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La vecchia trattoria che resiste agli snob e alla Milano del Bosco Verticale

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“El riss el nass in l’acqua e el moeur in del vin”

L’antico proverbio lombardo, “il riso nasce nell’acqua e muore nel vino”, verniciato sulla serranda al 20 di via della Castillia sembra l’ultimo segno identitario di una Milano che sta scomparendo. Quella delle Varesine e delle case di ringhiera, per intenderci. Oggi, fra migliaia di specie vegetali arrampicate su un Bosco a trenta piani, nel gioiello architettonico di Stefano Boeri, una biblioteca botanica e una piazza palcoscenico di spettacoli d’acqua, luci e suoni, sorge l’area più futurista, gentrificata e un po’ troppo qatariota della città.

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Sono a Porta Nuova, ma potrei trovarmi benissimo a Singapore o Dubai.

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Bosco Verticale. Tutte le foto di Camilla Dalla Bona per Munchies
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Torre Unicredit.

E così, in questa sorta di paradiso residenziale, quella serranda risulta quasi paradossale. Eppure, l’originaria Cascina Colombina, dal 1881, è il filo rosso che collega il Risorgimento alla contemporaneità milanese. Nel 1961, diventa Da Tomaso, una trattoria popolare a conduzione familiare, capace di resistere a speculazioni immobiliari e a qualsiasi progetto di riqualificazione urbana, immutando il proprio credo e la propria estetica: “cibo fresco e ricette semplici”, mi spiega Andrea, nipote di Tomaso, cresciuto ai fornelli della trattoria. Insieme al signor Paolo e alla signora Licia, suoi genitori e colonne portanti del locale, si divide fra spesa, cucina, sala e cassa. Insomma, c’è da lavorare.

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Per capire il reale significato della parola trattoria, bisogna farsi un giro da queste parti, dove non esiste un sito web o un’infinita lista d’attesa per le prenotazioni, dove il menu cambia quotidianamente, dettato dalla disponibilità del mercato, e dove la social table, in condivisione, è una moda da quasi sessant’anni.

L’unico sfizio online di Andrea sono le repliche alle recensioni negative su TripAdvisor, perché “sì, sinceramente le sparate a zero mi danno fastidio, soprattutto perché la maggior parte della gente capisce poco di cibo, oltre a non cogliere il lavoro che c’è dietro. Il confronto con i clienti rende l’impegno ancora più stressante. Tipo, quelli che ti chiedono il caffè al tavolo: non vedi che sto facendo avanti e indietro fra sala e cucina per servirti. Puoi alzarti e andare al bancone a prenderlo. Lo bevi prima, lo bevi più caldo”.

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Ammetto che la prima volta Da Tomaso mi sono presentato con qualche pregiudizio di troppo, dovuto al rapporto qualità prezzo; un primo e un secondo a scelta dall’offerta giornaliera del pranzo costano 12 euro. Oggettivamente poco, per far collimare ingredienti freschi e di qualità (non di pregio, attenzione) con una valida competenza tecnica. Non penso che sia così scontato. E, invece, uno spiazzante risotto con fagioli, cotiche di maiale e vino rosso, riedizione della panissa vercellese senza la pasta di salame, spazza via la mia patina di sano snobismo culinario e tanti sottovuoti stellati. Punto di cottura del riso, salatura, mantecatura, tutto molto buono. Davvero.

“Noi siamo un’istituzione e la nostra forza è proprio il fatto di non esser mai cambiati. Per noi i clienti sono tutti uguali: chi prima arriva meglio alloggia, perché a mezzogiorno e mezzo c’è già la fila fuori. Gli unici a cui eviterei di dare da mangiare sono i cagasotto e quelli con la puzza sotto il naso”

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Gli interni di Da Tomaso.

Quando sono tornato, per farmi raccontare qualcosa in più sulla storia e la vita della trattoria, l’accoglienza è stata più o meno questa: “chi è il ragazzo?” chiede il signor Paolo, “eh papà, deve farmi un’intervista” gli fa Andrea, “eh falla a me l’intervista” mi dice Paolo, sessant’anni di lavoro in trattoria, da quando non era neanche maggiorenne. “Cosa vuoi sapere? Lo sai che su questo posto hanno già scritto due libri e fatto tre filmati. Sei in ritardo di vent’anni”. Partiamo bene.

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Poi prosegue: “Noi siamo un’istituzione e la nostra forza è proprio il fatto di non esser mai cambiati. Per noi i clienti sono tutti uguali: a mezzogiorno ci si siede e si mangia, chi prima arriva meglio alloggia, perché a mezzogiorno e mezzo c’è già la fila fuori. Serviamo alla stessa maniera il sottosegretario all’Economia e Finanza, che spesso viene qui a mangiare, che gli operai. Se devo mandare a quel paese qualcuno, lo mando a prescindere dal fatto che sia un senatore o un morto di fame. Gli unici a cui eviterei di dare da mangiare sono i cagasotto e quelli con la puzza sotto il naso”. L’arte della diplomazia, in pratica. Quando cita quelli con la puzza sotto il naso mi sento stranamente chiamato in causa, ma non ho capito chi sono i cagasotto. “Quelli che vanno in televisione o sui giornali a rovinare la cucina italiana. Ogni giorno ne inventano una nuova, come il dolce insieme al salato, tutte sfiziosità che non rappresentano la nostra cucina”.

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Andrea

Andrea corre in mio soccorso, mentre sto cercando di abbattere la Grande Muraglia che mi separa dal signor Paolo, “Vieni che ti spiego nel dettaglio. Vedi questa spesa: mi sono alzato presto stamattina per farmela personalmente e alle 9.30 ero già in cucina”, mi racconta mentre sforna una torta salata con salmone e porro, “ogni giorno cucino fino a esaurimento scorte, poi appendiamo fuori un cartello con la scritta ‘cibo finito’ e basta. Io non ho la roba pronta in frigo. Devo preparare e cucinare ogni giorno, tutto da capo. Questo significa trattoria”.

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Scopro, con grande sorpresa, che alla sera il locale è chiuso “perché di qua a una certa ora non passa più nessuno. Apriamo solo per eventi privati, cene organizzate e feste familiari. Non possiamo permetterci di cucinare per due/quattro persone, non siamo un ristorante che sottovuota l’ossobuco precotto e lo tira fuori al momento del servizio. Non ti racconto bugie, perché da certe realtà ci sono passato anch’io ed è necessario lavorare così, perché da nessuna parte si rischia di cucinare qualcosa che non verrà servito”.

“Ogni giorno cucino fino a esaurimento scorte, poi appendiamo fuori un cartello con la scritta ‘cibo finito’ e basta. Io non ho la roba pronta in frigo. Devo preparare e cucinare ogni giorno, tutto da capo. Questo significa trattoria”

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Inizio ad avere una certa fame, cosa si mangia oggi Andrea?
“Oggi dal macellaio ho trovato un bel fegato di vitello, l’ho preso al volo e lo faccio al burro e salvia. Valuto se ci sono delle offerte convenienti, cerco i tagli di carne meno nobili, ma che magari hanno più sapore. Il menu cambia ogni giorno – lo stampa davanti a me mezz’ora prima del servizio – in base a quello che propone il mercato e alla mia ispirazione. Preparo due primi, qualche secondo, quasi tutti a base di carne, e verdure come contorno, patate bollite, radici amare, fagioli con la cipolla”. Il fegato si prende il titolo di piatto del giorno, si scioglie in bocca e supera anche l’esigente esame Camilla, ma anche la faraona arrosto si difende bene.

Oggi si sono tutti imborghesiti, magari solo perché seguono Masterchef e si sentono in diritto di giudicare.

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La cacio e pepe e lo spaghetto al pomodoro sono meno memorabili rispetto al risotto provato la prima volta, anche se comunque la versione cremosa della cacio e pepe è corretta a livello tecnico, perché il pecorino non è stracciato e la salsa non è grumosa.

Ma perché una cacio e pepe in una tipica trattoria milanese?
“Beh, perché comunque la cacio e pepe è un piatto da trattoria, semplice, proprio come la pasta al pomodoro o al ragù. So che non c’entra niente con Milano, ma mi stancherei a cucinare sempre gli stessi piatti, anche perché ho clienti che vengono tutti i giorni da vent’anni. Per esempio, oggi ho un’insalata di crauti e mele, ho visto la ricetta, mi è piaciuta e l’ho voluta preparare. Per le cene su prenotazione, cerco di proporre la tradizione milanese, il più fedele possibile”. Mi apre un’edizione dell’Artusi, ricetta numero 300, quella del manzo alla California, “lo preparo sempre in questa maniera, è fantastico”.

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A proposito di clienti storici, alle undici e mezza arriva Sergio, abbastanza in anticipo, sempre presente a pranzo da circa quarant’anni! Ma non si è stufato? “No, assolutamente. Ogni giorno mangio cose buone e diverse, il loro segreto sta nel fatto di non esser cambiati nonostante tutte le mode”. La ricompensa di tanti anni di sacrifici è proprio questa, una clientela contenta e fidelizzata, “Sì, ma è cambiata per gusto e abitudini. Oggi si sono tutti imborghesiti, magari solo perché seguono Masterchef e si sentono in diritto di giudicare. Ma dovresti starci tu in cucina: far da mangiare è fatica. E ci vuole cultura. A me capita di uscire a servire i clienti, mentre faccio da mangiare. Poi si lamentano perché non sorrido”.

“Io credo ci abbiano voluto preservare, altrimenti non ci avrebbero messo molto a comprarci e fare tabula rasa.”

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Il vecchio stampo della resistenza gastronomica Da Tomaso sembra immune al trascorrere del tempo e al contesto ultramoderno che la circonda, ma Andrea mi ricorda che “In realtà, io credo ci abbiano voluto preservare, altrimenti non ci avrebbero messo molto a comprarci e fare tabula rasa. Ma una gestione imprenditoriale lascerebbe la trattoria dopo tre, quattro anni, perché non ci guadagna, mentre per noi è come una seconda casa, viviamo qua dentro, portiamo via il cibo che avanza”.

Qua vicino c’è un’altra trattoria storica, peccato che solo il risotto con l’ossobuco ti costi 33 euro, mentre trattoria è anche e soprattutto cibo per poveri, è la ristorazione veloce per chi deve andare a lavorare

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E torniamo all’inizio, a uno dei pochi segni identitari di una città che “Qua fuori ha tre Poke House, la trattoria pugliese, il sushi di lusso, il raviolificio cinese, il Ramen, ottomila pizzerie, ma nessuno ha un’identità vera e propria. Come i ristoranti travestiti da trattoria. Per esempio, qua vicino c’è un’altra trattoria storica, peccato che solo il risotto con l’ossobuco ti costi 33 euro, mentre trattoria è anche e soprattutto cibo per poveri, è la ristorazione veloce per chi deve andare a lavorare, ma purtroppo oggi Milano è cosmopolita e la gente vuole mangiare il Kobe”.

Come me, ma anche se domani tornerò a pasteggiare con caviale e Champagne (nei miei sogni), oggi penso che è per merito di posti come Da Tomaso che Milano dovrebbe sentirsi la città più gastronomicamente avanzata d’Italia.

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