Francesco Zappalà
Tutte le foto per gentile concessione di Francesco Zappalà
Musica

Francesco Zappalà: perché l'Italia non è un paese per DJ

Se il Cocoricò è fallito è anche perché in Italia abbiamo un problema di mentalità: ce lo ha spiegato Francesco Zappalà, uno dei DJ che hanno fatto la storia della vita notturna italiana e che hanno visto nascere e morire il Cocco.

Poco tempo fa mi sono preso qualche giorno di vacanza per andare a Tropea, in Calabria; un po' perché il mare lì è bellissimo, un po' per andare a trovare una mia amica, tornata ad abitare in Italia dopo un periodo a Berlino durante il quale ha conosciuto un uomo, se ne è innamorata e ci ha fatto uno splendido bambino. Quest'uomo è Francesco Zappalà.

Zappalà non ha bisogno di presentazioni, essendo stato nei Novanta una vera e propria icona del DJing: vincitore della DMC Competition contro, tra gli altri, Giorgio Prezioso e Lory D, sarà l'unico italiano ad arrivare al secondo posto alla Battle for World Supremacy a New York, così come anche ai campionati mondiali alla Wembley Arena di Londra. Oltre ad aver girato tutte le discoteche più importanti del mondo col suo stile acrobatico, è stato un grandissimo divulgatore della musica elettronica in Italia.

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Proprio nei giorni in cui mi trovavo a casa sua è emersa la notizia del fallimento della storica discoteca Cocoricò di Riccione, tempio della techno italiana nel corso degli anni Novanta. Ovviamente il rapporto di Francesco con il Cocoricò è stato intenso, quindi abbiamo deciso di fare una bella chiacchierata partendo da quella che sembra una vera e propria chiusura di un cerchio sia artistico che umano.

francesco zappalà cocoricò

Francesco Zappalà al Cocoricò

Siccome sei stato frequentemente ospite e animatore del Cocoricò, mi farebbe piacere sapere cosa pensi del suo fallimento.
Con la chiusura del Cocoricò quest’estate si chiude un po’ un'epoca. È la fine di un declino, in un certo senso, l’onda lunga della techno e di un modo di fare clubbing che in Italia aveva preso piede e poi per un motivo o per un altro si è smontato, per usare un termine diplomatico. Il Cocoricò lo vidi nascere nell’estate del 1989, partecipando alla Walky Cup Competition. Ancora ero un DJ di scratch con un orecchio alla house music, genere che stava montando alla grande. Quell'estate Rimini e Riccione erano in subbuglio.

Qual è stato il tuo percorso prima di arrivare là? Facciamo un po’ di storia.
Il mio background parte un po’ più indietro, a metà degli anni Ottanta. Da ragazzino sentivo l’hip hop, che era una musica di rottura, e tra l’altro era quella che serviva per fare i contest di scratch. Quindi arrivo da là e dal british pop: Nik Kershaw, Depeche Mode, tanto per citare i più famosi.

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Quando parli di contest ti riferisci alle cose con Radio DeeJay?
Sì, proprio la Walky Cup a Riccione. Che tra l’altro era una gara molto prestigiosa, anche perché c’era un premio in danaro di cinque milioni di lire, non era una garetta, veniva gente da tutta Italia a farla. Avrei voluto suonare house music, ma per me era difficile perché ero confinato nella categoria dei DJ da gara. Ero un DJ da un quarto d’ora, insomma. Quando vinsi il titolo andai in giro per l’Italia a fare la mia tournée e tutti si aspettavano di vedere lo Zappalà dei piatti. Mettevo i dischi sui piedi, scratchavo acrobaticamente… Con Radio DeeJay però fu l'unica collaborazione, poi passai a lavorare con Rete 105, come proprio DJ techno. Alla Walky Cup però ricordo un giovane Fiorello…

… A fare il gigione tra le consolle, ricordo perfettamente.
Era una situazione molto simpatica. C'era anche Linus e altri grandi personaggi agli albori della loro carriera, mentre noi eravamo 'sti DJ pazzi, non solo io, c’era per esempio Digital Boy che portava i primi campionatori, oppure DJ Lelewell alias Daniele Davoli (che poi fondò i Black Box) che faceva una performance molto goliardica. Quella gara la vinsi io, poi Cecchetto intuì la spettacolarità di quella edizione e in un paio di pomeriggi ci fece registrare tutti.

Quindi erano due contest distinti.
Sì, uno televisivo, che durava due minuti, e quello serale che prevedeva il premio in denaro, per il quale avevamo poco meno di un quarto d’ora per fare l’esibizione.

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E com'era?
C'era un bel clima. Ricordo che quando andavo a dormire passavo davanti a questo locale che mi dicevano che sarebbe diventato di tendenza, ma non mi dicevano neanche il nome. Era quello che poi sarebbe diventato il Cocoricò. C’era la punta della piramide grezza, non era ancora nemmeno rivestita. Avrebbe aperto l’anno dopo. A partire dagli anni novanta è iniziato un trend al quale molti locali si sono ispirati. Io poi ho avuto la fortuna di lavorare a Match Music, costruendomi una certa credibilità come DJ di musica elettronica. Tentavo di scrollarmi di dosso questa caratterizzazione da DJ hip-hop che mi era stata data.

Quando hai avuto questa svolta storica?
Immediatamente. Prima delle gare il mio obiettivo era fare il DJ, quindi mi sbattevo per fare le feste, me le organizzavo. A Roma fui il primo DJ in vetrina, nel negozio della Energie.

La nostra generazione, soprattutto quella romana, era di stampo Energie. Anche se non eri del tutto aderente a quel tipo di estetica prima o poi dovevi farci i conti.
Erano punti d’incontro. Feci quei cinque o sei mesi, con l’obiettivo di fare musica, fare ballare. Andavo a prendere i dischi nei negozi della zona e così Paolo Zerletti di Mixup mi diede delle VHS di gare tra DJ. A Energie c'era uno schermo gigante, che per l'epoca in un negozio di abbigliamento era un'attrazione incredibile, e cominciai a mettere questi video sul megaschermo. Rimasi folgorato. Sempre in quel periodo vidi dal vivo, nella stessa sera, Run DMC, Public Enemy e Derek B al Palatenda Strisce.

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In che anno?
Penso fosse l'88. Fu una bomba. Vidi DJ scratch con la cintura da campione, che si arrampicava sulla consolle… insomma, sono tornato a casa e ho iniziato a imitarlo. Visto che ci riuscivo, mi sono buttato nella mischia. Per me è stato un trampolino, invece l’impresario appena dopo aver vinto il titolo di campione mi vedeva già finito. Ho dovuto ritagliarmi spazi e credibilità per impormi anche in quello che mi piaceva, che era la musica house più techno. Io ascoltavo l’acid house, la new beat, poi arrivò l’ambient… sembrava che ogni anno ci fosse un genere nuovo. Ma in fondo era sempre la solita house music che si districava in vari micro generi, stava germogliando.

Poi è arrivata Rete 105.
Venni chiamato da Rete 105 perché forse mi vedevano come una risposta allo strapotere di Albertino.

Strapotere di cui abbiamo scritto ampiamente quando, per Radio DeeJay e per lui, si è chiusa un’era con il suo passaggio a m2o.
Certo. Ma mentre Albertino è sempre stato più commerciale, io ero sull'onda dei rave più estremi, quelli della scena romana. Avevo già le idee abbastanza chiare: volevo mettere roba tipo Lil Louise o Adamski e promuovevo anche artisti italiani come Leo Anibaldi. Fu una collaborazione breve, circa un anno e mezzo. Però oggi, a bocce ferme, riconosco che ero un po’ troppo estremo per il loro target.

E dopo 105 che facesti?
A quel punto arrivò la svolta. Avevo fatto una serata al Cyborg e chiamai Gabon, che all'epoca faceva questo after chiamato Exogroove al Momà, che era a pochi chilometri. Lo chiamai e gli dissi che volevo suonarci perché avevo bisogno di farmi vedere in posti come quello. Suonai intorno alle nove, fu un grande successo e conobbi un bel po’ di promoter. Lì cominciai a farmi i contatti che poi a metà anni Novanta mi portarono al mio periodo d'oro.

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Poi hai anche avuto a che fare con Aphex Twin, vero?
Dopo 105 feci l'inviato per Match Music, che doveva essere un po' il programma erede di DeeJay Television. Così mi trovai all'Energy '93 con un operatore in uno dei backstage più belli a livello techno che abbia mai visto. C’erano Carl Cox, Sven Vath… e la ciliegina sulla torta fu Aphex Twin. Lui fece un live come non ne ho mai più visti. Sai quegli eventi unici che dici "ammazza, c’ero anche io"? Dopo che tutti avevano suonato a manetta, lui si mise lì nella posizione del loto, in terra, quasi coperto dalle macchine, tutti 'sti computer aperti, 'ste macchine svitate… Mi dissi: "Mo' je menano!"

Sarebbe stata una possibilità non da escludere!
Invece è sceso un religioso silenzio: bellissimo, c’erano proprio i buttafuori che prendevano le macchinette fotografiche dal pubblico, si avvicinavano quasi in silenzio per non disturbare, facevano le foto e ritornavano indietro. Fu tutto avvolto da una magia unica.

È qui che inizia la tua storia d'amore con il Cocoricò?
A metà anni Novanta non ero ancora riuscito ad andare oltre ad alcune apparizioni al Morphine con David Love Calò. C’era Loris Riccardi come art director, vulcanico e creativo, ricordo la collaborazione con il grandissimo Maurizio Arcieri e Cristina, i Krisma, che a quel punto si erano messi a fare anche techno. Però non riuscivo a fare questa benedetta piramide.

Incredibile! Nonostante il tuo palmares?
Le cose cambiarono intorno al '96 con Ferruccio Belmonte. Lui mi tirò dentro il venerdì come resident insieme al grande DJ Ricci. Nei vent’anni successivi ci sono stato spesso. Nel 2001 ero proprio resident fisso. Fu una grande esperienza. Negli anni di Loris, il Cocoricò era un vero locale di rottura.

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Suonando là hai un po’ assunto quell'aura mitica di trasgressione che accompagnava il locale.
Loro contavano molto sulla trasgressione. Era il linguaggio dei primi anni Novanta. Mi ricordo che una volta sono entrato e nel pavimento c’erano dei figuranti o animatori letteralmente “ibernati” in questi cubi simil-ghiaccio, e tu gli passavi sopra [ride]. Un’altra volta sono entrato e mi sono trovato in mezzo a quarti di bue grondanti sangue, proprio in mezzo alla gente, lungo il percorso che portava alla Piramide! Era sempre roba dall'impatto molto forte.

Era un locale unico.
Era ambito da tutti. Era un delirio, però bello. Era curato nei minimi particolari, un locale pensato per questo genere e con questa filosofia. Sono state annate molto interessanti.

Ecco, ma quelle annate non combaciano con la tua carriera di producer? Perché in realtà tu sei un DJ, ma poi sei passato a fare cose tue.
Da producer ho fatto il percorso inverso. Perché le porte della produzione mi si sono aperte con la Media Records a cavallo della mia esperienza di DJ da gara, quindi nel mio momento di massima pubblicità, quando venivo raccontato come il DJ italiano che andava in America o a Londra a misurarsi coi migliori. E quindi mi affiancarono un team di persone e feci subito un paio di hit commerciali in cui saccheggiammo selvaggiamente dai Roar a Bobby McFerrin, e non mi sembra che siano neanche arrivate cause a riguardo.

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Speriamo che non arrivino dopo questa intervista!
Magari gli è pure piaciuto… [ride]

Per molto meno i KLF si sono ritrovati quasi al gabbio.
All'epoca si rischiava grosso e in generale si rischia grosso anche oggi. Comunque, tornando alla storia: nel Novanta, diciamo, ho fatto questo paio di produzioni commerciali con loro, ma poi mi sono subito rotto le palle perché volevo fare techno. Così ho cancellato tutto e mi sono aperto uno studio. Io sono un producer appassionato, ho sempre collezionato le 808, 909 tutte le cose che servivano per fare la house e la techno, però non sono mai stato veramente prolifico. Una traccia l'ho beccata però, "GSM", fatta in coppia con Paolo Kighine, quella ci ha dato delle soddisfazioni. Ho visto che ci sono DJ più giovani che la suonano ancora in giro per il mondo.

francesco zappalà memorabilia cocoricò

Francesco Zappalà al Cocoricò

Evidentemente hai seminato bene.
Però sono sempre stato molto arido come producer, sia perché voglio fare le cose che assolutamente piacciono a me, ma soprattutto sono troppo pigro per farle uscire. Quindi ho sempre pubblicato poco.

Al Cocoricò proponevi anche le tue tracce?
A volte sì, anche al Jaiss, altro club di riferimento in Toscana. Questi erano i club dove facevo i miei esperimenti musicali. Un altro fu l’Insane, nel quale cominciavo sempre dal Dat. All’ epoca non c’era nemmeno il CD. Sperimentavo, poi qualcosa usciva.

Ultimamente tu sei anche tornato al Cocoricò per una serie di serate chiamate "Memorabilia". Qual era la situazione?
Vedere il Cocoricò pieno dà sempre una soddisfazione speciale, e poi è bello sapere che c'erano persone che lo frequentavano venti o trent'anni fa, ma anche giovanissimi. Ragazzini dai 16 ai 20 anni che però sono cresciuti col mito del Cocoricò, cercando la musica dell'epoca.

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Qual è stato il problema del Cocoricò secondo te?
Non so se fosse il problema, ma un problema è stato il tentativo di cavalcare eccessivamente il richiamo internazionale della consolle senza coltivare realmente una figura portante che potesse essere di riferimento per un club così importante. Non voglio togliere nulla al grande Cirillo DJ resident che ha passato la vita là dentro. Però se avessero investito, per dire, sulla mia figura non ci sarebbe stato bisogno di fare il Memorabilia. È stata la cultura troppo esterofila a portare alla chiusura. Si facevano serate con DJ talmente importanti che avevano prezzi improponibili anche per un locale importante come il Cocoricò. Quando non hanno più potuto rischiare così grosso, hanno messo in piedi questo Memorabilia.

Ma forse c’è anche dell'altro che ha portato a questo crollo verticale?
Non posso sapere bene tutte le dinamiche. Posso solo dire che ho lavorato con tutte le gestioni del Cocoricò. Con me sono sempre state persone serissime, poi però ho letto qualche mese fa che erano stati pignorati i marchi, quindi probabilmente c'erano problemi che io nemmeno immagino. Ti posso dire che fossi stato io l’art director non avrei chiamato gente come Salvatore Ganacci. Tu lo conosci?

No.
Eh, infatti. Manco io sapevo chi fosse. Ed è meglio non saperlo mai.

Addirittura?
Ci sono dei DJ a cui non avrei mai fatto mettere piede al Cocoricò, anche per rispetto della sua storia, della sua sacralità. Per noi DJ techno il Cocoricò è stato un tempio. Ci ha dato tanto e ci ha dato la possibilità di dare tanto alla gente.

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A questo proposito, parlando di trascinatori delle masse, ho visto che hai rifatto anche cose con il mitico Franchino.
Ho lavorato più con Francesconi al Jaiss, però sì, alla prima serata all'Imperiale c'era Franchino. Sto parlando del Franchino furioso dei tempi d’oro, all’Imperiale da mezzanotte a mezzogiorno, gli afterhour quando ancora nessuno aveva idea di cosa stava succedendo. Ogni tanto ci si incrocia ancora, ma abbiamo agenzie diverse quindi non ci sono tante occasioni di collaborare. Tra l'altro la figura del vocalist al Cocoricò non è mai esistita.

Ah vero, questa è un'altra caratteristica molto peculiare del posto.
Sì, lo rendeva diverso da tutti gli altri. Mentre imperversavano queste voci carismatiche, come Franchino, Francesconi, Tony Bruno, Merlino o il Principe Maurice, al Cocoricò c'era solo musica. Col memorabilia poi è stato rotto questo tabù, perché essendo un'operazione di recupero degli anni Novanta filologicamente la presenza di un vocalist è sacrosanta.

francesco zappalà memorabilia cocoricò

Francesco Zappalà al Cocoricò

Secondo te la figura della discoteca ha ancora un senso oggi? Vedi delle evoluzioni? Tra l’altro tu hai avuto anche una parentesi berlinese.
Io ho la mia idea complottista, cioè che a metà dei Novanta il movimento techno/acid che si basava su afterhours e feste all'aperto stava per prendere davvero piede, ma sono successe un po' di cose che l'hanno fermato. C’è stata molta repressione: un anno in particolare, in una settimana purtroppo morì un ragazzo al The West e una settimana dopo un altro ragazzo all’Exogroove, cosa che di fatto chiuse i giochi. C’erano le mamme antirock, un movimento molto attivo che nonostante il nome dichiarò letteralmente guerra alla discoteca in quanto tale, e da lì è stato un lento declino. Lento perché l'onda era troppo forte, ma ormai nel 2019 in Italia la cultura del clubbing s’è quasi persa. Negli anni Novanta in una regione come la Toscana c’erano almeno cinque locali che facevano duemila persone a sera, di sabato. Oggi questi locali hanno praticamente tutti chiuso. E tutta la gente che ama la techno l’ho rivista a Berlino.

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Quando ci sei andato?
Nel 2010. Mi sentivo un po’ in gabbia in Italia, con la testa da DJ ma senza più le masse da far ballare. C’era una desolazione culturale a livello di suono. Sembrava che esistesse solo tutto su internet. Si era persa la cosa di andare a cercare i dischi a Londra o ad Amsterdam, il gusto di avere della musica che avevi solo tu, con la gente che ti seguiva tutte le settimane per sentirlo. A metà degli anni Duemila tutti hanno cominciato a fare i “producer”, tutti avevano tutta la musica del mondo. Io stesso ho abbandonato il vinile per un po’, facendo dei live con Ableton. Poi nel 2010 ho notato che erano già quattro anni che non raccoglievo i frutti sperati da tutto questo mio mettermi in discussione.

Comunque è più che giusto rinnovarsi, sperimentare nuovi linguaggi.
Però io devo stare in pace con me stesso, devo fare qualcosa che mi piace. In quel periodo mi sono intrippato con Ableton, a fare a fare una cosa live molto articolata che poi ho rivisto qualche anno dopo allo Space fatta da Carl Cox, in maniera anche abbastanza elementare. E pareva che fosse sceso il Padreterno, mentre io non ottenevo nulla!

Eh, i grandi classici dell'ignoranza collettiva, della superficialità spacciata per stile.
Diciamo che non sono riuscito a prendere quel treno, o meglio non sono riuscito a conquistarlo come ero abituato a fare. Cioè stando davanti alla gente facendola ballare. Negli anni Duemila non bastava più, era entrata la comunicazione pesante, un modo di produrre a larga scala. Così me ne sono andato a Berlino perché qui non vedevo sbocchi. E lì mi sono ritrovato nella stessa atmosfera che c'era da noi vent’anni prima. Lì la gente vuole fare festa, sta lì per la musica, il DJ neanche si vede, devi chiedere in pista chi sta suonando e neanche ti rispondono. Quindi l’underground me lo sono andato a vivere a Berlino. Respirandolo, cavalcandolo, buttandomi via, stando al Panorama bar per tre giorni di seguito, però mi sono rifatto le orecchie. E soprattutto sono arrivato alla conclusione che invece la magia per quanto riguarda i DJ come me è quella di mettere i dischi, cosa che a Berlino è molto apprezzata. Alla fine sono andato a Berlino per vedere dove andava la musica, ma soprattutto per riscoprirmi DJ di vinile.

E quando te ne sei andato via da Berlino?
Nel 2016 circa, perché lì ho conosciuto la mia compagna Serena e insieme ci siamo trasferiti al caldo del Sud Italia per crescere il nostro Giorgino, che è il nostro capolavoro.

E ora da Berlino ci porti un nuovo lavoro, giusto?
Sì, è uscito un mio nuovo disco da dieci giorni, realizzato tra Berlino e Torino con Sviz e uscito per la sua etichetta Easy Life. È grazie a lui se è uscito, io come ti dicevo prima sono un po' pigro. Ho fatto un sacco di collaborazioni anche a Berlino, però non mi sono mai preoccupato di far uscire i dischi. Infatti era tanto che non uscivo in vinile.

Come vedi il futuro del DJing?
Il futuro me lo immaginavo di più quando avevo trent’anni. Adesso, sinceramente, cerco di capire il presente. Oggi vedo che ci sono molti altri generi più in voga a differenza della techno, quindi se vuoi fare successo come producer c’è la trap. Però se dovessi dare un consiglio sarebbe di iniziare con le basi e appassionarsi a fare musica oggi conoscendo tutto il percorso, che tutto sommato è breve.

Quindi in qualche modo reinventare il presente.
Per quanto mi riguarda, scavando nel mio passato e riattingendo dal vinile ho ritrovato gli stimoli giusti per ascoltare la musica. Perché è un modo più istintivo di capire la musica, attraverso una copertina, un nome, un'etichetta. Ho massimo rispetto per la tecnologia perché mi ha permesso di fare il producer, però dietro il vinile c’è ancora quel tocco di umanità. Ma questo è come lo percepisco io, la nuova generazione magari ritrova la stessa cosa anche in chi produce il suono in digitale, ma io penso che mi specializzerò sempre di più in quello che so fare: il suono analogico, la bassline che gira, una 909 a cassa diritta. Voglio morì così [ride].

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