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LGBT+

Cosa ho imparato sulle unioni civili dopo essermi 'sposata' con la mia ragazza

Un anno dopo l'approvazione delle unioni civili in Italia, e dopo 10 di relazione, ho fatto il grande passo.

Quando ho scoperto della triste boutade di Repubblica—poi parzialmente ritrattata—sul "flop delle unioni civili" era esattamente il giorno dopo la festa della mia unione civile. Con quella che era la mia ragazza e che ora è mia moglie stiamo insieme da dieci anni. Abbiamo iniziato che ancora si litigava in parlamento per i Dico (con esisti tristi e dolorosi facili da ricordare), abbiamo visto passare qualche altra proposta raffazzonata a base di raccomandate, diverse obiezioni parlamentari del tutto opinabili e poi l'anno scorso accolto con un tiepido entusiasmo il concretizzarsi della legge Cirinnà.

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Legge che in un anno ha portato a concretizzarsi 2.802 unioni civili, probabilmente qualche separazione, sicuramente un sacco di "e ora quando ti sposi" proferiti da genitori ansiosi e almeno un articolo dedicato al fatto che 2.802 unioni civili dopo che i gay hanno strepitato così tanto e per così tanti anni sono decisamente poche. Piazze piene, comuni vuoti, e una breve classifica dell'infamia dove Milano brilla con le sue 354 unioni civili mentre a quanto pare i gay calabresi non sono stati "abbastanza grati," unendosi civilmente in sole sei distinte occasioni.

Perché anche se "le istanze del movimento gay" molto spesso hanno finito per condensarsi e schiacciarsi attorno alla questione matrimoni e nonostante certe pubblicità potrebbero farvi pensare che l'unica cosa a cui davvero davvero teniamo è trovare un buon partito, la questione dei diritti LGBTQ è un filo più ampia.*

Il primo paese ad avere una legge che tutelasse le unioni fra persone dello stesso sesso è stata la Danimarca nel 1989. In Italia ci siamo arrivati 27 anni dopo (mentre il resto del mondo ci doppiava approvando il matrimonio egualitario e superava a destra di prepotenza con le adozioni) accumulando lungo la strada così tanti momenti avvilenti, fatica, manifestazioni e proteste da generare la patetica illusione che forse almeno una cosa la si fosse portata a casa e che potesse essere chiaro per tutti che "i gay si possono unire civilmente ma non è detto che lo debbano fare per forza."

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La mia salute precaria e il fatto che la burocrazia ti è incredibilmente ostile quando sei solo "una tizia che abita con un'altra tizia e non siete parenti"—oltre a dieci anni di relazione molto felice, ovviamente—sono state fra le tante ragioni pratiche che ci hanno portate a decidere di comune accordo che forse unirci civilmente non era poi una cattiva idea.

Questo, e il miraggio delle lunghe vacanze concesse dal congedo matrimoniale.

Le spose durante la festa per il loro matrimonio.

Per arrivare davanti a un funzionario comunale che in dieci minuti suggella il vostro rapporto senza recitare il finale di Comizi d'amore come pensavi sarebbe successo, c'è un percorso ricco di persone che, pur non avendovi mai viste prima, si sperticheranno in gentilezze per il semplice fatto che vi state unendo civilmente, sbaragliando qualsiasi pregiudizio avevate in precedenza sulla gente—ecco io lo so che prima o poi un omofobo lo becchiamo.

Quest'ultima è una preoccupazione che si presenta ciclicamente quando hai a che fare con degli sconosciuti con cui sei costretto a interagire. Nuovo lavoro: quanto devo aspettare prima di dire che sono gay? Cercare casa: quali scuse potrebbero accampare i proprietari? E i coinquilini? Comprare una macchina: ci chiederanno per l'ennesima volta se siamo sorelle e poi si stupiranno quando non abbiamo lo stesso cognome ma abitiamo assieme? Se questa è la norma, cosa può succedere per una unione civile?

E invece no. Con la magica etichetta di "sposa" a ricopriti da capo a piedi puoi navigare nel mondo avvolta da un potere probabilmente secondo solo a quello delle donne incinte, un mondo ovattato e transitorio dove ogni "passo" del "percorso" che stai compiendo è circondato da benevolenza e genuino interesse, duplicato dal fatto che "le spose" sono due e che "le spose" hanno deciso di non costringere gli amici a tavola per ore.

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Se qualcuno fra pasticcere, locale affittato per la festa, tassisti e ristorante guardandoci ha pensato che gli facevamo schifo e che avremmo dovuto bruciare all'inferno, è stato abbastanza carino da non dirci niente—e non credo proprio fosse per i soldi, perché nonostante la mia genuina passione per Il boss delle cerimonie è stato un matrimonio molto contenuto.

Persino la stessa burocrazia che rende impossibile liberarsi dello spettro canone Rai, in quei mesi di preparazione, è sparita: con un'efficienza quasi commovente il tragitto che va da "potremmo unirci civilmente" a "bene, uscite dal comune" richiede solo una telefonata, una veloce visita in un ufficio comunale opportunamente bardato, due testimoni e la scelta o meno di condividere averi e possibili debiti.

Oggi, come da più di dieci anni a questa parte, da molto tempo prima di poter essere la moglie di qualcuno, scenderemo in piazza, nonostante il caldo nonostante l'afa e la musica opinabile, per rivendicare quell'enorme parte di diritti che ancora non si è consolidata e anche per tutti gli articoli di Repubblica che ci aspettano in futuro.

*Non essere pestati, ad esempio, potrebbe essere carino. O discriminati, o licenziati, o riconvertiti in eterosessuali, per non parlare del lungo capitolo mai abbastanza discusso che riguarda le persone transgender in Italia—e nel mondo.

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Foto di Francesca Iovene