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Davide Petrella è il mago dei ritornelli italiani

Davide Petrella è l’autore che non conosci dei tormentoni che conosci a memoria: suo il ritornello di “Pamplona”, tormentone estivo dello scorso anno dei Thegiornalisti e Fabri Fibra; suo il ritornello di “Vorrei ma non posto”, tormentone estivo di un paio d’anni fa di J-Ax e Fedez; sua larga parte del disco Logico di Cesare Cremonini, e più in generale sue molte delle cose che passano o sono passate in heavy rotation nelle radio italiane.

In occasione dell’uscita del suo primo album da solista, Litigare (una mescolanza ben riuscita di pop, rap, trap e persino drill), ho avuto la possibilità di poter fare due chiacchiere con Davide, possibilità che naturalmente ho colto al volo visto che il pop è una delle mie ossessioni musicali e che non capita tutti i giorni di poter conversare con un autore dell’argomento in modo serrato; dialogando, abbiamo tirato fuori una carrellata di nomi che farà la gioia di appassionati e curiosi e che spazia da Gino Paoli e Domenico Modugno per approdare a Kendrick Lamar e Kanye West – tutti nomi perfetti per una ipotetica timeline mondiale del pop che possa servire a ricostruirne l’evoluzione diacronica e che aiuti a capire come questo genere sia cambiato e si sia evoluto nel tempo.

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Noisey: Una cosa che ho notato dalle tue canzoni (per esempio, in “Litigare” e “Skyline”, due singoli apripista del disco) è che spesso chiudi le rime in levare, come fa Tedua. È una cosa voluta?
Davide Petrella: Guarda, ti dirò: sono uno abbastanza anarchico. Siccome vengo da una band, Le Strisce, e dalle origini roots della musica (per dieci anni ho suonato nei garage) ho sempre avuto la tendenza a provare un po’ di tutto e muovermi in diversi modi, più che altro per una questione di sopravvivenza. Vengo tanto dal pop quanto dalla trap, dall’indie e dal cantautorato. Penso che queste influenze variegate si sentano nelle canzoni, dove comunque faccio le cose in maniera molto istintiva, molto libera, non mi piace ragionarci troppo sopra, mi piace mischiare le carte in modo naturale – infatti non mi sento né un rapper né un cantante pop. Io faccio sempre l’esempio dei Red Hot Chili Peppers, che dicevano di essere “troppo bianchi per i neri e troppo neri per i bianchi”. Mi sono sempre sentito un fiume di cose, che da una parte è una cosa che mi tiene sempre allenato e mi allontana dallo snobismo, ma dall’altra può essere un fatto negativo… anche se io credo che, oggi che siamo bombardati in continuazione di nuovi artisti, canzoni e input, tutto sommato essere personali sia qualcosa di positivo, che può aiutare a spiccare.

Come funziona il lavoro di scrittura a più mani? Scrivi da solo e poi sottoponi il testo all’approvazione dell’artista per cui l’hai composto?
Beh, ogni caso è diverso perché ogni artista ha i suoi paletti e le sue aperture. Mi piace molto quando gli artisti cantano qualcosa che io ho scritto e pensato esclusivamente per loro. Comunque, nel caso di “Pamplona” avevamo già una base di partenza, che era un abbozzo di quella attuale, e su quella base ho scritto il pezzo. Per quanto riguarda i rapper, da Fabri Fibra a Gué Pequeno col quale ho collaborato ultimamente, posso dire intanto di essere onorato di collaborarci, visto che sono dei mostri con le parole… e chiaramente, proprio per questo, loro sono molto più gelosi delle cose che scrivono perché quello è il loro vestito. Quando collaboro coi rapper, solitamente tendo a lavorare su aspetti delle canzoni che non sono nelle loro corde, e sono invece più nelle mie.

La tua scrittura è a tratti minimalista (in un pezzo fai una esplicita rivendicazione della poetica delle piccole cose), a tratti post-moderna (citi i Talking Heads e poi De Gregori, rispettivamente “Psycho Killer” e Rimmel).
Credo che faccia bene all’Italia mischiare un po’ le carte. Le cose cambiano, la musica va veloce, ragionare a compartimenti stagni non fa bene né al rapper né alla popstar; è molto bello quando l’ascoltatore si va a cercare le cose citate nelle canzoni, perché poi si crea un ponte, un gioco di citazioni, richiami, rimandi ad altre cose.

In un’altra canzone citi gli Smiths: “c’è una luce che non si spegne mai”. “There is a light that never goes out” è il più bel pezzo pop mai scritto, secondo me.
Eh beh, Morrissey… con gli Smiths e Morrissey sfondi una porta aperta. Per me lui è Gesù, melodicamente è un mega-killer, lui e Tom Waits hanno un modo di scrivere che… in due frasi ti fanno proprio il film. Hanno una scrittura semplice, ma comunque complessissima. Con due versi ti ammazzano.

Hai degli autori preferiti?
Oltre ai già citati Tom Waits e Morrissey, mi piace molto, per esempio, John Lennon. Ma che cazzo te lo dico a fare, no? È un po’ giocare sul facile. Lui è uno che questa cosa della contaminazione ce l’ha sempre avuta. In generale, l’Italia non è seconda a nessuno con le parole, sebbene possiamo migliorare a livello melodico. Abbiamo avuto, per esempio, Lucio Dalla, che per certe cose ancora stiamo copiando, oppure Battisti, che anche post-Mogol ha fatto dischi incredibili con Panella. Paolo Conte ha scritto delle cose bellissime, molto cinematografiche. Poi mi piace la canzone napoletana, la conosci?

Non molto perché non conosco il dialetto, e avrei sempre la sensazione di perdermi qualcosa.
C’è un filone di canzoni napoletane, che qui chiamiamo gli standard, come si usa fare nel jazz… che ne so: “Maruzzella”, “Te voglio bene assaje”, “Malafemmena”, pezzi di ottanta-cent’anni fa, canzoni talmente potenti da aver cancellato persino chi le ha scritte. Lì si parlava di amore, l’argomento banale per eccellenza, in modo talmente puro che è davvero… irripetibile. Totò, un comico, ha scritto una canzone che non morirà mai. “Volare” [“Nel blu dipinto di blu”] per me è una canzone incredibile, spero di scrivere un pezzo così un giorno.

Di Domenico Modugno mi fanno impazzire certe cose, ad esempio “Vecchio frac”. Sempre di quel periodo lì, mi piace molto Gino Paoli ( “La gatta”, “Quattro amici al bar”, “Il cielo in una stanza”). Mi fa specie che, se tu cerchi su internet una discografia ragionata di Paoli e Modugno, non ne trovi neppure sui portali principali, nonostante Paoli fosse tutt’altro che un autore bidimensionale – che ne so, ha fatto pure un disco di cover di Piero Ciampi.
Ciampi mi piace molto, anche se più a livello di testi che non di melodie.

L’essere poco attenti a livello melodico è stato un problema di molti, in Italia. Guccini penso sia il caso più eclatante.
Sì, sono d’accordissimo. Uno che ascolto di gusto, tra i nuovi, è Kendrick Lamar. Sono un suo super fan, perché lui secondo me sta alzando proprio l’asticella: ha la lingua come un mitra, scrive cose complessissime, ma allo stesso tempo lavora molto sulla melodia, perché ha capito che oggi non ti puoi permettere di essere solo un rapper, solo questo o solo quello. Le sue melodie sono incredibili, atomiche.

Lo stesso si può dire per l’ultimo di Kanye West; cioè, probabilmente non ci ricorderemo di questo disco quando penseremo a lui tra qualche anno, però ha imbroccato delle melodie che sto ascoltando ininterrottamente da giorni. È fuori di testa, è un genio totale. Secondo me noi, in Italia, ci arriviamo più in ritardo. Nel disco io ho provato a fare cose molto serrate, dalle metriche molto complesse ma con melodie variegate, come stanno facendo gli artisti all’estero. Non credo che nella musica ci siano ormai molti paletti: chi ascolta Post Malone ascolta anche Bruno Mars, chi ascolta Sfera Ebbasta ascolta Benji e Fede, tipo, e fino ad anni fa magari era una cosa impensabile. Si vede che finalmente cominciamo a ragionare in un buon modo, stiamo iniziando ad aprirci, la gente sta cambiando. Secondo me questo è un periodo d’oro. Nei prossimi anni ci divertiamo, vedrai.

L’Italia è una nazione ancora molto conservatrice, anche musicalmente. Young Signorino ha catalizzato su di sé reazioni schifate, perplesse, incuriosite. C’è chi dice che la trap è il nuovo pop.
Mah, sai, non credo che ci ricorderemo di lui come un artista di rottura. Io ascolto davvero di tutto, ti ripeto, mi piace un sacco tenermi aggiornato, capire perché una roba fa successo; in lui non sento l’artista che dopo ci farà sognare. Mi pare una roba che a livello mediatico, di marketing, sta esplodendo, ma… non è Liberato, ecco. Lui, quando è arrivato, era palese che fosse artisticamente più solido, più emozionante. Poi magari Young Signorino ci stupirà in positivo, chi lo sa. Per ora, cento euro su di lui non li punterei.

Secondo me il più grande scrittore del pop italiano è Claudio Baglioni. La vita è adesso è un disco difficilissimo a livello testuale, a metà tra Giovanni Arpino e Virginia Woolf, eppure è riuscito a vendere milioni di copie.
Lui è un mostro, secondo me. E poi è un vero esempio di italianità nel pop: mentre altri guardavano all’estero, sia melodicamente sia a livello di testi, lui è originalissimo in tutto quello che fa.

Un altro bravissimo è Francesco Gazzè, che è il fratello e paroliere di Max Gazzè. I primi tre dischi di Max Gazzè hanno segnato un nuovo standard per quanto riguarda i testi: “A”, dal secondo disco di Max, è un’educazione sentimentale risolta in tre minuti.
Sì, hai ragione, mi piace moltissimo anche lui. Io trovo che l’italiano ci offra moltissime possibilità di organizzare i concetti in una maniera complessa, e credo che un bravo scrittore con la nostra lingua possa davvero divertirsi; infatti sono un grandissimo fan del nostro pop. Mi piace tantissimo Giovanni Truppi, che tra l’altro è un amico: un vero artista, uno onesto che non ha ancora avuto quello che merita. Credo, però, che lo otterrà molto presto.

Ti piace leggere? Pensi che qualcosa che hai letto abbia influenzato il tuo modo di scrivere?
Certo che mi piace leggere. Ci sono molti modi per scrivere canzoni: c’è anche chi sottolinea i passi dei suoi libri preferiti per poi provare a mischiare un po’ le carte, però fare così non mi piace molto, io sono molto naif da questo punto di vista, preferisco andare sempre per istinto e non per emulazione. Sicuramente leggere aiuta, ma come può aiutare viaggiare, guardare film, fare cose da cui imparare qualcosa. In generale, la cosa migliore che puoi fare è tenere le antenne dritte. È più facile che ti ispiri una persona incontrata per caso per strada, o una storia raccontata da un amico, piuttosto che la lettura di un libro. Poi chiaramente cambia da persona a persona.

Cosa consiglieresti, quindi, a chi volesse iniziare a scrivere canzoni?
[Ride] Non credo che si possa scegliere di volerlo fare, e anzi ne sono convintissimo: non si sceglie di fare il cantante, né di scrivere canzoni – è una cosa per cui devi essere portato e basta, devi avere un dono. Non è questione di talento: lavorare per migliorare va benissimo, ma devi nascere con una attitudine. Secondo me, le cose succedono e basta. Se vuoi fare questo mestiere è perché ti è piovuto addosso. Poi puoi essere fortunato a sfondare da ragazzino e quello ti può aiutare, ma alla lunga si nota sempre chi ha un qualcosa di diverso rispetto agli altri. Personalmente, a volte riesco a vedere la punchline, l’idea, la scintilla che mi farà scrivere la canzone, e questa cosa non so come si chiama, ce l’ho da sempre. A chi vuole scrivere canzoni, consiglierei solo di scoprire se c’ha questa roba.

William Somerset Maugham diceva: esistono tre regole per scrivere un romanzo, ma sfortunatamente nessuno sa quali siano.
[Ride] Sì, sono d’accordissimo.

Tornando a noi, come procederai sul versante live?
Quest’estate saremo in giro per festival per confrontarci con tutte le altre realtà musicali, e poi in autunno ci saranno le date nostre, e anche qui ci saranno molte contaminazioni. Non me la sentivo di limitarmi a portare un computer, premere play e cantare, ecco, quindi sarò affiancato da molti musicisti, si tratterà di un live molto ibrido.

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