Assumere sostanze allucinogene è una delle attività che consideriamo più piacevoli in assoluto. Non la svolgiamo così di frequente da rappresentare un reale problema, né in quantità così grandi da metterci in pericolo. Siamo consapevoli che sia illegale, sì, ma ci consideriamo antiproibizionisti e crediamo nella riduzione del danno. L’articolo che state per leggere però non parla di questo (VICE ha comunque vari articoli che trattano di ricerca su sostanze psichedeliche, rischi e loro storia).
Le ultime due volte che abbiamo consumato dei tartufi allucinogeni, abbiamo optato per una quantità ridotta. Non si tratta di vero e proprio microdosing—l’assunzione regolare di dosi talmente basse da non essere percepibili esplicitamente dal corpo e che, secondo alcuni studi, aiuta la concentrazione e l’umore—ma semplicemente di un basso dosaggio per ottenere effetti minimi. Effetti come: farti scappare da ridere senza motivo per un’ora o due senza sconvolgerti per giorni.
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Da quando siamo chiusi nello stesso appartamento come conseguenza delle misure restrittive per il coronavirus, in più di un’occasione abbiamo pensato di tirare fuori dal frigo quei “Dutch Dragons”. Ma è stato solo domenica, allo scoccare del quarantunesimo giorno di isolamento, che abbiamo pensato fosse arrivato il momento giusto.
Così abbiamo diviso a metà il contenuto della bustina e abbiamo iniziato a masticare. Il sapore dei tartufi è una strana cosa: a volte lo trovi quasi gradevole, altre ti fa venire da vomitare. Per evitare sul nascere questo secondo effetto abbiamo deciso di accompagnarlo con del dulce de leche, che con la sua dolcezza ci ha reso meno consapevoli della quantità di tartufi che stavamo ingurgitando—un dettaglio che più tardi si sarebbe rivelato decisivo.
Mandato giù l’ultimo boccone abbiamo cercato un disco adatto (The Mysticism of Sound & Cosmic Language, sì, proprio con quel titolo) e ci siamo seduti sul divano. Gli effetti sono arrivati prima del previsto: leggerezza, euforia, formicolio agli arti—e alla fine del primo lato del disco, ci eravamo già trasferiti a letto per stare più comodi. Chi ha esperienza con gli psichedelici lo sa: l’ingresso nel trip non lo si registra quasi mai, è un buco nero. Un attimo stai ridendo e dicendo “Non ti sembrano strane le mani?”, quello dopo stai riaprendo gli occhi dopo aver passato 20 minuti in un’altra galassia. È stato a quel punto che ci è venuto il dubbio di averne presi più del solito. Precisamente: metà anziché un quarto, il doppio dei tartufi che avevamo previsto. Ops.
A partire da questo momento, la nostra esperienza ha preso due strade diverse, motivo per cui troverete due voci.
Giada: Chiudendo gli occhi, la mia fantasia è approdata chissà come in una giungla notturna, in cui la luce fioca illuminava la foglie fitte della vegetazione e la pelle lucida dei rettili. Credo di aver pensato per più di un attimo che Giacomo fosse un coccodrillo: lì ho capito di essere più altrove di quanto avrei dovuto.
Giacomo: Resistere era inutile. In questa fase iniziale, il fatto di essere chiusi in casa non ci ha dato alcun fastidio. Sono abbastanza sicuro di aver spinto via il pensiero dell’isolamento un paio di volte, dicendomi di godermi il momento e che per pensare alle cose brutte ci sarebbero state situazioni più adatte.
Giada: Rispetto alle precedenti esperienze con gli allucinogeni, ha iniziato molto presto a mancarmi la possibilità di entrare in contatto—nella realtà, non nel trip—con scenari sconosciuti che potessero sorprendermi, stimolando le mie visioni. Per questo, gli psichedelici in quantità non-micro vengono assunti quando si è all’aperto: in casa, è facile provare una sensazione sgradevole di claustrofobia.
Giacomo: Poi ci è venuta fame, cosa che non ci aspettavamo. Siccome di cucinare non c’era verso perché avevamo le braccia molli, abbiamo pensato di ordinare qualcosa. Poco dopo, bloccati dal senso di colpa verso il fattorino e, soprattutto, dalla paura di parlare con qualcuno mentre eravamo in quelle condizioni, ci siamo limitati a scaldare in forno due calzoni surgelati che avevamo in freezer. Mi sono occupato della cottura; quando la luce della cucina diventava troppo forte, mi prendevo una pausa e raggiungevo sul divano Giada, che mi aspettava pensando di essere il ripieno di un calzone.
Giada: Saranno stati gli effetti della fame, ma immaginare di essere dentro quel calzone è stato bello: sembrava un sacco a pelo molto caldo e meravigliosamente commestibile. Penso sia stato il mio momento preferito del trip—sebbene mangiarli sia stata un’esperienza decisamente complessa.
Giacomo: Avevamo bisogno di una colonna sonora rassicurante, così ho messo un altro disco, Osmose di Ariel Kalma, che è composto per metà da suoni registrati nella foresta pluviale: canti di uccelli, insetti, ranocchie. Perfetto. Dopo aver mangiato, speravo proprio che mi fosse passata: ancora non riuscivo a credere che quella dose mi avesse spedito nello spazio in questo modo. Non tanto a causa delle allucinazioni visive, ridotte al minimo—giusto qualche aura colorata attorno alle cose e la voglia di cercarne i dettagli—ma per una ragione molto più profonda. L’abbandono del proprio corpo, in vari gradi di potenza, è una parte fondamentale di ogni esperienza con gli psichedelici. Chiudere gli occhi significa partire e perdersi in sogni in cui l’idea di te stesso, del tuo corpo e del mondo fisico che ti circonda non è nemmeno più presente: è fluttuare come pura coscienza, in un certo senso. Ma il fatto di essere chiusi in casa, con il mostro della pandemia che ci guardava dalle finestre, costringeva il nostro abbandono.
Giada: I momenti in cui la fantasia mi portava all’aperto sono stati una boccata di ossigeno, per me. Ho avuto la sensazione di essere prima sotto alle fronde di un albero, con i raggi del sole intravisti attraverso le palpebre, poi sotto le stelle, avvolta da una coperta, forse in campeggio—chissà. Si tratta delle sensazioni che più mancano, in questi giorni di quarantena. Nell’esatto momento in cui ho preso coscienza di questo, non sono più riuscita ad accantonare il pensiero devastante della realtà, che fino a quel momento mi aveva lasciato scampo. Ho trascorso l’ultima ora (o due?) di trip a scappare, rincorsa da pensieri oscuri che eclissavano le visioni che erano così rassicuranti ed esotiche fino a poco prima. Quando potrò di nuovo passeggiare all’aperto, andare a un concerto ed essere libera? Non tornerà più nulla come prima, vero?
Giacomo: Dopo circa tre ore, stavo guardando le forme dipinte sul soffitto dalle luci del cortile che entravano dalle finestre. Osservavo come si sovrapponevano, cercavo di tracciarne la traiettoria.
Giada: A un certo punto, forse come conseguenza estrema del rimuginare sul futuro, i tartufi mi hanno trasportato in uno scenario incredibilmente simile al Giardino dei Tarocchi, un parco toscano popolato da statue ispirate alle figure degli arcani maggiori dei tarocchi—ovviamente psichedeliche, surreali, esoteriche, coloratissime. Un attimo dopo essere approdata lì mi sono ricordata di esserci stata per davvero, da bambina, in compagnia di mio padre e mio nonno. In quel preciso istante, ricordando il passato, mi sono sentita più triste che mai: non so quando rivedrò mio padre, mio nonno è morto da tempo e quei giorni non torneranno più, così come la spensieratezza dell’infanzia—o forse, la spensieratezza in generale. Non volevo sentirmi in questo modo, quando ho mangiato quei tartufi.
Giacomo: Ricordo di aver fantasticato anche io sul momento in cui potrò tornare a casa. Ho pensato: non importa se io e mio padre non ci abbracciamo da quando ero bambino, stavolta abbraccio tutti. Sono così spaventato da questa pandemia. Ho sentito una forte ondata di empatia e ho capito che anche mio padre è sempre stato spaventato. Non ha mai conosciuto suo padre, ha perso sua madre, la sua prima moglie, il suo migliore amico: non è che è burbero, è traumatizzato. Piangendo, ho riso. Ci voleva un’unica combinazione di dose eccessiva a sorpresa e isolamento da quarantena per farmi finalmente perdonare mio padre.
Giada: Ho pensato che sarebbe stato bello se il soffitto del nostro appartamento si fosse sollevato, mostrandoci il cielo. Ma non era un pensiero positivo, una fantasia rassicurante. Era la ricerca di una via di fuga, il desiderio di una reclusa: percepivo della disperazione in quella mia visione. Della disperazione che, fino a quel momento, pensavo non mi riguardasse.
Giacomo: Potendo uscire, sarebbe stato bellissimo. Non eravamo così fatti da non poter fare un giro per strada, anzi, sarebbe stato come un parco dei divertimenti, con gli edifici pulsanti, le aure delle persone, il cielo che invade le strade. Ma, del resto, sarebbe stato un viaggio come tanti. Qui, chiusi in casa, abbiamo imparato che chi ha paura va abbracciato e che quando si prendono gli allucinogeni conviene controllare bene la quantità.