Appostamenti e microfoni in faccia: ho passato una settimana da giornalista a Montecitorio

Giornalisti all’esterno della Camera dei Deputati, Montecitorio. Foto via Wikimedia Commons.

Sono laureato da un mese, e senza il filtro dell’università il mondo è un camion coi fari spianati nella notte e io il daino che si è paralizzato nel mezzo della provinciale. Sto per essere investito quando all’improvviso il cellulare suona, rinsavisco e accetto di fare una settimana di prova presso un’agenzia televisiva di Roma. Partenza: il giorno stesso.

Da un momento all’altro mi ritrovo così a Montecitorio per nove-dieci ore al giorno, totalmente immerso nei fatti di cui ogni giorno leggiamo gli aggiornamenti ossessivi. Il lavoro consiste nel coprire con riprese video qualunque cosa di “politico” accada dentro e fuori i Palazzi di Roma. L’aspetto paradossale è che è stato offerto proprio a me—che non ho mai tenuto in mano una telecamera, non so fare un montaggio né mi interessa farlo, leggo un quotidiano una volta al mese e mi aggiorno sulla politica italiana attraverso la satira.

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Ho sempre seguito più che altro la geopolitica e le dinamiche globali, e anzi sono convinto che in Italia l’importanza delle vicende politiche interne sia sopravvalutata, e che l’andamento generale della società sia determinato da dinamiche che le comprendono ma che non si esauriscono in esse. Credo anche che le notizie minuto per minuto delle bagarre politiche siano terribilmente noiosi. Peccato, però, che qui a Roma sarà proprio di queste “notizie” che dovrò occuparmi. Insomma: ci sono tutte le premesse perché questa settimana vada nel peggiore dei modi.

Il mio primo giorno di lavoro è il 12 settembre del 2016, un lunedì. Ho ottenuto il contatto del direttore dell’agenzia mentre cercavo un lavoro totalmente diverso, grazie a una amica neozelandese che conosce un tipo a Bruxelles, che conosce un altro tipo di Bruxelles che è in contatto con il direttore di questa agenzia televisiva di portata nazionale. Il mio unico pensiero, nel treno dell’andata, è cercare di non deludere in un colpo solo tutta una catena di contatti.

Entro per la prima volta nella mia vita alla Camera dei Deputati correndo dietro alla giovanissima caporedattrice, che mi pianta subito davanti al computer e mi mostra in cinque minuti come funziona il programma di elaborazione video che dovrò usare nei giorni successivi. La mia postazione è nell’angolo di una sala con uno sfondo che rappresenta l’aula ad emiciclo. È qui che i politici registrano le dichiarazioni trasmesse ai telegiornali, e mentre parlano mi ricordano quei pesci tropicali negli acquari, con lo sfondo della barriera corallina: la scenografia è fittizia ma lo sai che vengono davvero da lì, che ce l’hanno nel sangue. O almeno sono sicuro sia così per Renato Brunetta.

Il deputato di Forza Italia piomba in sala, dà il buongiorno, sgattaiola lesto davanti allo sfondo e fa la sua dichiarazione in modo disinvolto, dritto al punto senza sbavature e con giochi di parole pertinenti. Tutti i cameraman ghignano da dietro le loro macchine, e anche io, che finora li ho imitati in tutto e per tutto per non sbagliare, mi ritrovo a sorridere: in un’altra situazione, un insulto ben piazzato avrebbe accompagnato un colpo di telecomando verso Dmax o RealTime, dove Brunetta semplicemente non esiste.

Qui però il canale non si può cambiare. Il politico si rivolge ai giornalisti che lo attorniano, e il suo sguardo incrocia diverse volte il mio, ottenendo tutta la mia attenzione mentre fa la sua stoccata a Vittorio Feltri che, dopo aver detto di voler votare No, ha infine optato di schierarsi per il Sì al referendum sulla riforma costituzionale voluta da Matteo Renzi.

Il discorso è nella norma, almeno secondo quanto può apparire a un telespettatore; ma da vicino il confronto con gli altri politici non regge. Gli altri tremano, balbettano, ripetono più volte la stessa frase, si interrompono con una pernacchia come presentatori inesperti, costringendo i giornalisti a fare un montaggio delle parti migliori del discorso. Brunetta, invece, fa tutto in un solo take e va via tra le fiamme dell’esplosione prodotta dal suo savoir-faire.

Dopo aver raccolto l’intervista segue una sessione intensiva da desk. Nei rari momenti in cui posso guardarmi attorno mi accorgo che io e i miei colleghi siamo i soli a lavorare a quel ritmo forsennato. Le altre grandi agenzie occupano le sale stampa con degli squadroni in cui a ogni individuo è dato il compito di fare una delle innumerevoli cose che io devo fare contemporaneamente.

In questo modo il ragazzo a fianco a me trascorre tutta la giornata guardando Narcos mentre aspetta il momento in cui dovrà reggere il microfono. Alla postazione successiva va in onda Stranger Things in versione streaming pirata. Le sedie con le rotelle delle altre scrivanie vagano mollemente per la sala, alla deriva. Uno dei giornalisti più anziani inclina la sedia e si appoggia alla parete, scivolando in un sonno sempre più profondo. A un certo punto uno di loro lancia una cartaccia nel cestino facendola rimbalzare sul poster del Parlamento ed esulta: “Ho preso il presidente!”. Torno a casa verso le sette e mezza, con la testa talmente immersa nelle news che mentre aspetto il pullman mi sale l’ansia per tutte le notizie che adesso stanno scivolando via senza che io possa coprirle.

Martedì 13 è intitolato: caccia alla Appendino. Le voci di avvistamenti arrivano immediatamente al direttore dell’agenzia, che mi prende da parte e mi affida con grande calma e serenità una telecamera professionale che non ho mai visto prima, spiegandomi a cosa servono cinque dei suoi circa 47 bottoni. Esco dalla Camera dei Deputati, il tempo stringe mentre cerco di districarmi tra le vie del centro, i passaggi di sicurezza e le portinerie dei vari luoghi in cui mi precipito a rotta di collo per ottenere un video che ritragga Chiara Appendino mentre dice qualcosa—qualunque cosa. Ma la neo-sindaca di Torino, in città per parlare con la sua collega Virginia Raggi, rimane per me una entità astratta.

Al suo posto trovo ogni volta giornalisti già intenti a montare sui loro laptop un video che la ritrae, pronto a essere lanciato con mia somma invidia. Il 14 settembre cambio strategia e resto attaccato ai reporter più esperti. All’improvviso il gruppo corre in una direzione ben precisa, all’apparenza senza ragione; ma in realtà un corifeo, come in uno stormo di piccioni, ha spiccato il volo per primo perché sa qualcosa in più degli altri, e ora tutti lo seguono.

La settimana scorsa ero a casa mia, in un’altra città, intento a snobbare qualunque notizia di politica interna. Ora mi ritrovo in giacca e camicia (obbligatorie per accedere ai principali palazzi istituzionali) a correre intorno al Campidoglio con in mano un telecamera e nell’altra un microfono dotato di cubo, inseguendo il miraggio di una dichiarazione importantissima, fondamentale, imperdibile, che sarà completamente dimenticata nel giro di qualche ora.

La tipica ressa di giornalisti raggiunge la Appendino in un’uscita secondaria e le balza addosso. La mia caporedattrice, arrivata anche lei sul posto, prende dalle mie mani telecamera e microfono e si lancia nella mischia. Resto a guardare mentre il gruppo si addensa attorno a lei per poi frammentarsi non appena la sindaca entra in un taxi. I giornalisti schizzano in tutte le direzioni per diffondere una notizia che non ho ancora colto. La caporedattrice ha preso una botta nella ressa e ha del sangue tra i denti; nonostante la ferita carica il suo video senza battere ciglio, come un eroe di guerra. Siamo ancora nella prima metà della giornata.

Sono questi i giorni in cui gli strascichi della vicenda Muraro tengono ancora i media nazionali in uno stato di grande fibrillazione, quelli in cui la Raggi ha pubblicato un post incriminante nei confronti dei giornalisti che la asserragliavano sotto casa, filmandoli a sua volta perché le fanno pena. Avrei potuto benissimo essere filmato da lei, quel giorno, se mi avessero mandato davanti al portone di casa sua. A casa potrò raccontare di essere scampato per miracolo a un processo mediatico.

Tornato al campo base registro dal pc una conferenza in diretta del ministro degli Esteri Paolo Gentiloni e della ministra della Difesa Roberta Pinotti. Poi mi viene affidato l’incarico di andare da loro di persona, per raccogliere delle dichiarazioni a margine. Non voglio farmeli scappare: si trovano nella Sala del mappamondo, da qualche parte a Montecitorio, nello stesso edificio in cui mi trovo ora. Mi lancio in un corridoio alla ricerca del mio nuovo obiettivo, contento di poter finalmente fare un vero giro tra le sale e gli scaloni della Camera.

In un giardino interno, sotto un gazebo di rigogliose piante rampicanti, sono seduti a gambe accavallate diversi personaggi in giacca e cravatta. Sto per metterli a fuoco quando vengo bruscamente fermato da due commesse del Parlamento: non ho assolutamente il permesso di accedere a quell’area. Mi pareva strano, infatti. Per raggiungere la Sala del mappamondo devo uscire, accedere da una entrata secondaria, passare di nuovo i controlli e aspettare in un parcheggio sotterraneo che un altro commesso mi scorti fino a destinazione. Inutile dire che, al mio arrivo, dei due ministri non rimane nemmeno il ricordo.

Le giornate vanno avanti così, e io cerco di tenere il ritmo. Intenso lavoro di scrivania, montaggi a tempo record, salta dalla sedia, corri fuori, trova il Senato, le turiste in minishort, ho detto trova il Senato, passa i controlli, corri tra i dedali di marmi pregiati e dipinti, scansa Gasparri, intervista un tizio della Lega che non sai neanche come si chiama. Fortunatamente, ogni volta che arrivo sul posto trovo più o meno sempre gli stessi operatori, gli stessi giornalisti delle agenzie stampa più importanti, che dall’alto della loro esperienza ventennale mi aiutano a capire come si accende il microfono. Grazie a loro imparo anche come dire in gergo che non sono riuscito a coprire una notizia o un immagine: bucare. “Ma ché te sei bucato ‘a Raggi che s’affacciava ar balcone?” Sì, amico mio, l’ho bucata.

Il 15 settembre è un giorno molto speciale, perché finalmente incontro Vittorio Sgarbi. Ma per arrivare a questo storico momento ho dovuto aspettare che passasse una lunga mattinata: ho l’incarico di documentare una noiosissima riunione presso la Conferenza delle Regioni, dove arrivo in ritardo e digiuno per poi scoprire che sono in anticipo e in sala d’attesa ci sono latte, caffè e cornetti a volontà.

Quando arriva il momento di lavorare scatto come una molla e riprendo il governatore della Liguria, Giovanni Toti, mentre dice cose che non mi interessano ma che seguo come quando per sbaglio in televisione capito sulla diretta dello slalom gigante e cerco di capire chi sta vincendo. In sala stampa la registrazione si rivela essere quasi completamente inutile, l’audio è inascoltabile. Ciononostante vengo spedito a fare delle riprese in Senato, a un convegno commemorativo in occasione del decimo anniversario della morte di Oriana Fallaci.

Ed è qui che trovo Sgarbi, impegnato a sentenziare su tutto ciò che esiste sotto la volta celeste. Dal vivo la sua presenza scenica è ancora migliore di quella di Brunetta. Il tempo a mia disposizione è poco e non riesco a raccogliere tutto quello che dice. Ricorda del periodo da sindaco di Salemi, quando per dispetto sceglieva per le strade nomi di personaggi invisi ai suoi avversari. Dopo qualche minuto afferma che, ad oggi, non esistono prove che Rutelli esista. Al termine della conferenza gli ronzo un po’ attorno, lui mi lancia qualche sguardo insospettito. Sto pensando a una domanda da fargli davanti alla telecamera per ottenere una sua sfuriata, una qualche maledizione alle pale eoliche o almeno un insulto a Crocetta. Ma i tempi stringono, devo andare.

Giornalisti intorno a Vito Crimi in piazza dei Santi Apostoli, Roma. Foto di Federico Tribbioli.

L’ultimo giorno di lavoro, il 16 settembre, muore Carlo Azeglio Ciampi. Non appena le agenzie battono la notizia ricevo l’ordine tassativo di interrompere qualsiasi cosa stessi facendo e di volare sotto l’abitazione dell’ex Presidente della Repubblica con il primo taxi disponibile. Combattendo l’imbarazzo riprendo l’abitazione, faccio domande a un barista e a un fioraio che non vogliono essere ripresi e raccontano di come Ciampi non si vedesse da anni perché le sue condizioni non gli permettevano di muoversi più di tanto. Il che è un vero scoop, trattandosi di un uomo di 96 anni.

Riesco a raccogliere le dichiarazioni di un uomo che ha in mano un sacchetto dell’immondizia e di una signora che si aggiusta i capelli nel negozio prima di farsi riprendere. Poi vado dritto alla clinica, dove passano le macchine di Mattarella, Napolitano e D’Alema. Nelle ore d’attesa le troupe della Rai montano un gazebo, l’inviata de La Vita in Diretta chatta annoiata con qualcuno al telefono, gli operatori si accalcano attorno ad uno di loro che ha sfoderato un iPhone 7 plus. Dopo la terza volta che il transito di un finestrino oscurato viene ripreso con grande apprensione da un battaglione di operatori, un giornalista che mi sta particolarmente simpatico esclama tra sé e sé: “Ma ce l’ha un senso tutta sta’ cosa?”, poi si rivolge a me: “Ce l’ha un senso?”

In effetti, mi è difficile capire cosa diavolo sto facendo. E non l’ho ancora capito bene. Questa esperienza non la farò proseguire, non è il tipo di giornalismo che mi interessa e mai mi interesserà, ma quello che credo di aver capito, in compenso, è cosa stavano facendo le persone che avevo davanti alla telecamera.

Un aspetto che spesso dimentichiamo da casa è che fare il politico non è che un lavoro. Visti dallo schermo sembrano davvero indignati, pare si odino e si affrontino come i moschettieri e le guardie del cardinale, che siano in un altro mondo a decidere le nostre sorti e che approvino quel provvedimento perché ce l’hanno proprio con te. In realtà, finito il discorso colleroso, tornano subito a scherzare con l’assistente così come stavano facendo prima, si salutano cortesemente tra loro nei corridoi, tornano a casa e il giorno dopo ricominciano. È una verità banale, ma la nostra tendenza a dimenticarla non è priva di conseguenze.

Che agisca negli interessi di una potente lobby o di una importante fetta della popolazione, il politico resta sempre il rappresentante di qualcos’altro. Vince chi rappresenta più gente possibile, cercando di capire quello che direbbero gli elettori al loro posto, quali leggi proporrebbero, verso chi proverebbero sentimenti di amicizia o di odio. Certo, ogni politico può dare la propria interpretazione al proprio personaggio, metterci un po’ di se stesso (assieme ai propri interessi), ma in fondo funziona come i programmi di Maria de Filippi. Di certo quella porta spazio-dimensionale sull’inferno chiamata Uomini e Donne l’ha aperta lei, ma questo accade perché noi abbiamo voluto che quelle creature demoniache entrassero nel nostro mondo.

Foto carosello via Wikimedia Commons.

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