“Un vrai gourmand aime autant faire diète que d’être obligé de manger précipitamment un bon diner”
1803, Parigi. Alexandre Grimod de la Reynière conia un’espressione tanto fortunata quanto modaiola, duecento anni dopo circa, e delinea la fisionomia del vero gourmand. Allo stesso tempo, con la prima edizione dell’Almanach des Gourmands, scrive la prima opera di critica gastronomica, con un secolo d’anticipo rispetto alla prima apparizione della Guida Michelin. Una sorta di vademecum sui locali della città, per la nascente borghesia parigina: recensioni di caffè, ristoranti e botteghe della Ville Lumière. Qualcosa di mai visto prima.
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Ho i miei forti dubbi che Grimod de la Reynière volesse trasformare questa passione in una professione riconosciuta e stimata, o anche solo in un lavoro retribuito. De la Reynière era semplicemente un ricchissimo rampollo della nobiltà parigina Ancien Régime, passato indenne dalla Rivoluzione, che aveva deciso di spendere la sua fortuna in cibo e vino (mica scemo). Altro che critico gastronomico.
Nel 2019, invece, all’epoca di Masterchef, dei cuochi stelle della TV, dei ricettari che diventano best seller, tutti vorrebbero essere un Grimod de la Reynière contemporaneo e, magari, essere pure pagati per andare in giro a mangiare. Prospettiva invitante, per cui anch’io ho deciso di diventare un neo Anton Ego, tanto che mia mamma sta pensando di editare il mio taccuino di ricette e recensioni.
Purtroppo, i miei sogni da critico si sono scontrati con la realtà: il 16 dicembre scorso, in un post Facebook, Cristiana Lauro, consulente enologica ed esperta di materia gastronomica, ha voluto informare “una volta per tutte, che quello di critico gastronomico non è nemmeno un mestiere”, a fronte delle tante richieste di dritte e consigli, da parte di giovani ragazzi/e o dei loro genitori, su come intraprendere questa professione tanto ambita.
È doveroso, però, distinguere il lavoro di critica gastronomica – quello che si legge sul New York Times, spesato e retribuito con uno stipendio fisso, al pari degli ispettori Michelin, in cui provi ristoranti e li valuti/recensisci – , dal giornalismo gastronomico che appare su molte testate nazionali, volto più a narrare un’esperienza.
Così, per capire se la critica gastronomica ha un futuro, se questo è davvero un lavoro e, soprattutto, se permette di arrivare alla fine del mese, ho chiesto a tre critici lumi e spiegazioni sulle questioni che dovrebbero interessare chi approccia e sogna di far parte del luccicante mondo enogastronomico.
“Se si parla di gastronomia tout court, di fine dining, d’alta cucina, è un lavoro nel 100% dei casi non sostenibile. Ci vogliono i soldi. Bisogna esser ricchi.”
Primo, essenziale: sto benedetto critico gastronomico è un mestiere sì o no?
“La verità è che si trattava di un gentleman job, ovvero una seconda professione, svolta con passione, fino agli anni Novanta”, mi spiega subito Paolo Vizzari, che per anni ha lavorato alle Guide dei Ristoranti d’Italia dell’Espresso, fianco a fianco con il padre e direttore Enzo. “Anche perché il pubblico era molto ridotto, e questi pochissimi giornalisti – penso a mio padre, Luigi Cremona, Davide Paolini – non erano proprio invidiati, anzi erano considerati un po’ cretini. Perciò, a mio avviso, oggi come all’epoca, questo mestiere non esiste”.
Enzo Vizzari è uno dei primi nomi che vengono in mente nel panorama della critica gastronomica italiana, però “quasi tutti dimenticano un piccolo particolare: mio padre è diventato Enzo Vizzari, una colonna portante della critica gastronomica italiana, dopo che per 35 anni è stato un dirigente di Confindustria, e il cibo lo viveva come un hobby. Oggi voler diventare Enzo Vizzari è un po’ come pensare di raggiungere Messi, per chi gioca a calcio”. Non proprio semplice, ecco.
E ci avviciniamo al tema fondamentale, “un conto è parlare di giornalismo gastronomico indirizzato, ovvero specializzarsi sulla pizza o sulla birra, per esempio, e questo può avere un senso, perché si prende uno spicchio di settore. Se però si parla di gastronomia tout court, di fine dining, d’alta cucina, è un lavoro nel 100% dei casi non sostenibile. Ci vogliono i soldi. Bisogna esser ricchi. Parliamo di un investimento che neanche le redazioni di un tempo avrebbero coperto, figuriamoci oggi, in un mercato editoriale che paga dai 50 ai 100 euro ad articolo.” Se va bene, aggiungerei, perché molte testate online commissionano articoli a cifre ridicole, tipo 15 euro, o addirittura gratis.
“Sai quanti ragazzi ho visto mollare, perché non campavano con questo lavoro”
Mentre inizio a pregare che mio padre abbia per caso dimenticato qualche milione in banca da lasciarmi, mi chiedo da dove allora derivino le entrate di questi fantomatici critici. “Nel caso delle Guide dell’Espresso c’è un’alta concentrazione di giornalisti professionisti, mentre per esempio al Gambero Rosso ci sono notai, avvocati, medici, a recensire i locali. Le Guide dell’Espresso pagano 80 euro a scheda, oltre al rimborso del conto, le Guide del Gambero Rosso hanno la politica del no pay, vale a dire che rientrano solo degli scontrini, ma il lavoro di stesura scheda non è retribuito”.
Il problema nasce quando l’enogastronomia allargando, come negli ultimi 7-8 anni, il proprio pubblico oltre misura. “Succede che tutti vogliono fare il critico, ma un giornalista guadagna 1000 euro al mese, dai 1500 ai 1800 nel caso dei direttori di testata. Con un weekend a Copenaghen, una stagione del Noma, una cena al Geranium, volo e hotel, ti sei già giocato uno stipendio. Sai quanti ragazzi ho visto mollare, perché non campavano con questo lavoro”.
“Io ho smesso di fare critica, racconto l’alta gastronomia tramite eventi e manifestazioni, con questi chef d’haute cuisine, faccio consulenze per clienti di cui poi naturalmente non tesso le lodi. Se fai il consulente per l’organizzazione di un evento importante, guadagni come dieci giornalisti in un anno.”
“I critici non seguono una prassi corretta. Non vanno in incognito, non pagano i conti, scrivono di cene stampa. Quella roba lì non è critica gastronomica, è parodia della prassi”
Un altro macrotema fondamentale, legato alle scarse retribuzioni del mercato editoriale, è quello del conflitto d’interessi, la grande battaglia deontologica di Valerio Massimo Visintin, il critico mascherato del Corriere della Sera.
“Il problema è che gli editori pagano pochissimo tutti i giornalisti, ma ancor più hanno poco rispetto per chi fa critica gastronomica, considerato un giornalismo di Serie B. Questo determina un appiattimento del giornalismo gastronomico, indirizzato sempre verso gli stessi posti. I critici, poi, non seguono una prassi corretta. Non vanno in incognito, perché non sono in grado di pagarsi il conto. Molto spesso, scrivono la recensione dopo un sopralluogo al vernissage del ristorante o dopo una cena passata al fianco dell’ufficio stampa, del ristorante stesso. Oppure si fanno queste cene stampa, dove vanno coi pulmini tutti insieme. Quella roba lì non è critica gastronomica, è parodia della prassi. Il lettore, però, non può distinguere un lavoro corretto da uno deformato”.
“Altri giornalisti ancora vanno per conto loro al ristorante, peccato che vengano riconosciuti, e quindi non pagano”.
Visintin aggiunge: “Ma sai qual è il bello? Se un giornalista prova ad avere un’opinione contrastante rispetto al resto della stampa, se la ritrova contro. Tre anni fa, Federico Ferrero scrisse quattro recensioni su La Stampa, di grandi ristoranti stellati italiani, evidenziandone i pregi, ma anche i difetti. Fatto sta che non è stato bersagliato dai cuochi stessi, ma dai giornalisti di settore, tutti schierati contro queste recensioni”.
“Altri ancora vanno per conto loro al ristorante, peccato che vengano riconosciuti, e quindi non pagano. Qualche anno fa, al Trussardi alla Scala, ai tempi di Berton, non ci arrivava neanche il menu, perché in sala non c’era nessuno. A un certo punto vedo arrivare una folla di camerieri, in mezzo ai quali c’erano Fiammetta Fadda ed Enzo Vizzari. Il resto della sala era stato completamente trascurato per loro. Un episodio grottesco”.
“La media clienti giornaliera di un ristorante stellato è di venti clienti, con un incasso medio di 2000 euro. Lo stesso guadagno di una comune pizzeria”
Nonostante tutto, riflettendoci, il giudizio della critica continua a influire in maniera determinante sul lavoro di cuochi e ristoranti. “Sì, ma anche questa è una deformazione, perché riguarda solo una piccola parte della ristorazione italiana, ovvero quel migliaio che ambisce al gotha, preoccupati dal parere dei critici , ma ormai nessuno va nei ristoranti stellati. C’è uno studio di questa società bolognese, la JFC di Massimo Feruzzi, che ha calcolato la media clienti sui ristoranti stellati in Italia: il risultato è venti clienti al giorno. Con un incasso medio di 2000 euro al giorno: gli stessi soldi che fa una pizzeria di medio cabotaggio a Milano, ma con costi molto superiori”. Tirate voi le somme.
“Io prima di iniziare questo mestiere ho fatto un po’ di gavetta: ho lavorato in una bottega di Centocelle, ho frequentato corsi di cucina e di panificazione…”
Ma non mi sono ancora arreso: così, la ricetta per entrare nel mondo della critica e del giornalismo gastronomico l’ho chiesta a Lorenzo Sandano, per due ragioni: in primis non è figlio d’arte o figlio di papà, nel banale senso che deve guadagnarsi da vivere, secondo, perché è molto giovane e si è fatto strada nel mondo editoriale degli ultimi anni, non in quello d’un’altra epoca. A 27 anni lavora per le Guide dell’Espresso, collabora con Cook_inc, ha un importante trascorso al Gambero Rosso, ed è stato votato come miglior critico gastronomico da 100 giovani chef. “Tanti ragazzi mi scrivono, per sapere come possano fare il mio lavoro, e io ripeto sempre che il mio percorso è stato tanto ordinario quanto fuori dall’ordinario, ma invito ognuno a capire con il tempo la strada che più gli si addice. Alla base, penso che ci debbano essere due requisiti: una formazione legata alla scrittura, che abbia toccato ambiti giornalistici, e una conoscenza approfondita delle tematiche trattate. Non si tratta solo della possibilità economica di andare fuori a mangiare; non potrei mai giudicare un aspetto tecnico di una cucina, senza sapere come fare un buon fondo di carne, per esempio”.
“Ci vuole coerenza, esperienza, passione. Un obiettivo sostenibile rispetto ai propri mezzi e ambizioni. Ma soprattutto etica e attitudine a condire il tutto.”
“Io prima di iniziare questo mestiere ho fatto un po’ di gavetta: ho lavorato in una bottega di Centocelle, DOL-Di Origine Laziale, ho frequentato corsi di cucina e di panificazione, con Gabriele Bonci. Ho fatto praticantato e lavorato diversi anni al Gambero Rosso, poi ho scelto di svolgere questo mestiere da freelance, perché mi permette di ampliare gli orizzonti, di viaggiare, d’essere continuamente aggiornato. Per esempio, domani parto per il Giappone, sarà un viaggio costoso, ma lo vivo come uno step necessario per raccontare questo mondo in un’ottica trasversale, non statica”.
In questo senso, il ruolo di freelance stimola in qualche modo una bizzarra brandizzazione del proprio nome: “le partecipazioni a eventi o trasmissioni televisive, vedi Masterchef o Cuochi e Fiamme, non mi servono per autocelebrarmi o lucrarci, ma per trasmettere contenuti autentici delle mie esperienze, a un pubblico più ampio e diversificato, senza relegare il lavoro a una fascia elitaria. Ti dirò la verità, per mantenermi io lavoro anche per un’azienda agricola, che non c’entra nulla col mondo dei cuochi, da cui ricavo un’entrata fissa mensile, che mi da modo di respirare”.
“Ai ragazzi che si affacciano a questo mondo ribadisco sempre che nulla è assoluto o impossibile per definizione. Ci ogliono coerenza, esperienza, passione. Un obiettivo sostenibile rispetto ai propri mezzi e ambizioni. Ma soprattutto etica e attitudine a condire il tutto.”
In ogni caso, io non disdegnerei una buona eredità.
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