Música

Sono stata al Sónar di Barcellona con Dardust

Dardust

Il Sónar Festival è un famosissimo festival di elettronica e rap a Barcellona, oltre che un evento bellissimo che ho gestito malissimo. Dario Faini, in arte Dardust, è uno dei produttori e autori italiani più importanti degli ultimi anni, e lo è diventato ancora di più dopo la vittoria di Sanremo per “Soldi” con Mahmood e Charlie Charles. Sono di fatto sue, tra le innumerevoli, “Calipso” sempre con Charlie, “Riccione” dei Thegiornalisti, “Pamplona” di Fibra, “Visti Dall’Alto” di Rkomi, “Se piovesse il tuo nome” di Elisa, “Nero Bali” di Michele Bravi, Elodie e Guè, “Pezzo di me” di Levante e “Partiti adesso” di Giusy Ferreri, i cui video ufficiali hanno fatto tutti insieme poco più di 400 milioni di views su YouTube.

Prima che i suoi follower su Instagram schizzassero al cielo, però, la vita e la musica di Dario si sono sviluppate attorno al pianoforte e alla musica elettronica. Quindi passare del tempo con lui a un festival che fa proprio di queste cose—e del rap—la sua linfa vitale mi è sembrata un’ottima idea. Io non ci ero mai stata e, senza bisogno di app che ti rubano i dati, al suo ultimo giorno mi ha mostrato come sarò tra dieci anni. Tutto quello che è successo prima del mio micro esaurimento nervoso è stato, invece, incredibile: ogni scenario di bordello e fattanza che mi ero prefigurata è stato polverizzato già durante la giornata di venerdì. Ma come, niente file interminabili per una birra? Tredicimila food truck di cibo di qualunque tipo, che l’anno scorso a un noto festival italiano per mangiare veg sono andata di patatine fritte o panini con solo lattuga per tre giorni? Il bicchiere di plastica, ma con cauzione di due euro, così o te lo porti a casa come gadget o lo restituisci e ti riprendi i soldi? Il braccialetto cashless ricaricabile e rimborsabile? Che matti, questi spagnoli.

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Il venerdì è iniziato nel modo migliore possibile, con Lorenzo Senni e il suo nuovo progetto Stargate sul palco Red Bull, proseguito benissimo con Stormzy in sostituzione del povero A$AP Rocky bloccato in Svezia e concluso in maniera commovente dagli Underworld, ultrasessantenni che sono ancora più in forma di me e che quando suonano “Born Slippy” se non ci lasci la lacrimuccia sei amico delle guardie svedesi.

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Lorenzo Senni

Con Dardust abbiamo passato una vagonata di ore durante le quali, ovviamente, l’ho asciugato di domande, interrompendolo mentre consultava con la concentrazione di un monaco zen la app del Sónar. E se c’è qualcuno che le ha reso onore quello è Dardust, che per ogni artista che si stava esibendo andava a leggere bio, discografia, collaborazioni, tutto. Il primo impatto di Dario con la parte pomeridiana del festival, il De Dia, è stato più che felice, con qualche precisazione: “Mi piacciono i diversi ambienti che ti immergono in mondi lontani a seconda che siano al chiuso o all’aperto, ma io sono sempre alla ricerca delle cose più sperimentali, quelle catturano senza dubbio il mio interesse. Credo che la cosa migliore del partecipare a un festival sia poter assorbire vari colori, capire qual è la scena contemporanea, in che direzione sta andando, che cosa le sta accadendo: questo è l’aspetto più figo”.

Ovviamente è uno che studia, mentre guarda e ascolta: “Vado a vedere prima tutte le particolarità dell’artista, il suo background, il suo percorso. Mi piace capire il concept di ogni artista. Quando, invece, capto solo l’atmosfera, mi appassiono un po’ meno”.

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Dardust e l’autrice

Come dicevamo prima Dardust è famoso come produttore di hit che spaziano tra pop e rap, ma dietro il suo talento c’è un appassionato studioso anche della musica più difficile e underground. “Ho studiato al Gaspare Spontini di Ascoli Piceno. Sono partito dagli studi classici, ero bravo a suonare il pianoforte, poi a una certa ho fatto arrabbiare di brutto la mia insegnante e verso i 16 anni mi sono stra-appassionato all’elettronica. Sono partito dai Kraftwerk e da tutta la scena berlinese, con varie incursioni a Berlino per vivere in prima persona il clubbing che brillava là. Poi l’innamoramento da Berlino si è spostato in Islanda, con i vari Ólafur Arnalds, Sigur Rós, Björk eccetera. Tutte le diverse fasi della mia formazione musicale le ho poi riversate in Dardust”.

Ci muoviamo verso il palco Red Bull per assistere alla performance di Yakamoto Kotzuga, che amiamo tutti molto, e nel tragitto gli domando se pensa che l’essere nato in provincia sia stato uno stimolo in più o una difficoltà in partenza: “La provincia è un’arma a doppio taglio: se sei ambizioso e vuoi realizzare grandi cose alimenta la frustrazione, perché non hai a portata di mano quello che ti serve. Però allo stesso tempo può pure alimentare la fame: per emergere devi volerlo con tutto te stesso, sennò la provincia ti tarpa le ali”. Da provinciale, il discorso mi interessa, quindi non lo mollo e gli chiedo che cosa c’è stato dopo Ascoli. “Roma. In pochi lo sanno, ma io mi sono anche laureato in Psicologia, cosa che mi è servita tanto nel mio lavoro, soprattutto a livello di scrittura e percezione musicale. La psicologia mi aiuta a creare il mio mondo musicale e a immaginare l’effetto su chi mi percepisce da fuori, infatti la mia tesi era ‘La psicologia dell’ascolto musicale’”.

Mi viene da pensare che i suoi studi gli siano serviti anche per gestire la miriade di persone con cui collabora: “Anche, sì. Credo di avere una buona capacità di entrare in empatia con gli artisti e con i loro ego. Perché l’ego è la parte più difficile da maneggiare e per farlo bisogna essere, senza sbruffoneria, come me: low profile, essere disposti a lasciarsi contaminare e cercare di contaminare con delicatezza l’altra persona. Se lavori con umiltà e con competenza, alla fine conquisti la fiducia anche dei più egocentrici. E comunque io sento, in totale sincerità, di aver imparato a mia volta qualcosa da ognuno, specialmente dai più giovani, che magari hanno meno conoscenza, ma anche più purezza”.

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Yakamoto Kotzuga

A questo punto ci siamo immersi nella bolla onirica e ipnotica di Yakamoto e, dopo qualche minuto necessario per riprenderci da uno show che sa sospendere il tempo e lo spazio, torniamo a parlare, e ripartiamo proprio dai giovani con cui Dardust, da Mahmood a Sfera, sta felicemente collaborando. Lui si sente “un anello di congiunzione tra la generazione under-25 e quella under-35, e la cosa mi rende orgoglioso, ma non c’è solo quella componente. C’è anche il fatto che la mia ossessione è quella di invecchiare sul fronte della musica, quindi cerco sempre, come il mio mito David Bowie, di collegarmi alle nuove ondate, a ciò che di fresco spunta sulla scena. Lo trovo indispensabile per una longevità artistica. Per esempio io trovo che trap e l’urban siano stati i movimenti più rivoluzionari degli ultimi cinque anni, quelli che hanno cambiato il volto del mainstream, e anche della scena indie. Io ho grande rispetto per questi generi e per chi li ha fatti crescere, non capisco la spocchia di chi li liquida come fossero spazzatura”.

A questo punto ci separiamo: Dario e il suo manager Paolo in direzione Actress, io dalla mia amata BadGyal, che però mi spezzerà il cuore con un live molto ballato (da dio, ovviamente), poco cantato e con qualche sospetto di playback. Ricongiunta con Dardust, decido di alzare il livello di difficoltà e, sulla scia della recente polemica Salmo vs FSK Satellite, se secondo lui esistono dei limiti di natura “etica” all’espressione artistica. Di getto mi risponde che “no, non esiste un limite, anche perché nella storia della musica ci sono sempre stati riferimenti alle droghe e all’eccesso”. Eppure, riflette, “forse è necessario un ragionamento più profondo, perché se il messaggio di un artista che ha potere sul proprio pubblico può creare un danno alla psicologia di un quattordicenne, ovvio che la situazione sul piano morale diventa più delicata. Forse non sono in grado di rispondere, perché sento che cado da un parte e dall’altra: da un altro penso non ci debbano essere limiti alla creatività, dall’altro penso che una responsabilità su quello che dici la devi avere. La trap, ovviamente, ha un fortissimo riferimento edonistico: personalmente, io mi appassiono di più a quello che fa Kendrick Lamar, che tra l’altro metto al primo posto dei live più belli che ho visto negli ultimi anni”.

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BadGyal

E quindi, domando mentre Max Cooper sta già incendiando il palco, sente la mancanza di un po’ più di politica nella musica italiana? “No, non mi manca la politica. Forse è perché non mi ha mai affascinato, ma non la vorrei in mezzo al discorso musicale. Mi piace, invece, quando nell’immaginario dei testi il riferimento sociale e pure politico è sottinteso, celato, non didascalico com’era per un certo cantautorato italiano”. Urlando per sovrastare l’attacco bello aggressivo di Cooper, tento un’operazione nostalgia del tutto fallimentare, facendo menzione della band Elettrodust da lui fondata nel 2000, quella con cui ha cominciato la sua carriera—ma lui scoppia a ridere e mi chiede se “possiamo evitare questa domanda”. Possiamo e dobbiamo, perché ci immergiamo nel set roboante di Cooper. Dario è insaziabile e corre a vedere Hauschka & Francesco “Burro” Donadello ma io, che sono ormai più affamata di hummus che di set, scelgo di salutarlo. Ci ritroviamo qualche ora dopo al De Noche, dove io raggiungo il picco del divertimento con Bad Bunny, mentre Dario e Paolo snocciolano live su live a cui hanno assistito.

Dato che qui il volume è altissimo, sparo le ultime domande. Chiedo se sta collaborando con Sfera a X Factor, ma non mi può rispondere; quando invece allargo il fuoco su musica e TV e sulle conseguenze della loro interazione, mi dice che “la televisione ha permesso a noi autori di tornare a lavorare, e io stesso ho iniziato a farmi notare così. Poi ho cercato nuove direzioni e nuove forme”. Ma com’è essere un autore, domando con sincera curiosità, e scrivere qualcosa che altri interpreteranno e magari non faranno come sognavi tu? “Innanzitutto io mi definisco autore, arrangiatore e produttore, perché quando scrivo un pezzo, poi seguo anche tutta la produzione. Poi, ci sono due direzioni: o si lavora a fianco dell’artista, per cui ci sono continui scambi e feedback, oppure si scrive in maniera del tutto libera, senza pensare a qualcuno. Devo dire che funzionano bene entrambi modi. Il secondo è più misterioso e ha il fascino delle cose ignote, il primo è basato su ciò di cui parlavamo prima, e cioè l’empatia”. Domanda stronza: qualche volta hai pensato che il tuo pezzo non dovesse proprio finire in mano a un certo interprete, senza fare nomi per carità? Sorrisetto imbarazzato e “sì” quasi impercettibile.

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L’autrice e Dardust

Dato che siamo agli sgoccioli e io a breve andrò da Skepta e loro da Kaytranada (mannaggia e questa sovrapposizione) chiedo al volo a Dardust che cosa lo rende più felice oggi fare, e lui non mi lascia nemmeno finire la domanda: “La dimensione piano solo con cui sto girando ora. Volevo rimettermi sotto sul piano tecnico, della disciplina e dello studio. Al mattino mi sveglio e prima di accendere lo studio mi faccio due ore di pianoforte. Questo mi permette, anche psicologicamente, di affrontare questo tipo di live molto delicato e molto più complicato di quando hai dieci sintetizzatori e tanti compagni con te sul palco. Quando sono lì, da solo, è bellissimo. Lo show si chiama Lost in Space, è un racconto di dieci pianeti, ognuno collegato a un brano. Questa forma di live mi sta permettendo di aprirmi tanto al pubblico, io che non sono mai stato tanto espansivo. Poi ci sono anche momenti di pericolo, eh, o di distrazione, che devo gestire nel silenzio con questo mare nero davanti, che so essere composto da mille o duemila persone. Intenso, emozionante, mi ci voleva”.

E lui che ha collaborato con il mondo, con chi sogna ancora di fare cose? “Il mio sogno in assoluto è collaborare con Morgan, che tutti conoscono, tranne me che non ci ho mai parlato per più di 30 secondi. Lo stimo da sempre, lui è stato davvero il catalizzatore di ciò che accadeva in un certo mondo, quello che piaceva a me, e l’ha rimodellato a suo gusto. Ci terrei moltissimo a fare qualcosa con lui”. E con l’immagine della coppia Morgan-Dardust impegnata in trip musicali che potrebbero essere davvero dirompenti, ci salutiamo, diretti verso palchi e mondi lontanissimi. Ma tempo 12 ore e, mentre io sono già in Italia alle prese con una maratona di recupero sonno, Dario mi ha già mandato il suo commento alla giornata di sabato di Sónar 2019, il primo per entrambi, sicuramente non l’ultimo per me.

Nicola Cruz mi è piaciuto molto, fedele a livello di impatto emozionale al suo lavoro, che avevo scoperto un anno fa. Di lui mi piace l’approccio organico a livello percussivo con contaminazioni sudafricane e sudamericane che vengono veicolate verso un approccio spirituale. Il concept spirituale esce fuori. Kelly Moran, pianista raffinatissima, è stupefacente perché fa un set tanto improvvisato quanto controllato dal sound design sul quale si appoggia. Lei ha questo gran piano preparato dove improvvisa con queste cellule melodiche, mentre sotto è tutto controllato da questi rumori ed effetti sempre eleganti ma di grande impatto a livello sonoro. Poi HAAi: mi è piaciuto l’equilibrio tra ricerca del repertorio underground e allo stesso tempo grande potenza al set che lo ha reso accessibile al vasto pubblico, mi è piaciuta l’energia e la carica sulla console, la fisicità e l’approccio techno a tratti violento, ma non si poteva chiudere meglio che un set così.

La producer e cantante tunisina Deena Abdelwhahed aveva delle belle influenze nord africane, e sul lato elettronico ha fatto uno show davvero potente e raffinato, su cui cantava sopra non in maniera accessoria ma dando carattere e mordente alle sue produzioni. Max Cooper lo conoscevo ma non l’avevo mai visto live e mi è piaciuto moltissimo, ha confermato quello che mi aspettavo da lui: set dettagliatissimo sul suono, a livello di beat, a livello di eufemistica, di sound design. Amo questa intelligent dance music, che sa creare il mix perfetto tra eleganza e potenza. Yakamoto Kotzuga l’avevo visto diverse volte e sul palco Red Bull ha confermato alla grande ciò che penso di lui: è uno dei pochi italiani con un carattere unico, che è stato in grado di rimanere fedele nel tempo alla sua indole, senza tradirla mai, anzi: è andato solo migliorando e il suo set ha creato un’atmosfera incredibile, con il pubblico seduto e affascinato in sala, che ha goduto dall’inizio alla fine, con grande attenzione, la dinamica dell’intero set.”

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