche delle attività lontane dal mio lavoro come leggere riviste femminili—soprattutto Elle—o romanzi di Steve Tesich, oppure guardo film per rilassarmi. Quelli di Fellini sono ottimi a tale scopo. Ho anche praticato zumba a dosi intensive.

Ne approfitto per lasciare un messaggio ai giovani giornalisti che sono interessati al fantastico mondo della cronaca giudiziaria. Essendo io stessa una precaria, non mi sento di fornire preziosi consigli a chi vuole iniziare. Da un lato mi sentirei responsabile di generare una nuova leva di sfortunati. In secondo luogo avrei paura di farmi rubare il lavoro.

Ma la voglia e il loro gusto pronunciato per le storie che finiscono male, curiosità non sempre sana, come una certa invidia nei confronti dei maglioni a fantasia dell’uomo accusato dell’omicidio di Henri Leclaire, mi sembrano elementi più che essenziali per chi abbia intenzione di intraprendere questo percorso.

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