La stanzetta che ospita la lezione di primo soccorso è piena di donne. È un’aula spoglia e luminosa nel Kurdistan Training Coordination Center di Bnaslawa, a nord di Erbil, dove la temperatura sfiora i cinquanta gradi. Sedute dietro i banchi in fila ordinata, sono circa una ventina le donne che seguono il corso di addestramento.
Come allieve al loro primo giorno di scuola, prendono appunti sui loro quaderni e seguono con attenzione la spiegazione delle addestratrici dell’esercito italiano. Alcune ascoltano e basta perché non sanno né leggere né scrivere. Altre invece non alzano nemmeno lo sguardo dai loro fogli.
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Quasi tutte fanno parte del gruppo Zeravani, un’unità militare appartenente alle forze di sicurezza curde che dipende direttamente da Marsoud Barzani, presidente della regione autonoma dell’Iraq e capo del Partito Democratico del Kurdistan (PDK).
Eppure, la maggior parte di loro proviene dalla Siria; da Kobane, Damasco, Qamishlo, Derek e Afrin. Come Fatima: ha 23 anni e proviene dal Rojava ma da quasi tre anni vive a Erbil con la sua famiglia, dove ha deciso di arruolarsi con i Peshmerga, le forze di sicurezza del Kurdistan iracheno.
“Volevo entrar a far parte dei Peshmerga già quando ero in Siria, poi quando sono arrivata qui è diventato possibile”, racconta a VICE News, con voce flebile ma decisa. “Ho scelto di entrarci perché volevo difendere il mio paese, il Kurdistan, dallo Stato Islamico. Non importa se in Siria o in Iraq, perché sono curda prima di tutto.”
Come Fatima, anche le altre ragazze stanno partecipando al corso di addestramento delle forze di sicurezza curde preparato dalle soldatesse italiane.
“Sono felice di essere qui” racconta, “perché ci insegnano nuove tecniche di difesa e di primo soccorso. In questo modo saremo più forti contro Daesh.”
Per la maggior parte di loro non è il primo corso di addestramento. Sono già state formate dai Peshmerga e alcune hanno anche combattuto nel Sinjar nel 2014, quando lo Stato Islamico assediò la montagna del Kurdistan e costrinse alla fuga migliaia di persone.
Questo tipo di addestramento, tuttavia, rientra in un ampio programma, parte della missione internazionale “Inherent Resolve”, lanciata dagli Stati Uniti contro lo Stato Islamico dopo la richiesta di soccorso presentata dall’Iraq alle Nazioni Unite, il 20 settembre 2014.
L’Esercito Italiano è presente nel Kurdistan iracheno e in Kuwait fin dall’inizio – ottobre 2014 – con l’operazione “Prima Parthica“, nome che rievoca la Legione fondata dall’imperatore romano Settimio Severo per combattere in Oriente contro i Parti.
In Kurdistan, l’Italia fornisce personale e assetti militari, e prepara le forze armate che andranno a sorvegliare luoghi pubblici come aeroporti, ambasciate e checkpoint.
La missione che ha come obiettivo “il contrasto alla minaccia terroristica dei jihadisti dell’IS” è stata prorogata dal Parlamento Italiano fino a dicembre 2016: la spesa autorizzata fino ad oggi ammonta a 236.402.196 milioni di euro.
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I trainers della coalizione (Italia, Germania, Regno Unito, Ungheria, Norvegia, Finlandia e Olanda) hanno già addestrato circa 12.000 militari curdi: ad oggi, l’Italia risulta essere il paese che ha esercitato più della metà dei soldati.
Mentre le militari Peshmerga, sdraiate a terra sul pavimento, sono impegnate in una prova pratica di primo soccorso, G. M. – capitano e portavoce dell’Esercito Italiano a Erbil – spiega a VICE News perché l’Italia è impegnata in Kurdistan a fianco della coalizione.
“La scelta di non lanciare bombe è politica. Quello che facciamo non è più importante del combattimento, ma forse porta maggiori risultati nel lungo periodo,” spiega il militare italiano. “Creando un esercito nazionale preparato, si mettono le basi per una sicurezza continua di quel paese, in questo caso il Kurdistan.”
Le attività degli addestratori militari italiani a favore dei Peshmerga sono di diverso livello: la prima è una formazione basica di fanteria; la seconda è un addestramento più strutturato dei plotoni e delle compagnie all’uso dei mortai e dell’artiglieria e del sistema controcarro Folgore. Ci sono inoltre corsi specialistici per tiratori scelti, e di messa in sicurezza da ordigni improvvisati fabbricati dai jihadisti dello Stato Islamico.
L’Italia ha anche fornito alle forze Peshmerga diverso materiale bellico, come cinquanta sistemi controcarro Folgore, mille razzi calibro 80 mm, tremila razzi SPG9, duecento mitragliatrici di diverso calibro e tipo, e più un milione di munizioni – tutto parte di alcuni sequestri di armi di contrabbando provenienti dall’Est Europa.
Ad oggi, gli addestratori sono circa duecento ma il numero totale di militari italiani presenti sul suolo iracheno è di circa 900 uomini, a cui si dovranno aggiungere altri 500, in arrivo a fine settembre, che saranno impegnati a garantire la sicurezza al personale della ditta Trevi, incaricata dei lavori di risanamento della diga di Mosul.
Ma quanto durerà la missione?
“Il piano è la sconfitta dello Stato Islamico quindi per ora non c’è una data di fine,” spiega il capitano dell’Esercito Italiano. “L’Italia qui, sta sotto il cappello della coalizione ma anche per volere nazionale, perché riconosce le difficoltà del popolo curdo e non è detto che l’Italia non continui con l’addestramento anche in futuro.”
Le perplessità, tuttavia, non mancano. Per Francesco Vignarca, coordinatore nazionale della Rete Italiana per il Disarmo, il rischio è che la presenza militare italiana diventi endemica come in Kosovo o in Afghanistan.
“Se fossimo coerenti dovremmo sostenere il Kurdistan a trecento sessanta gradi, invece si finge di farlo addestrandolo, tralasciando poi tutto quello che riguarda l’aspetto politico,” sostiene il coordinatore, parlando con VICE News. “Se non c’è una visione politica dietro, per chi faranno la sicurezza interna le forze peshmerga? Per uno Stato o per il loro capo?”
Sotto il cielo occupato dalla coalizione internazionale, i combattimenti tra forze Peshmerga, milizie sciite e Stato Islamico si sono intensificati in vista dell’offensiva finale che dovrà portare alla liberazione di Mosul, la roccaforte di IS. Il futuro dell’Iraq – e quindi della missione – dipenderà anche da come verrà condotta la liberazione, da chi saranno gli attori coinvolti e se verranno protetti i civili.
“Un coinvolgimento nella situazione senza tener conto di altri contesti risulta un palliativo,” prosegue Vignarca. “L’addestramento ha senso solo se sarà accompagnato da una vera ricostruzione del tessuto sociale e della società civile, oggi totalmente disgregata.”
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Foto di Arianna Pagani