elia alovisi
confessioni

La triste vita del metallaro nella provincia italiana

Bullismo a scuola, concerti in capannoni sperduti e amicizie virtuali: se sei un adolescente che crede nel Dio Metallo, non è facile nascere fuori da una grande città.

L'autore dell'articolo è un Vero Metallaro™ e in quanto tale non possiede testimonianze visive del suo periodo di formazione come tale, perché troppo impegnato ad ascoltare Vero Metal™ nel buio. Fortunatamente, l'editor di Noisey Elia Alovisi era un giovane metallaro di provincia durante la sua adolescenza, e ci ha messo a disposizione le sue fotografie.

“Lui va dall’Idroscalo, fino a San Babila, ma lei non verrà mai lì nell’hinterland…” cantano i Gemelli Diversi e Il Pagante in un epifanico brano di Paninaro 2.0. Dubito che Eddy Veerus e compagnia l’abbiano pensata in questi termini, ma il concetto di fondo è valido tanto per la bionda imbruttita del centro quanto per la musica. Perché da persona cresciuta nella provincia profonda, quella che l’ADSL l’ha vista con anni di ritardo e che ancora oggi non ha il cablaggio della fibra ottica, posso dire con assoluta certezza che lei, la musica, nell’accezione più ampia possibile di cultura musicale e di spinta innovativa in forma di suono, in provincia non ci arriva. A meno che non si abbia una testa un po' strana e un sacco di tempo libero. Io, nato e cresciuto in una zona di mondo agiato, negli anni della mia adolescenza avevo entrambe queste caratteristiche, il che mi ha aperto a numerosi stimoli.

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Non so bene di chi sia la responsabilità maggiore, se di mio padre che mi accompagnava a scuola alle elementari con Paranoid, se di quei tre o quattro videoclip semiseri che RockTV trasmetteva dopo le undici di sera o semplicemente dell’isolamento forzato di una villetta a schiera sul limitare del bosco, ma nei primi anni zero anziché passare il pomeriggio in centro a fare le vasche stavo a casa a leggere i forum e spremere Winmx per scaricare gli mp3. Da lì, il passo successivo è stato chiedere a papà di portarmi alla fiera del disco o nell’allora unico negozio di dischi rimasto in città, e man mano che il tempo passava la mia curiosità cresceva.

Poi, un giorno, verso i quattordici anni, la mia strada incrociò quella degli Iron Maiden, e quel giorno capii che non solo mi piaceva la musica, ma che mi piaceva la musica più scomoda di tutte: il metal (possibilmente più veloce e peggio registrato possibile). Il giorno dopo capii anche che non piaceva a nessun altro a parte me.

elia alovisi michael stanne

Elia con Michael Stanne dei Dark Tranquillity

Questo non significa che fossi un adolescente con problemi, senza amici o disadattato, ho sempre avuto una compagnia, andavo alle feste e tutte quelle cose là, il punto è che non avevo uno straccio di nessuno con cui condividere una delle mie più grandi passioni, un interesse che da solo si mangiava quasi tutto il mio tempo libero e che influenzava un sacco di mie scelte e comportamenti. A casa la mensola dei dischi era diventata le mensole dei dischi e per tutta risposta il commento più gentile da parte dei miei amici era “che schifo la gente che urla”, mentre da estranei e conoscenti percepivo una malcelata diffidenza per un guardaroba che non prevedeva altro che magliette nere di gruppi improbabili infarcite di demoni, mostri e altre minchiate.

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Il momento più bello fu quando un ragazzo un paio d’anni più piccolo, nel giro della gente giusta, con le amicizie giuste, che giocava nella squadra di calcio giusta, nel corridoio del liceo mi diede dello “sporco senza dio” per una maglietta dei Dissection (e con tutta probabilità, ad oggi, non ha la minima idea di chi siano i Dissection). Come direbbe Terence Hill: “Sì, ma non sono sporco”.

Nell’Italia che fattura a nessuno gliene importava una mazza della musica, men che meno di un genere che per essere apprezzato richiedeva enormi quantità di disagio, curiosità e rigore nell’ascolto. Perché per affrontare un disco in cui per quaranta (o cinquanta, o sessanta) minuti le chitarre sono completamente distorte, la batteria viaggia con il doppio pedale sempre in movimento e il cantante urla fino a farsi collassare i polmoni, ci vuole un certo grado di pazienza. In questo mondo, quasi mai un ascolto si può ridurre ad un gesto passivo, e l’esperienza richiede un approccio attivo, propositivo. Pur non essendo io mai stato un musicista, leggere i testi e comprendere la struttura di un album, scoprire quali idee e quali messaggi l’artista ha voluto veicolare attraverso la propria opera sono attività fondamentali per poter apprezzare un album metal. Lo sono in generale per apprezzare a fondo qualunque album di qualunque stile musicale, ma in questo macrogenere c’è una difficoltà ulteriore, una barriera all’ingresso rappresentata da un sound spigoloso e massiccio che non vuole aprirsi e svelarsi all’ascoltatore casuale.

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Elia con due utenti del suo forum metal preferito

Eppure la cosa non mi disturbava, anzi, la mia curiosità veniva continuamente solleticata da nuove scoperte, e una volta superate queste mura sembrava che non ci fosse argomento che il metal non avesse toccato e sviscerato. Quando in terza superiore potei fare a meno di preparare l’interrogazione di inglese su Coleridge perché sapevo già a memoria la Ballata Del Vecchio Marinaio come insegnata da Powerslave e dal Live After Death mi dissi che valeva decisamente la pena continuare a destreggiarsi tra tutte quelle chitarre e imparare il più possibile. Fantasy, horror, mitologia, letteratura, demoni personali, un po’ di cara vecchia lotta politica progressista e chi più ne ha ne metta, i capelloni hanno parlato davvero di tutto, all’occasione pure dell’amore più assoluto e totale, e avere a che fare con così tanti argomenti così diversi tra loro negli anni dell’adolescenza mi ha aiutato moltissimo a formare un pensiero critico imparando a non dare mai niente per scontato, nemmeno una banale sigaretta.

Certo, non era facile trovare qualcuno con cui parlare dell’Edda poetica per avere delucidazioni sull’ultimo album degli Amorphis o della storia medievale del Sognefjord per commentare i Windir, ed è stato così che la mia conoscenza di Satana e dei suoi criniti adepti durante l’adolescenza si è sviluppata quasi totalmente online, tra le quattro mura della mia stanza. Sui forum che prima dei social network la facevano da padroni si andavano creando piccole, microscopiche community di pischelli che cercavano di dedicarsi a questa passione condivisa. Era tutto diverso, all’epoca: lo scambio di opinioni era frammentato nel tempo perché non esisteva la messaggistica istantanea, la mole di informazioni disponibile online era molto più ristretta perché i pochi database già esistenti erano scarsamente popolati. Soprattutto, gli utenti più giovani guardavano a quelli più stagionati con enorme riverenza, in ragione del fatto che chi parlava di qualcosa lo faceva avendone avuto esperienza diretta. Non esisteva YouTube, non esistevano i live stream, se qualcuno raccontava degli In Flames a Wacken significava che aveva visto gli In Flames a Wacken, e per me quindicenne che impazziva per Colony quei post valevano oro.

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Fu in quegli anni che germogliarono più o meno tutte le webzine metal italiane che hanno davvero detto qualcosa (nel bene, ma anche e più spesso nel male), da Metalitalia e Metallized a nomi più di nicchia estinti da anni come Élskrin e Iced Tears. C’era ancora qualcosa di cartaceo, Metal Hammer e Rock Hard (e lo spin-off Grind Zone), ma sulle loro pagine erano più i refusi che i congiuntivi azzeccati, e l’underground più nascosto raramente arrivava se non per sommi capi. La difficoltà maggiore in Italia è sempre stata quella di trovare delle fonti affidabili, poiché stante la carenza di punti di riferimento di qualsiasi tipo, che si tratti di festival, riviste specializzate o band di punta, la conoscenza della materia è sempre piuttosto scarsa anche da parte di chi si spaccia per profondo conoscitore del genere. In altre parole capitava spesso, e purtroppo capita ancora oggi, di leggere recensioni affrettate e poco approfondite o parlare con sedicenti appassionati che hanno una conoscenza assolutamente superficiale di, beh, tutto. Come quella volta che un tizio su un forum mi disse: “Hai fatto bene a comprare The New Order dei Testament, “The Preacher” è un brano fondamentale”. Mi fiondai ad ascoltarla e a leggerne il testo e gli chiesi per quale motivo fosse nominato il 1906 nel testo. “Boh, però è un pezzo figo, no?”, mi rispose. E fu così che, piuttosto insoddisfatto della spiegazione, scoprii la storia del terremoto di San Francisco. In un contesto come questo insomma, l’unico modo che avevo per farmi un po’ di bagaglio era passare ore ed ore con le cuffie in testa ad ascoltare, annotando nomi, anni e titoli, per poi discutere sui forum sperando di incrociare qualcuno che ci capisse davvero qualcosa e, a quel punto, allocare le mie paghette sulle prime distro online più o meno rispettabili o dal sempreverde Sound Cave, le rare volte prendevo il treno apposta fino a Milano.

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Elia e Jon Oliva dei Savatage

La lontananza da tutto della provincia ha delle evidenti conseguenze anche sul piano dell’offerta concertistica, e per i primi anni la mia sete musicale è venne soddisfatta soltanto ascoltando, mai partecipando. Andare a un concerto significava guidare almeno un’ora per raggiungere Milano, un’opzione che a sedici o diciassette anni non potevo prendere in considerazione. Nessun amico un po’ più grande e già patentato, nell’intero circondario della mia zona, sembrava essere interessato ad un concerto metal; sì, magari qualcuno poteva essere interessato agli Iron Maiden o ai Motorhead, ma quando si iniziava a parlare di Behemoth e Cannibal Corpse l’unica possibilità era prendere qualche buon voto a scuola per poi poter chiedere un premio e costringere mio padre in un locale per qualche ora davanti a dei bestemmiatori seriali. Anche per questo, appena ho potuto, mi sono trasferito in città e ancora oggi riesco a tollerare lo smog e i compromessi che Milano impone: ora posso incrociare i Dark Tranquillity sul palco una volta l’anno ed è molto più facile incontrare persone con cui condividere questa enorme croce che è il metal.

Eppure nemmeno trasferirmi nella grande città è stato sufficiente, e qui si apre il grande paradosso: negli ultimi anni tantissimi locali storici della città hanno chiuso i battenti (Rainbow, Rolling Stone, Transylvania) o si sono allontanati quasi completamente dal metal (i Magazzini Generali e persino l’Alcatraz), e oggi per vedere band fuori dai grandi circuiti, che richiedono locali medi o medio-piccoli, bisogna andare a perdersi tra i capannoni di Paderno Dugnano, Retorbido o San Donà di Piave, dove l’affluenza è inevitabilmente scarsissima. Questo è il grande cruccio dei metallari italiani, e mio in particolare: essere circondati da potenziali eventi interessanti, ma non poterli raggiungere. I motivi di questa situazione tragicomica sono molti e di natura estremamente complessa, e ormai talmente tanto avviluppati l’uno sull’altro da rendere impossibile sbrogliare la matassa.

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Alla base c’è la solita bestia nera, la crisi, che ha portato da un lato all’innalzamento fisiologico dei prezzi dei biglietti e dall’altro all’impossibilità per noi spettatori di permetterci 20, 30 o a volte anche 40 euro per poter entrare in un locale (perché il metallaro è sì medioborghese, ma quasi mai ricco), e questa condizione ha finito con lo scatenare un effetto domino infinito: i locali sempre più vuoti hanno iniziato a non ospitare più eventi cui da sempre in Italia sono interessate poche persone, per cui i promoter hanno finito con l’allontanarsi sempre di più dai centri serviti per risparmiare sull’affitto della location, tagliando le gambe a chi abita in città come Milano, Torino o Bologna, dove la gente si sposta prevalentemente coi mezzi pubblici e spesso non ha possibilità di muoversi in auto la sera.

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Elia con Flegias dei Necrodeath

È un ragionamento comprensibile sul breve (e so che quando gli organizzatori di tutti i concerti cui vado leggeranno queste righe mi odieranno profondamente), ma suicida sul lungo periodo: come puoi pensare di riempire un evento il mercoledì sera a Retorbido (PV), Taneto di Gattatico (RE), Modugno (BA) o Savigliano (CN)? Quale più quale meno, si tratta di paesini lontani da qualsiasi centro oppure vicini a una città, ma scollegati. E sempre più concerti sono in perdita, con gruppi risentiti o sconsolati che dicono che l’Italia non potrà mai essere una priorità per loro perché le date finiscono sempre in rosso, come mi dissero i Sólstafir ormai qualche anno fa. E loro si erano appena esibiti nell’estrema periferia di Milano, al Lo-Fi (che non esiste più). Ecco, da allora la situazione non è che peggiorata, e oggi un locale da trecento persone a Milano non esiste più.

L’aspetto più scoraggiante è che negli anni, per un motivo o per l’altro, nessun locale lontano da una grande città è riuscito a resistere, che si trattasse del Rock’n’Roll di Romagnano Sesia (NO), il Covo Antico di Lonato del Garda (BS) o del Colony in zona industriale a Brescia est, nonostante i chilometri che io e qualche altro disperato abbiamo macinato per raggiungere questa infinita serie di capannoni riadattati a locali. I tentativi di supportare l’organizzazione di eventi underground spesso si sono risolti in enormi delusioni e incazzature, come quella volta che ai Solefald fu impedito di suonare mezz’ora prima dell’orario prestabilito e ci ritrovammo in cinquanta persone in un parcheggio ad ascoltare le storie di Cornelius e Lazare, o quando il mini-festival funeral doom organizzato per il primo concerto italiano in assoluto degli Ahab finì alle quattro del mattino perché una band non si presentò e il concerto slittò di ore per aspettarla. Eppure il self-made metallaro di turno continua a tentare, ad aprire il suo locale, e bettole di infimo ordine continuano a spuntare. Una chiude e tempo qualche mese ne apre un’altra, ancora più isolata, ancora più arrabattata, ancora più destinata al fallimento.

Si arriva così alla stramba situazione odierna, con il paesino di provincia dove mediamente risiedono tre metallari ospita concerti a tutt’andare, e una città con quasi un milione di abitanti come Torino non ha un locale dove far suonare un gruppo internazionale che, su una popolazione del genere, qualche centinaio di spettatori riuscirebbe a portarlo. Ed è così che prosegue la triste storia dei metallari di provincia, che neppure una volta urbanizzati riescono a godersi un concerto senza pensieri.

Andrea è uno dei Lord di Aristocrazia Webzine. Seguilo su Instagram.

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