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Il caso Ronaldo è una combinazione infame di tifo e cultura dello stupro

Tra la timidezza dei media italiani e la difesa a spada tratta di Cristiano Ronaldo nel mondo del calcio, è la solita storia. Anzi, peggio.
Foto di soccer.ru via Wikimedia Commons.

"Esplosione in sordina" è un ossimoro talmente forte da sfiorare il controsenso. Eppure è quello che mi viene in mente per descrivere le reazioni alle accuse di stupro a Cristiano Ronaldo, riemerse proprio in questi giorni di anniversario dell’inizio del movimento #MeToo. Sulla carta la donna che lo ha accusato per prima, Kathryn Mayorga, è stata una vittima “modello”, nel senso che in quella sorta di corsa a ostacoli che è il cercare giustizia per una violenza sessuale ha fatto tutto quello che doveva fare per evitare di vedersi addossata parte della responsabilità: non era ubriaca, ha negato chiaramente e ripetutamente il suo consenso, è andata alla polizia subito dopo il fatto, e ha un referto medico. Senza contare che Spiegel (che aveva già menzionato il caso nell’aprile del 2017) ha avuto modo di visionare documenti e scambi di e-mail in cui il calciatore ammetteva la non consensualità del rapporto. E che mentre la polizia di Las Vegas ha dichiarato che interrogherà il giocatore, altre tre donne si sono fatte avanti.

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In teoria dovrebbe essere un caso che soddisfa anche i paladini dei piedi di piombo a oltranza, e visto il nome dell’interessato ci si sarebbe potuta aspettare, appunto, un’esplosione di interesse. E invece.

Invece, chi avesse accesso solo ai media italiani sarebbe giustificato nel pensare che le accuse si riferiscano a doping, guida in stato di ebbrezza, o evasione fiscale, perché la maggior parte dei titoli menziona solo un nebuloso “caso” senza troppi dettagli. Quando se ne parla, si calca la mano soprattutto sul fatto che la ex modella ha accettato dai legali del calciatore circa 260mila euro in cambio di un silenzio durato nove anni—accordo di cui la donna dichiara di pentirsi già in una lettera indirizzata a Ronaldo contestuale alla firma. A questa timidezza dei media fa da contraltare la reazione decisa del mondo del calcio, con un club che lo sostiene senza se e senza ma, e soprattutto senza decenza.

A rischio di sembrare cinica, posso dire che la cosa non mi stupisce per niente? Questo è un esempio da manuale di come funziona la cultura dello stupro, ed è sconfortante ma non sorprendente avere conferma di quello che le femministe denunciano da sempre: tutti quelli che si preoccupano di sapere se la vittima avesse bevuto, perché sia o non sia andata alla polizia, se si sia fatta esaminare da un medico… non lo fanno per genuino amor di verità o garantismo, ma per un automatico riflesso di biasimo; non si spiega altrimenti perché stavolta, invece di “La ricostruzione dei fatti è solida," come avrebbe dovuto essere a rigor di logica, la reazione sia stata un’alzata di spalle collettiva.

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Nel caso di Cristiano Ronaldo, tuttavia, credo che ci sia da considerare anche il fatto che stiamo parlando di uno degli atleti più noti e idolatrati di sempre, per giunta da quest’anno sbarcato in Italia. La reazione di difesa non può che risultarne amplificata.

Ho già avuto occasione di parlare del meccanismo in base a cui, da “consumatori” di cultura popolare, ci troviamo a investire emotivamente nei suoi personaggi. Da un lato, ovviamente, il prodotto stesso (film, canzone, libro…) ha una forte componente emotiva; dall’altro il mercato ha tutti gli incentivi a incoraggiare questo coinvolgimento come potente mezzo di fidelizzazione del cliente. Il problema è che, esattamente come l’amore, anche una passione di questo tipo può accecare; ed è per questo che ogni nuovo caso di molestie o violenza con protagonisti attori o cantanti di spicco è stato accolto con levate di scudi dai loro fan.

Quando si parla di sport questa reazione può essere ulteriormente esacerbata perché all’investimento emotivo si somma un altro meccanismo psicologico del tutto normale, la tendenza a ricercare un senso di appartenenza a un gruppo (esiste addirittura un’ipotesi, detta del cervello sociale, che spiega le dimensioni cerebrali della specie umana con la necessità di avere abbastanza “brain power” per gestire le nostre complesse interazioni sociali). Il rovescio della medaglia è che spesso il senso di appartenenza al gruppo si basa sul rimarcare le differenze tra chi ne fa parte e chi ne è escluso, in toni talvolta antagonistici che possono degenerare: ed è intuitivamente più probabile che questo accada con lo sport, che ha nella competizione la sua ragion d’essere, piuttosto che con un club dell’uncinetto—come dimostrano in effetti i casi di cronaca con protagoniste le tifoserie calcistiche di mezzo mondo.

Spesso questi gruppi sono in stragrande maggioranza “per soli uomini”, con le donne viste come intruse o al massimo decorazioni (si veda alla voce ombrelline della MotoGP). E torniamo così al punto di partenza: in questo senso il caso Cristiano Ronaldo è una “tempesta perfetta” in cui l’idea della donna-oggetto e la cultura dello stupro trovano una cassa di risonanza nel lato peggiore del tifo.

Chissà se riusciremo a domare la tendenza a reagire d’istinto quando scopriamo che uno dei nostri beniamini non è perfetto, e a capire che la fedeltà a una squadra non si estende a tutto quello che succede fuori dal campo. Possiamo solo sperare, tra qualche anno, di non guardare a questa storia come a un’occasione persa, ma come una lezione imparata.

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