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Da qualche anno a questa parte, a ogni manifestazione di piazza in cui si verificano scontri la politica italiana tira fuori dal cassetto l’idea di approvare qualche legge speciale di prevenzione — e l’ultima occasione, in ordine cronologico, si è presentata subito dopo il corteo No Expo a Milano del primo maggio 2015.
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“Stiamo lavorando per i divieti preventivi come avviene per le partite di calcio,” aveva detto al tempo il ministro dell’interno Angelino Alfano. “Quando c’è un alto indice di pericolosità sarà proibito sfilare nel centro delle città, proprio come già avviene quando si impedisce ai tifosi di andare in trasferta.”
L’ipotesi, insomma, è quella di estendere ai manifestanti il cosiddetto Daspo (acronimo di Divieto di Accedere alle manifestazioni SPOrtive). Questo tipo di misura è stata introdotta per la prima volta nel 1989 e consiste in un provvedimento del Questore che, senza alcuna pronuncia giudiziaria, impedisce ai tifosi ritenuti pericolosi di andare allo stadio per un periodo che va da uno a cinque anni.
Il carattere preventivo di questa misura ha sempre suscitato proteste da parte della tifoseria organizzata, nonché sollevato dubbi di legittimità costituzionale negli ambienti giuridici — anche se la Consulta, nel 2002, ne ha sancito la compatibilità con la Costituzione.
Chiaramente, la volontà di applicarlo a livello politico è stata criticata con veemenza ancora maggiore. Su Valigia Blu, ad esempio, l’avvocato Bruno Saetta ha sottolineato come “con il Daspo politico si subordinerebbe il diritto al legittimo dissenso politico ad una valutazione del governo in carica.” E dato che potrebbe facilmente diventare “un’arma di controllo del dissenso,” una misura del genere sarebbe “immancabilmente incostituzionale.”
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A ogni modo, nonostante la proposta del “Daspo politico” non abbia avuto alcun seguito, negli ultimi mesi le forze dell’ordine hanno iniziato a sfruttare le nuove regole del Daspo introdotte nella riforma dell’agosto 2014, tra cui è contemplata la possibilità di estendere il provvedimento a “tifosi” denunciati o condannati per reati contro l’ordine pubblico, o comunque coinvolti in episodi violenti.
Il risultato è quello di una sorta di “Daspo di piazza” surrettizio, dal momento che alcune questure hanno disposto il Daspo – o fatto partire procedimenti amministrativi che possono portare al Daspo – nei confronti di persone che avevano preso parte a manifestazioni politiche.
Nell’ottobre del 2015, quattro ragazzi sono stati denunciati a Livorno per aver preso parte alle contestazioni a Matteo Salvini avvenute lo scorso 14 luglio di fronte al centro “Il Melo,” una struttura che doveva ospitare cinque migranti minorenni. Oltre alle accuse di lesioni aggravate e porto d’arma impropria, i quattro hanno anche ricevuto una diffida in quanto – secondo la Questura – frequentatori abituali dello stadio.
All’inizio di gennaio 2016, sei persone a Pisa sono state raggiunte dalla diffida per aver partecipato a una manifestazione contro un comizio della Lega Nord tenutosi il 14 novembre 2015, in cui ci sono stati scontri con la polizia. L’accusa è quella di “aver istigato a delinquere e aver avuto una condotta violenta lanciando ortaggi, pietre e petardi verso le forze dell’ordine.”
Uno dei manifestanti diffidati è Sebastian, un meccanico trentenne che abita nel quartiere C.E.P, è attivo nel Progetto Prendocasa (un movimento per il diritto alla casa) e fa parte di un gruppo ultras del Pisa. “La questura mi ha notificato l’avviso di Daspo il 31 dicembre scorso,” racconta l’attivista a VICE News. “La cosa scandalosa è che vogliono vietarmi di andare allo stadio per una manifestazione contro la Lega Nord, dove nessuno di noi ha ricevuto a oggi nemmeno una denuncia.”
“Da noi chi comanda ha paura che le proteste per la casa, il reddito e contro il razzismo si espandano sempre di più,” continua Sebastian. “Per questo abbiamo fatto il comitato ‘No Daspo di piazza’: non è una questione solo di stadio e movimenti, riguarda la libertà di tutti.”
La campagna, come hanno spiegato i promotori alla fine di gennaio, si è posta l’obiettivo di opporsi “a questi provvedimenti illegittimi e incostituzionali, utilizzando sia gli strumenti dei ricorsi legali, sia l’informazione e la comunicazione per mobilitare l’opinione pubblica sull’accaduto.”
Dopo aver incassato numerosi attestati di solidarietà, il 5 marzo il comitato ha occupato l’ex cinema Ariston – uno stabile vuoto da molti anni – per “continuare a sostenere e proseguire la campagna contro i ‘Daspo di Piazza’.”
Pochi giorni dopo, però, la Questura di Pisa ha emesso altre diffide nei confronti di due persone che avevano preso parte – il 13 novembre 2015 – a una manifestazione per il diritto alla casa, contrassegnata dalle ripetute cariche delle forze dell’ordine dentro e fuori il Comune di Pisa.
Tra i diffidati c’è Giovanna: anche lei fa parte del Progetto Prendocasa e frequenta lo stadio — soprattutto negli ultimi tempi, in solidarietà con le persone diffidate in precedenza.
“Mercoledì 9 marzo sono stata convocata in Questura e ho ricevuto la pre-diffida,” dichiara l’attivista. “Nel foglio che mi hanno dato, in particolare, mi si accusava di ‘istigazione a delinquere’ perché durante la manifestazione intervenivo al megafono e ‘istigavo’ le persone presenti ‘a mantenere condotte illecite.”
“Credo sia difficile essere condannati per istigazione a delinquere per aver parlato al megafono durante un corteo,” prosegue Giovanna. “Ma con questa misura è sufficiente dichiarare questa cosa per complicare la vita a una persona per anni. E tutto questo senza neanche dover fornire le prove delle proprie accuse.”
L’avvocato Tiziano Checcoli, che difende i manifestanti del corteo anti-Lega Nord, sottolinea a VICE News “l’assurdità” di una misura che “colpisce una persona ritenuta responsabile di un certo comportamento impedendole di svolgere una attività, come andare allo stadio, che con il contesto della manifestazione non c’entra nulla e che quindi non è in nessun modo legata a quel comportamento.”
In più, precisa l’avvocato, queste persone “sono solo accusate, ma non certo ancora giudicate, per i fatti avvenuti in piazza.” Ci troveremmo dunque di fronte a una limitazione della libertà personale “del tutto arbitraria,” poiché arriva “prima di ogni decisione sui fatti e comunque colpisce situazioni e comportamenti del tutto scollegati dal contesto di partenza.”
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L’impressione sia di Sebastian che di Giovanna, comunque, è quella di essere stati sottoposta a una “sperimentazione” di inedite “misure di controllo.”
Una lettura di questo tipo è condivisa anche dall’avvocato Checcoli, che dal canto suo specifica come da sempre “i nuovi strumenti di limitazioni delle libertà” stiano stati sperimentati in primo luogo sui settori della “società più vulnerabili, anche sotto il profilo politico e mediatico,” per poi essere estesi – forti ormai di una certa legittimazione – ad altri settori.
Ed è proprio questo il motivo, conclude l’avvocato, “per cui questi fenomeni devono interessare anche coloro che, all’inizio, non sono direttamente colpiti.”
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Foto di apertura via Twitter