Questo articolo è frutto della collaborazione di VICE con GRIOT, un magazine online e un collettivo di creativi, artisti e cultural producer che celebra la diversità attraverso le arti, la creatività e la cultura, e le storie ad esse connesse di afrodiscendenti e altre culture in Italia e nel mondo.
Crescere a Roma, in Italia, ed essere nera non è un pensiero che ha condizionato la mia infanzia o adolescenza: preferisco oggi dire che l’ha accompagnata nella misura in cui di tanto in tanto mi veniva ricordato o fatto capire di essere “the only black in the room”.
Videos by VICE
Se da piccola riuscivano a farmi sentire diversa, in seguito ho compreso che questi episodi erano, e sono, spie di una mancanza (sociale, culturale, politica) italiana, non certo di una mancanza mia. Ma non è stato facile avere a che fare con tutto questo razzismo interiorizzato, anche se presto ho maturato la mia tecnica di resilienza: ogni volta che si verificavano episodi che puzzavano di razzismo, per me l’unica via percorribile e accettabile era non dargli troppo peso, perché solo così potevo temprare il mio carattere e fortificarmi.
Le prime persone che hanno provato a farmi sentire esclusa, diversa, inadeguata sono stati gli adulti. A partire dagli insegnanti a scuola, luogo deputato all’educazione, alla crescita personale, sociale e culturale di un individuo.
Come quando in terza elementare la maestra B., mentre faccio il solito casino dei bambini, per farmi tacere mi chiede: “Giovanna [questo il nome che mi sono portata dietro fino al secondo liceo—anche se non mi piaceva e pensavo fosse sfigato—perché quello le persone intorno a me sapevano o volevano pronunciare, perché quello da piccola mi ero abituata a dire, perché era il giusto nome italiano] di dove sei?”
Di Roma. “Di Haiti”, rispondo, capendo che si sta riferendo alle mie origini.
“Lo sai che il tuo paese è il paese più povero del mondo?”
“Sì, lo so che è povero, ma non è il più povero.”
“Sì sì, è il più povero d’Occidente.” E mentre lo dice e ripete, indicando Haiti sulla cartina appesa al muro, guardandomi negli occhi e guardando il resto della classe, capisco dal suo tono che non prova alcuna pietas cristiana per quella povera gente, ma solo un incomprensibile desiderio di mostrarmi la sua superiorità e mettermi al posto in cui secondo lei devo stare.
Oppure quando in prima media la supplente siciliana che mi diverto a imitare mi urla, “Giovanna, la vuoi smettere di prendermi in giro? Come reagiresti tu se io ti dicessi ‘sporca ne*ra’?” Cala il silenzio. Io non rispondo e divento più piccola dell’età che ho. Non le dico che la mia amica più grande è siciliana e che in casa, da lei, parliamo il siciliano che ogni tanto prova a insegnarmi. Non le dico che ridiamo a crepapelle quando la imito, e che lei si raccomanda che dalla mia bocca non esca mai un miiiiinchia in classe. La supplente continua la lezione come se nulla fosse. Io non verso lacrime ma ho lo stomaco sottosopra, torno a casa e non dico nulla. In quei casi taci perché non vuoi dare un dispiacere alla tua famiglia, perché sei consapevole che è successo qualcosa di grave. Ma dentro di te, rimugini e rimugini sull’accaduto.
Non sono l’unica ad aver affrontato la tempesta razzista fin dalla più tenera età. Alla mia amica Celine, ragazza dalla carnagione ambigua perché di padre ivoriano e madre toscana, quando aveva la mia stessa età, sette anni all’incirca, gli adulti non si facevano problemi a chiedere, “Ma sei stata adottata?” Come se quella pelle cancellasse la sua innocenza o il suo diritto a non sapere, nel caso. E poi: invece di spiegargli perché non si dovevano falsificare le firme per i compagni di banco, la maestra elementare umiliò il mio amico Gaylor—arrivato in Italia a sei anni—davanti a tutta la classe dicendo, “Perché Mangumbu deve capire che certe cose qui in Italia non si fanno. Non so com’è abituato al suo paese.”
Ma il posto che alcuni miei connazionali volevano avessi nella società ha iniziato ad assumere contorni più chiari quando a 11 anni ho scoperto la Lega, sostenuta mediaticamente dalla triade Berlusconi-Forza Italia-Fininvest. Ricordo che ero a casa, stavo guardando al seguito di mia madre il telegiornale delle 20 quando parte una diretta da una manifestazione anti-stranieri organizzata dalle camicie verdi. Un giornalista chiede a un ragazzo, “Perché siete qui oggi? Per cosa state protestando?” E il ragazzo risponde, “Siamo qui per cacciare i ne*ri dall’Italia.” Dalla risposta di quel giovane legaiolo capisco una volta per tutte che le cose non saranno rose e fiori per me, italiana e nera.
Nel frattempo, continuano gli episodi meno traumatici ma più ingenui, chiamiamoli così. Alle medie e al liceo, quando uscivo con altre ragazze nere, per molta gente eravamo per forza di cose apparentate o originarie dello stesso paese africano. Soprattutto se avevamo tutte quante le treccine. “Siete sorelle vero? Da che paese venite?” Come se tutti i rosci fossero fratelli. O tutte le bionde con gli occhiali sorelle, avrei voluto rispondere io invece di quel mio no gentile e rassegnato accompagnato dall’elenco dei paesi da cui traggo le mie origini—Italia in primis.
Non che le cose siano cambiate da allora: poco tempo fa mi chiama un’amica francese, che sta girando per Milano, e dice, “Johanne, a Parigi non succedono cose del genere… Sono uscita con Arnold e tutta la gente ci guardava stupita, sembrava non avessero mai visto due neri belli e ben vestiti passeggiare insieme. Quando siamo arrivati all’appuntamento con la mia amica milanese e un’altra ragazza, quest’ultima dopo averci squadrati dalla testa ai piedi se ne è uscita con ‘Madonna, che bella coppia che siete, sembrate un re e una regina africani. Siete fidanzati, vero’?” Nel 2017! Lo stesso anno in cui ancora i miei capelli alla Angela Davis attirano sguardi e mani indiscreti, e comincia la solfa entusiasta oddio che belli questi capelli, li voglio anch’io, o ma come si pettinano? come si lavano? riesci a lavarli? come li asciughi?
Sì, ci sono anche quelli che ti lanciano occhiatacce di disapprovazione per quella chioma afro a cipolla che mal si adatta al costume italiano. Ma per molti si tratta solo di una curiosità genuina, innocente (ignorante?), e dopo essermi arrabbiata per molto tempo io oggi sono consapevole della provenienza di questi gesti, di nomignoli come “cioccolatino” o “negretto/a” dati a un bambino o “la bella pantera” per una ragazza (retaggio linguistico-culturale, quest’ultimo, di un’industria filmica, pubblicitaria e televisiva che ha soprattutto dipinto e oggettificato la donna nera in questi termini, diffondendo negli anni un immaginario difficile da ribaltare), e intesi come complimenti, come gesti d’affetto. Da piccola sorridevo, un po’ infastidita, ma sorridevo. Oggi invece no, oggi cerco di spiegare.
Ecco perché non mi sorprendo quando un amico medico mi racconta che un suo collega, provato dalla lunga giornata di lavoro, se ne esce con, “Oggi sono veramente stanco, ho lavorato come un ne*ro.” Per lui è normale, e neanche tu dovresti essere così permaloso. D’altra parte è normale davvero, purtroppo, nel senso che è normale che non esista un’altra rappresentazione dei neri, in Italia. In TV non ne vedi—oggi leggermente di più perchè ci sono i talent show, una manciata di attrici che cominciano a ricoprire ruoli normali, e perchè si parla di ius soli. Al cinema invece niente, e sui giornali le tristi notizie di stupri compiuti da africani, degli sbarchi e di (sempre) africani che bighellonano per le città italiane non sono accompagnate da una narrativa che esalti con la stessa enfasi storie di creativi (e non) afroitaliani che ogni giorno arricchiscono il bagaglio culturale del nostro paese. Ma anche nei posti di lavoro di cultura, di entertainment, di creatività e nelle altre professioni se ne vedono pochi, e forse è per questo che modi di dire come “ho lavorato come un ne*ro” non sono intesi come problematici: perché non si mette in conto che sono sbagliati, che possono dare fastidio a un tuo collega e connazionale. A una persona con la pelle nera.
Da quando sono piccola a oggi le cose nei media non sono cambiate molto. La rappresentazione di questo paese non è cambiata. C’eravamo poco ieri. Ci siamo poco oggi, quando mamma RAI decide per il Capodanno 2016 di immergere Roberta Giarrusso in un’enorme coppa di cioccolato pur di rendere verosimile la sua interpretazione di Donna Summer, invece che—chessò—chiamare artiste più adatte come Vhelade o Miza Mayi.
Per non parlare dell’informazione, ma di questo ve ne accorgete anche voi: da destra a sinistra, dai quotidiani xenofobi che titolano, “Dopo la miseria portano malattie,” ai giornalisti che affermano, “Gli africani non hanno la cultura del lavoro e vivono nella merda,” ai colpi bassi del fuoco—democratico—amico che tuona, “Se vogliamo continuare la razza italiana dobbiamo capire che bisogna sostenere le mamme” (“Quelle italiane, quelle vere, eh, sia chiaro,” avrei aggiunto io), agli esponenti del Comitato delle Pari Opportunità della Corte d’Appello di Salerno che affermano, “Non possiamo pretendere che un africano sappia che in Italia, su una spiaggia, non si può violentare, probabilmente non conosce questa regola.”
Quando, qualche settimana fa, si è diffusa la notizia che una sindaca (pro-accoglienza) non accetta la storia d’amore della figlia bianca con un rifugiato africano, mi è tornata in mente la mia prima delusione di quel concetto di uguaglianza che ho—quasi sempre—vissuto, nel momento in cui ero abbastanza grande da poter comprendere. È stato quando a 12 anni stavo guardando Indovina chi viene a cena con una cara amica di mamma, una donna molto british dagli occhi blu e le gote rosse, figlia di un impero coloniale molto criminale e molto razzista. È lei che mi ha insegnato il significato di quella che oggi viene comunemente definito “white privilege“, il privilegio bianco, soprattutto quello di stampo liberal-democratico.
“Daisy, che bello,” dico io, “sono proprio contenta, alla fine il padre della ragazza ha accettato che il ragazzo nero sposasse sua figlia. L’amore ha trionfato e il razzismo ha perso.”
“No, Johanne,” replica Daisy, “non è così. Mi dispiace deluderti. Questo film è di un’ipocrisia incredibile. Alla fine mostra che è sempre l’uomo bianco che decide. Sempre. Non va bene.”
Ecco, è un po’ come l’Italia in cui sono cresciuta, e quella di oggi: molto solidale, molto accogliente, a tratti molto aperta, ma sempre conservatrice. Per molti prima c’erano i terroni, poi gli albanesi, poi i cinesi e i rumeni, oggi “i ne*ri,” “gli africani.” Che sono “tanti,” che sono “troppi,” che “ci stanno invadendo.”
Oggi, quando guardo mio figlio e lo porto a scuola, mi capita di pensare con la classica apprensione di una mamma chioccia, che anche lui si troverà di fronte all’ignoranza dei grandi, alla cattiveria spontanea e senza filtri dei bambini, assorbita tra le mura di casa o all’interno del “gruppo”. È un pensiero che ogni madre nera ha. Penso anche che troverà molte persone che andranno oltre il colore della sua pelle, le sue origini, e che saprà, proverà a raddrizzare tutte le storture che incontrerà nel suo percorso.
Johanne Affricot è la fondatrice di GRIOT. Segui GRIOT su Facebook e Instagram.