Se un dibattito politico parte da un servizio delle Iene, difficilmente ne uscirà fuori qualcosa di buono. È una regola di carattere generale, che vale anche in casi particolari—come quello del padre di Luigi Di Maio, Antonio Di Maio, accusato di aver pagato in nero alcuni operai della sua azienda edile.
Nel servizio andato in onda questa domenica, Salvatore Pizzo di Pomigliano D’Arco—un simpatizzante del M5S—ha raccontato di aver lavorato a nero nella Ardima Srl dal 2009 al 2010, trovando poi un accordo per farsi assumere con regolare contratto. Due anni dopo, le quote della società sono state divise tra l’attuale ministro del lavoro (che non ha mai avuto ruoli operativi nella società) e sua sorella Rosalba.
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Lo stesso Pizzo, parlando con La Zanzara, ha detto di aver denunciato il fatto dopo così tanti anni perché “ho avuto un diverbio con un grillino sui social” e “mi sono stufato di sentire sempre ‘onestà, onestà, onestà’.” In un altro servizio dell’inviato Filippo Roma si sono fatti avanti altri tre impiegati, che dicono di essere stati pagati in nero sempre nel periodo tra il 2008 e il 2010.
Subito dopo la messa in onda, Di Maio si è difeso su Facebook dicendo di non essersi mai “occupato dalla questioni di mio padre,” prendendo le distanze dal comportamento del padre che “ha fatto degli errori nella sua vita, ma resta sempre mio padre.”
La vicenda, piuttosto inevitabilmente, ha fatto tornare a galla quelle di altri due padri di altri politici, quelli di Maria Elena Boschi e Matteo Renzi.
I casi erano quelli di Banca Etruria e Consip: nel primo caso l’ex ministra era accusata di essersi interessata oltre il dovuto, parlando cioè con vari amministratori delegati e il presidente della Consob, alle sorti della banca in cui lavorava il padre (al punto tale che il direttore di Repubblica, Mario Calabresi, chiese un suo passo indietro); e nel secondo—in un’inchiesta tortuosa e piena di punti oscuri—era spuntato il nome di Tiziano Renzi, la cui posizione è stata archiviata lo scorso ottobre.
Per mesi e mesi—si ricorderà—Di Maio e gli altri avevano parlato di conflitti d’interessi e attaccato il governo Renzi su questi casi, che a loro dire dimostravano l’ipocrisia e l’inadeguatezza della classe dirigente renziana.
In un post del maggio del 2017, ad esempio, il vicepremier scrisse che Renzi e Boschi sono “le due facce dello stesso governo bugiardo che ha mentito agli italiani per proteggere gli affari di famiglia,” e arrivò addirittura a definire Boschi “il Mario Chiesa della seconda repubblica.” Alessandro Di Battista, dal canto suo, chiese ripetutamente le dimissioni di “Maria Etruria Boschi” perché avrebbe “mentito al Parlamento, al Paese, ai risparmiatori. Ti sei occupata di banche e sei bugiarda.”
Bene: di fronte al servizio delle Iene, il PD non ha perso l’occasione di rivoltare contro Di Maio lo stesso metodo impiegato contro di loro. In un post su Facebook, Renzi ha detto di rivedere “il fango gettato addosso a mio padre” e “la sua vita distrutta dalla campagna d’odio dei 5 Stelle e della Lega,” accusando questi ultimi di aver “ucciso la civiltà del confronto.”
Maria Elena Boschi, dal canto suo, ha pubblicato un video piuttosto livoroso in cui augura ad Antonio Di Maio “di non vivere mai quello che suo figlio [apostrofato come “ministro del lavoro nero”] e gli amici di suo figlio hanno fatto vivere a mio padre e alla mia famiglia.” In un altro post ha scritto di aver “subito un’aggressione mediatica senza precedenti” augurandosi che “i Cinque Stelle capiscano che la giustizia è una cosa diversa dal giustizialismo.”
Da lì in poi, la situazione è degenerata. Alessandro Di Battista, in diretta dal suo tour sudamericano, ha dichiarato che Renzi e Boschi “hanno la faccia come il culo per quello che sono riusciti a dire” sulla vicenda del padre di Di Maio. L’ex parlamentare ha inoltre descritto Boschi come “una delle gemelline di Shining,” concludendo che “il punto non sono i padri, chi se ne frega, il punto sono i figli.”
La stessa Boschi ha replicato nuovamente su Facebook, affermando quanto segue: “Leggendo le volgarità di Alessandro Di Battista capisco che in famiglia il fascista non è solo suo padre. […] Hanno scaricato quintali di fango su di me per mio padre, che non è mai stato condannato. E adesso giustificano chi sfrutta il lavoro in nero e fa i condoni.”
Tiziano Renzi, invece, ha chiesto “cortesemente” di “non essere accostato a personaggi come il signor Antonio Di Maio. […] Non ho capannoni abusivi, non ho dipendenti in nero, non dichiaro 88 euro di tasse. Sono agli antipodi dall’esperienza politica missina.”
Tra l’altro, anche il padre di Di Battista—il “fascista liberale” Vittorio, come l’ha definito il figlio—è intervenuto sulla querelle, prendendosela con “quegli svergognati che si sono buttati sul nero di casa Di Maio.” E sul caso si è pronunciato persino il padre del presidente del consiglio Giuseppe Conte, Nicola, dicendo che “il padre ha sbagliato, già si è pronunciato Di Maio, ha detto che il padre ha sbagliato. Che deve fare di più? Sono cose che capitano e sono capitate.”
Non vado avanti, perché penso che già da questa rapida scansione si capisca l’assurdità dell’intera polemica.
Detto ciò, da un lato è innegabile che negli anni scorsi il M5S si sia concentrato ossessivamente sulle questioni familiari—vere o presunte tali—dei propri avversari politici. Ed è dunque normale che, di fronte a sospetti di comportamenti simili, torni tutto indietro.
D’altro canto, non è per nulla credibile la frase di Matteo Renzi “non dobbiamo ripagarli con la stessa moneta.” Perché è esattamente quello che stanno facendo lui e una parte del PD, che hanno finalmente trovato l’occasione di consumare una vendetta a freddo—con tanto di richieste di dimissioni e tweet di questo genere.
Ovviamente, il punto non è la comparazione tra casi molto diversi tra loro: è il metodo politico e propagandistico utilizzato da entrambe le parti in causa. E questo metodo riflette alla perfezione lo scadimento generalizzato in cui è piombato il dibattito italiano.