Dentro il “palazzo della morte” di Milano

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Come ogni anno a Milano in questo periodo, chi vive per la strada deve affrontare il suo nemico peggiore: il freddo. Lo scorso 28 novembre un senzatetto è morto in piazza San Babila a causa delle temperature rigide.

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La situazione ha spinto l’amministrazione cittadina a varare un apposito “piano antifreddo“. Allo stesso tempo, però, in Stazione Centrale sono tornati i cancelli anti-clochard, per impedire a “barboni e sbandati” di trascorrere la notte nei pressi delle grate da cui esce l’aria calda.

Chi non trova un posto letto nelle strutture per senza fissa dimora, o nelle onlus, è quindi obbligato a inventarsi un’abitazione di fortuna.

È il caso del palazzo diroccato all’angolo fra via Colletta e via Lattanzio, una zona semi-centrale in prossimità di piazzale Lodi: questo ecomostro di sette piani, destinato all’abitazione residenziale e mai completato, venne definitivamente abbandonato nel 2009.

Oggi l’edificio di via Colletta è dimora di una ventina di persone, senzatetto e tossicodipendenti. Di giorno è semi-deserto: di notte, invece, diventa il loro riparo d’emergenza.

VICE News ha trascorso un giorno e una notte all’interno dell’edificio con una telecamera nascosta, dopo aver ricevuto segnalazioni allarmate dai residenti del quartiere, preoccupati per l’incolumità dei bambini che ogni giorno si recano nelle due scuole adiacenti.

La storia del palazzo è una sintesi di mala gestione, scarsa trasparenza e illegalità: dopo essere stato abbandonato, l’edificio è stato recintato “per sicurezza” con alcuni pannelli di legno — la barriera protettiva è ricoperta, oggi, dai manifesti che pubblicizzano i principali spettacoli teatrali e concerti di Milano.

Chi abita qui dentro lo chiama “palazzo della morte,” ed è abbastanza facile capire il perché: nella struttura ci sono più buche – profonde anche 5-6 metri, a strapiombo su quello che sarebbe dovuto diventare il garage – che pavimentazioni stabili. 

Queste aperture sono state coperte con assi improvvisate spesso invisibili al buio, che qui non conosce orari: nei piani bassi, infatti, la luce non entra nemmeno al pomeriggio. Il rischio di precipitare in una di queste profonde cavità è molto elevato.

Al palazzo si accede da un’asse di legno rimovibile che funge da ‘cancello’ di ingresso. All’interno, lo spettacolo è desolante: l’edificio sembra appartenere a un contesto post-bellico, piuttosto che alla Milano tanto decantata in tempi recenti dalla stampa italiana e internazionale.

Cumuli di macerie, farmaci e rifiuti di ogni sorta sono ammassati per terra o dentro i carrelli della spesa rubati al vicino IperCoop di viale Umbria, uno dei supermercati più grandi della città. Le bottiglie di plastica, allineate agli angoli delle stanze per poi essere riutilizzate o vendute, sono l’unico elemento ‘ordinato’ al suo interno. Alcune di queste bottiglie, tra l’altro, servono per contenere gli escrementi degli occupanti dell’edificio.

La prima notte incontriamo due uomini di origine balcanica: sostengono di essere parenti, benché uno venga dall’Albania e l’altro dalla Macedonia. Inizialmente credono di parlare con due poliziotti, e ci mostrano i documenti. In realtà le forze dell’ordine qua dentro mettono piede raramente: “I carabinieri? Sono venuti due volte in tre anni,” racconta una ragazza italiana che si presenta come Ellah.

Neanche la vigilanza privata, gestita dalla società Sicuritalia e pagata dalla Coop per pattugliare di notte il quartiere e il supermercato, è mai entrata nell’edificio, ci spiegano. I due uomini ci mettono in guardia contro chi vive nei piani alti — “arabi, soprattutto tunisini, sempre drogati o ubriachi.”

Ellah sembra la persona messa peggio tra quelle che incontriamo: non ha più di 30 anni, ma la faccia è scavata e le maniche sempre abbassate. Indossa una giacca con cappuccio, le palpebre si abbassano mentre parla. Quando arriva, estrae dalle tasche e distribuisce tre brioches confezionate che, assieme a un filone di pane, costituiscono l’unico pasto che vediamo consumare dagli abitanti del palazzo durante l’intera giornata.

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Al piano terra vivono due egiziani, veterani del “palazzo della morte”: si chiamano Mohammed e ‘Mimmo’, rispettivamente 64 e 60 anni — 37 dei quali trascorsi vivendo per strada. Alcolizzati, si sono conquistati la parte migliore della struttura, dove hanno allestito una tenda con due materassi. “Cercate anche voi dei materassi e metteteli dove volete. Basta che non abbiate rapinato o ucciso qualcuno, noi qui non vogliamo casini,” ci avvertono.

Tre volte a settimana, Mohammed e Mimmo si alzano alle 4 del mattino e vanno a lavorare nel più grande ortomercato d’Italia e di Milano, situato nella zona sud-est della città.

Gestito dalla società pubblica So.ge.mi., l’ortomercato è da anni è al centro di numerose inchieste giornalistiche. “Facciamo carico-scarico per qualche ora, ci pagano tra i 20 e i 25 euro,” raccontano i due. Se moltiplicata per i giorni di lavoro, la paga è di circa 70 euro ogni sette giorni, 280 euro al mese.

Ai piani superiori – sette in totale, gli ultimi quattro mai costruiti del tutto – si trovano veri e propri dormitori improvvisati: le ‘stanze’ ospitano anche cinque materassi alla volta, scarpe e rasoi sono appoggiati per terra, alla rinfusa. Alcune porte sono rese inaccessibili da pesanti lucchetti. Camminiamo attraverso corridoi larghi un metro e venti, sprovvisti di ringhiera, e la scalinata costeggia la tromba dell’ascensore. Anche questa è stata “messa in sicurezza” con soluzioni di fortuna, inchiodando o appoggiando dei pallet ad ogni varco.

“Com’è possibile che un palazzo del genere sorga in centro a Milano?,” è la domanda più frequente tra gli abitanti della zona. Domanda lecita anche e sopratutto da parte di chi aveva già anticipato denaro per acquistare un appartamento all’interno dell’edificio: nel 2012, quando la struttura era abbandonata da ormai tre anni, su internet circolavano ancora gli annunci di vendita dell’immobile, con tanto di slide e render del progetto finito.

Tre mesi prima di fallire, la società proprietaria dell’immobile, la Zerodue Sud Est Srl, vendette il palazzo a un’altra società, la Ca’ grande srl. Quest’ultima lo girò a sua volta a una fiduciaria situata in Lussemburgo.

In realtà si trattava di un gioco delle tre carte, presumibilmente orchestrato da un avvocato di origine casertana, Mariano Baldini. Arrestato dalla Guardia di Finanza nel settembre 2012, fu poi accusato dalla Procura di Milano di essere a capo di un sistema creato per proteggere gli investimenti immobiliari del clan dei Casalesi attraverso il suo studio legale.

Secondo altre indagini, l’avv. Baldini appare come una delle pedine fondamentali della Camorra nel nord Italia, una testa di ponte fra la Campania e la Lombardia: mentre era in carcere gli è stata notificata anche l’accusa di aver frodato il fisco per diversi milioni di euro, soldi poi reinvestiti in diamanti provenienti dalle zone di guerra in Africa, Liberia e Camerun.

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Nonostante i numerosi esposti presentati negli anni da cittadini e rappresentanti politici di quartiere, l’amministrazione non ha mai preso veramente in considerazione l’ipotesi di mettere le mani sul “palazzo della morte”, riqualificandolo, mettendolo in sicurezza o abbattendolo — sebbene il regolamento urbanistico preveda dal 2013 questa possibilità trascorsi cinque anni dall’abbandono di uno stabile.

Si sta invece discutendo in consiglio comunale, nelle ultime settimane, una proposta che potrebbe risolvere – o almeno alleviare – il problema dei tossicodipendenti che vivono all’addiaccio. 

Solo a Milano, secondo i dati presentati dal Direttore Dipartimento Dipendenze della ASL, Riccardo Gatti, nell’ultimo anno sono 100.000 le persone che hanno fatto uso almeno uno volta di popper, ecstasy, allucinogeni, amfetamine, oppiacei e cocaina. Alcuni di questi vivono stati di dipendenza molto gravi, che li ‘costringono’ a vivere in mezzo a una strada — o all’interno di qualche edificio abbandonato.

Su proposta dell’unico consigliere dei Radicali a Palazzo Marino, Marco Cappato, si sta così pensando di istituire le cosiddette “stanze del buco”: sale di iniezione protette, sul modello di quelle presenti nei Paesi scandinavi o in Svizzera, dove i tossici possono drogarsi ma sopratutto entrare in contatto con personale medico e terapie di disintossicazione.

La proposta, che incontra il favore di Sel e di una parte del Partito Democratico, aveva in passato già dato adito alle polemiche di giornali e politici: c’era chi aveva parlato di “Comune pusher” che farebbe così un “favore agli eroinomani.”

L’alternativa, per il momento, sembra quella di lasciare i tossici in un palazzo abbandonato e sull’orlo di crollare, costruito – probabilmente – con i soldi della Camorra.

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Ha collaborato Andrea Micheloni.

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