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Com’è cambiato e cambierà il delivery per i ristoranti dopo il Coronavirus

delivery ristoranti coronavirus

Una cosa è certa: il delivery, come lo conoscevamo un paio di mesi, fa non esisterà più.

Il rider si presenta alla mia porta con mascherina e guanti monouso: sembra uscito da un laboratorio trasportando materiale segreto. Non sa bene che fare. Decide di mettere la scatola ermetica contro il muro tenendola con le ginocchia e di allungarmi la pizza indietreggiando con la schiena, stirando il braccio il più possibile per coprire la distanza che ci separa. Mi lancia il foglio della ricevuta con la scritta “NON FIRMARE” e va via.

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È incredibile come questa surreale quarantena, a causa delle misure di contenimento del Covid-19, sia diventata in pochissimo tempo un’abitudine. In questa nuova condizione la ristorazione porta un solo nome: consegna a domicilio, o delivery, se volete.

In questi giorni qualcosa sta cambiando: stanno arrivando le prime assicurazioni per i riders; le piattaforme mettono a disposizione consigli per il business; le quote di iscrizioni o le percentuali sono oggetto di forte polemica.

Un delivery che sta cambiando faccia, che per giorni non ha saputo bene come strutturarsi e che ora, questo è certo, non esisterà più nello stesso modo in cui lo conoscevamo prima. In questi giorni si sta trasformando: stanno arrivando le prime assicurazioni per i riders; le piattaforme mettono a disposizione consigli per il business; le quote di iscrizioni o le percentuali sono oggetto di forte polemica.

I giorni buoni sono spesso nel week-end. Come se stessimo mentalmente uscendo per andare al ristorante.

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Foto per gentile concessione di Gastronomia Yamamoto

Ma tornando al Coronavirus e ai numeri di questi giorni, quasi tutti gli intervistati mi hanno detto una cosa: ci sono giorni fiacchi e altri molto buoni. E quelli molto buoni sono spesso nel weekend. Come se stessimo mentalmente uscendo per andare al ristorante.

Molti ristoranti, trattorie, locali e chi più ne ha più ne metta, non vedevano nel cibo trasportato a casa un’opportunità.

Come ormai tutti sappiamo, il Decreto dell’11 marzo sospende “le attività dei servizi di ristorazione (fra cui bar, pub, ristoranti, gelaterie, pasticcerie). […] Resta consentita la sola ristorazione con consegna a domicilio nel rispetto delle norme igienico-sanitarie sia per l’attività di confezionamento che di trasporto.” Con quello del 22 marzo sembra che le attività ristorative (e di conseguenza il delivery) possano continuare a lavorare, quindi la maggior parte di loro lo faranno. Usiamo il “sembra” non per nostra approssimazione, ma perché in materia di ristorazione e consegne a domicilio, in queste settimane, i decreti sono sempre stati nebulosi.

Quando la risposta che mi è stata data dalla segreteria della Presidenza del Consiglio è: “non posso dirle nulla perché non so nulla, non abbiamo ancora la copia in mano” a due giorni dalle dichiarazioni, questo fa capire un po’ meglio la situazione.

Negli ultimi anni il delivery ha incrementato – e di parecchio – la propria forza. Però molti ristoranti e locali non vedevano nel cibo trasportato a casa un’opportunità: magari perché i loro posti a sedere erano riempiti su più turni, e soprattutto la consegna prevede altro personale, uno spazio di preparazione dedicato, per non inceppare il servizio, e costi di commissione da parte dei vari siti come Deliveroo o Glovo.

In questa quarantena, però, il delivery era l’unica soluzione praticabile per tenere in piedi attività che altrimenti avrebbero rischiato seriamente di subire perdite non quantificabili da un giorno all’altro. O di chiudere, come lo storico ristorante stellato Perbellini di Isola Rizza, a cui lo stop Coronavirus ha dato il colpo di grazia. Comunque diversi locali che non erano fino a quel momento presenti su alcuna piattaforma delivery si sono rimboccati le maniche e hanno fatto menu ad hoc per offrire foodporn anche a tutti noi quarantenati. Tra i primi, almeno a Roma, ci sono stati i ragazzi di Trecca. Ma nelle altre grandi città il movimento delivery di ristoranti “insospettabili” si stava muovendo altrettanto agilmente. Così ho sentito alcuni di loro e alcune delle maggiori piattaforme di delivery per capire un po’ di più la situazione, i numeri e farvi venire fame.

Avevamo ancora i frigoriferi pieni e molti clienti che non ci volevano abbandonare. Quindi si è deciso di fare una piccola carta soprattutto per svuotare la dispensa, offrire qualcosa a loro e non andare sotto a un treno noi, chiudendo.

Quando Manuel e Niccolò di Trecca hanno iniziato il movimento #spacca per dichiarare al mondo la loro partecipazione delivery ai tempi del Coronavirus, assieme a loro c’erano altre realtà romane come Legs, Santo Palato e Retrobottega, per citarne alcuni. Oggi Trecca non consegna più, per ragioni più che valide: “Non ci sentivamo di andare avanti vedendo che alcuni fornitori erano i primi a non prenderla sul serio, scaricando la merce senza protezioni”, mi ha detto Manuel.

Molti ristoranti hanno continuato. Tra questi c’è Retrobottega, meta di curiosi, gourmet, feticisti di paste ripiene. “Abbiamo pensato di unire i concetti di Retropasta e Retrovino e di dare un’offerta più varia, chiamata Retrodelivery” mi ha detto Alessandro Miocchi. “Quindi menù dedicati con insalate, paste ripiene cotte, crude, fritti e panini.” Alessandro mi ha fatto capire subito uno dei motivi principi del perché molti ristoranti si stanno affidando al delivery invece che chiudere: la dispensa piena. “Avevamo ancora i frigoriferi pieni e molti clienti che non ci volevano abbandonare. Quindi si è deciso di fare una piccola carta soprattutto per svuotare la dispensa, offrire qualcosa a loro e non andare sotto a un treno noi, chiudendo.” Le loro consegne, come quelle di molti, sono altalenanti: un giorno ce ne sono solo quattro, un altro venti. Questo forse perché la gente un po’ ha paura del contatto e che il virus possa circolare e un po’ per salvare le proprie economie. Perché delivery sì, ma finisce che spendi 50 euro come niente e magari ti hanno pure tagliato lo stipendio.

Comunque le paste ripiene di Retropasta sono incredibili, se le volete ve le portano UberEats e Foodys.

Le piattaforme di Delivery e il Coronavirus

Il 35% dei locali presenti nel sul loro sito di delivery ha deciso di chiudere comunque.

Non si poteva fare un pezzo sulla situazione delivery senza sentire i diretti interessati: le piattaforme di delivery. MyMenu è in una fascia di prezzo medio-alta che garantisce però un servizio di qualità. Giovanni Cavallo, uno dei fondatori, mi ha spiegato come siano stati i primi a sviluppare le consegne contactless, che ora sono obbligatorie. “Abbiamo rifornito i nostri 600 riders di mascherine prese da noi e gentilmente concesse dal Comune di Bologna, con cui abbiamo stretto un’intesa e che ci sta aiutando. I riders aspettano fuori dal locale, il cibo viene poggiato sul loro zaino e, una volta a casa vostra, poggiano di nuovo il cibo sullo zaino e si allontanano di un metro, accertandosi che prendiate il vostro ordine.”

Giovanni mi dice anche che il 35% dei locali presenti nel loro portfolio hanno deciso di chiudere e che i numeri, all’inizio altalenanti per la paura della gente, sono man mano cresciuti confermando una sorta di normalità e, sicuramente, di fiducia.

Abbiamo cercato di fare delle politiche di ribasso per aiutare i commercianti.

Ovviamente per la questione delivery, a parte MyMenu, ci sono piattaforme che agiscono su tutto il territorio e che fanno anche un po’ le regole. In questo articolo del 16 marzo si dice come le piattaforme di delivery si stiano approfittando del momento per aumentare le percentuali di commissione. Una delle piattaforme in questione sarebbe Deliveroo. Li ho contattati per capire se fosse vero: “No, in quell’articolo la persona di FIPE intervistata si riferiva a piattaforme locali, non a multinazionali. C’è stata confusione. Come azienda siamo abbastanza risentiti, perché abbiamo invece cercato di fare delle politiche di ribasso per aiutare i commercianti.” In ogni caso per tutte le piattaforme rimane il dato di un mercato in espansione e contrazione continua a causa della paura delle persone di contrarre il virus, e di rimanere senza soldi in caso di un crollo economico che già sta colpendo diversi lavoratori. Secondo Il Sole24Ore, le piattaforme di delivery perderanno effettivamente circa il 20%. Non così tanto se pensiamo purtroppo a quello che sta succedendo a molti ristoranti.

Il punto importante in questo momento per le piattaforme non è tanto il business, ma che siano all’attenzione di tutti due punti almeno: le cifre dei compensi, che cominciano a essere discusse, e i diritti dei riders, che stanno invece ottenendo, un po’ paradossalmente, delle vittorie. Nel caso di Deliveroo la questione riders si è tradotta con una copertura assicurativa anti Covid19 di 30 euro al giorno in caso un rider risultasse positivo e non potesse lavorare. Uber Eats ha fatto una cosa analoga. Ma ci sono altri problemi. Essendo i lavoratori autonomi, l’azienda non può garantire, purtroppo, che abbiano le giuste protezioni. Molti di loro non indossano mascherine – neanche quelle chirurgiche – o guanti, perché sono a carico del rider. “Abbiamo attivato anche un servizio di rimborso per la spesa di mascherine e guanti”, mi dicono da Deliveroo. Tocca capire se ne trovano ancora.

L’altra funzione prettamente anti Coronavirus, ma che potrebbe durare molto di più, è quella forzata del contacless. UberEats, Deliveroo, MyMenu o Domino’s Pizza, hanno inserito nella piattaforma la funzione che permette all’utente di decidere come non deve avvenire il contatto.

Quanto costa ai ristoranti utilizzare queste piattaforme

Le percentuali che il ristoratore deve alla piattaforma di delivery possono arrivare anche al 35% dell’ordine e i costi per attivare un account possono sfiorare i 600 euro, anche se spesso siamo più sui 300.

Ma perché molti ristoranti non si erano mai approcciati al delivery? Per capire di più sulla polemica delle percentuali e dei costi di attivazione ho chiesto ai diretti interessati. La risposta non è stata netta, perché sì, dipende da che ristorante siete, in che zona vi trovate e se volete un’esclusiva.

Sia Deliveroo che JustEat mi hanno parlato di percentuali che oscillano in base alla zona: se ci sono molti ristoranti in una zona e volete aprire un account è prevista una percentuale più alta. Il motivo è semplice: c’è già un giro di ordinazioni alto, e un altro ristorante non gli serve a molto, a meno che non sia un ristorante di alto profilo.

Sta di fatto che sì, le percentuali che il ristoratore deve alla piattaforma di delivery possono arrivare anche al 35% dell’ordine e i costi per attivare un account possono sfiorare i 600 euro – un ristoratore che ha chiesto di rimanere anonimo mi ha inviato lo screenshot di una proposta che gli è stata fatta da una delle piattaforme -, anche se spesso siamo più sui 300 euro. Inoltre i soldi dall’operatore non sempre arrivano subito, cosa che, in questo momento di grande mancanza di liquidità, può essere davvero un problema.

Il delivery in questo momento sta proprio salvando i ristoranti, aiuta almeno a fare la patta.

Ho sentito anche altri ristoranti in tutta Italia. In molti stanno sopravvivendo grazie al delivery, altre hanno mollato dopo qualche settimane perché il loro modello ristorativo era incompatibile con la consegna a casa.

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A Bologna il ristorante Oltre si è fatto conoscere a colpi di tagliatelle. Lorenzo Costa, ristoratore e figlio di ristoratori, ha anche altri due progetti più casual: un ramen bar – Sentaku – e da poco ha aperto anche un’hamburgeria – Nasty Burger.

“Ad oggi, da quando è partita questa storia, le consegne sono decuplicate. Secondo me il delivery in questo momento sta proprio salvando i ristoranti, ti aiuta almeno a fare la patta. I nostri ragazzi sono tutti schierati per dare un servizio, nel rispetto del cliente e delle norme igieniche dettate dal Ministero della Salute.”

E poi avanza anche delle ipotesi su come cambierà – perché cambierà, forse di molto – la ristorazione una volta finita questa storia del Coronavirus. “Penso che ci sarà un ritorno alla semplicità. Un ritorno al piatto in sé e un crollo della fuffa che c’è stata fino ad adesso.” E logisticamente? Nasty e Sentaku, i due locali di Lorenzo a Bologna, consegnano con MyMenu.

All’inizio abbiamo avuto paura, perché è completamente un altro business, anche se non sembra.

Gastronomia Yamamoto, ristorante di cucina giapponese fatta in casa a Milano, non aveva mai fatto delivery prima (asporto sì). Oggi, ha deciso che forse non era soltanto un modo per rientrare coi conti e vedere un futuro, ma un servizio sociale per i clienti che adorano andare a mangiare in quel locale. “Mi sentivo in dovere, una volta chiuso, di fare qualcosa per i nostri clienti,” mi ha detto Aya di Gastronomia Yamamoto al telefono. “All’inizio abbiamo avuto paura, perché è completamente un altro business, anche se non sembra. Molti servizi di delivery ci avevano contattato, ma noi abbiamo sempre detto di no. Poi li abbiamo ricontattati in seguito alla chiusura, ci siamo messi al lavoro e abbiamo cercato di strutturare questo nuovo servizio per coccolare i clienti.”

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La ragazza che lavora in sala ha fatto in poco tempo foto di piatti, dal nulla sono comparsi tutorial deliziosi su come farsi gli onigiri a casa sui loro social. “La prima cosa per noi è il contatto umano: al tavolo chiediamo sempre se tutto va bene, se possiamo fare qualcosa per loro. Nel delivery abbiamo deciso che questo contatto potesse essere fatto con un bigliettino che chiedeva loro come stessero e una caramella,” mi ha detto Aya. Se volete ordinare i loro buonissimi piatti giapponesi, li trovate su Deliveroo.

Abbiamo pensato di mettere dentro piatti che puoi anche riscaldarti a casa, come i cannelloni per esempio. E stiamo comprando il top di gamma che rimane nei magazzini dei fornitori, così da avere sempre una qualità altissima.

Anche Santo Palato, la trattoria moderna capitanata dalla cuoca Sarah Cicolini non aveva fatto delivery prima d’ora. Per questa emergenza ha deciso di creare un menù dedicato che prevede pranzo e cena, dal martedì alla domenica. Trippa alla romana, Coppa di Testa, Cannelloni, tutti piatti pensati per godere a casa come pochi.

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Foto per gentile concessione di Santo Palato.

“Abbiamo pensato,” mi ha detto Sarah, “di mettere dentro piatti che puoi riscaldare, come i cannelloni. E stiamo comprando il top di gamma che rimane nei magazzini dei fornitori, così da avere sempre una qualità altissima.” L’idea di fare delivery anche da loro è venuta per due ragioni: per dare un servizio anche quando il ristorante era chiuso e per scommettere su una nuova forma che ancora non avevano sperimentato e che ha visto, secondo le loro stime, il business dei delivery dei ristoranti cinesi crescere del 300%. Santo Palato si trova su una piattaforma chiamata Foodys, che consegna in tutta Roma.

I costi per chi fa qualità sono insostenibili. Tutti i nostri produttori sono micro produttori, quindi ci andavamo a perdere.

Tipografia Alimentare, TIPA per gli amici, a Milano in quel di NoLo, sta dando un utile servizio ai milanesi: porta vino naturale a casa. “Abbiamo iniziato facendo delivery di food,” mi dice la proprietaria Martina Miccione, “ma i costi per chi fa qualità sono insostenibili. Tutti i nostri produttori sono micro produttori, quindi ci andavamo a perdere. Però abbiamo visto che invece erano molte le richieste di birre artigianali e vino.”

Sembra scontato, ma trovare una bottiglia di vino in questo periodo è veramente difficile: o vi accontentate del supermercato o dovete fare ordini grandi sulle maggiori piattaforme di spedizione di alcolici. Non si sono affidati a nessuna piattaforma: ogni giorno mostrano i vini del giorno sulla loro pagina, gli ordini si prendono via social o WhatsApp.

I clienti mi contattano su WhatsApp, mi dicono che cocktail vogliono e per che ora e io glielo preparo, imbottiglio e etichetto. Poi glielo portiamo completo di libretto di istruzioni per finirlo a casa.

I cocktail in bottiglia ormai li conosciamo tutti, e si trovano nelle maggiori piattaforme di vendita di alcolici. Difficilmente, però, avrete qualcuno che ve li farà espressi. Ecco, Cosimo Negri di Salotto Negroni 1919, in provincia di Firenze, ha pensato di aprire il proprio locale ogni giorno, fare i drink che trovate nella lista ad hoc e servire, per primo, un servizio di delivery di cocktail.

“I clienti mi contattano su Whatsapp, mi dicono che cocktail vogliono e per che ora e io glielo preparo, imbottiglio ed etichetto,” mi dice Cosimo. “Poi glielo portiamo completo di libretto di istruzioni per finirlo a casa e con una busta di ghiaccio da bar, così se lo gustano al meglio.” In effetti, a parte i drink che hanno dei succhi all’interno e sono soggetti a scadenza, un Negroni, per dire, può durare anche più di una giornata. “Con il fatto di sapere gli orari di consegna, possiamo gestirci ordini anche fuori dalla cittadina e arrivare in quei paesi dove, magari, non arriva niente. È anche un modo di aiutare a ridare un sorriso.” E, secondo questa logica, i prezzi non sono aumentati.

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Di molto si dovrà discutere sulla ristorazione dopo che l’emergenza sanitaria sarà finita: come funziona il delivery – i costi, i diritti dei lavoratori – sarà sicuramente uno dei temi principali.

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