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Torture, schiavitù, censure, violenze, discriminazioni: spesso pensiamo che certe cose accadano solo in determinate zone del mondo—il Medio Oriente, i regimi africani, alcune nazioni sudamericane o dell’estremo oriente.
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Eppure no, nemmeno l’Europa è il paradiso dei diritti umani. Né storicamente, né oggi. Anche per questa ragione, il nostro continente si è dotato – ormai 65 anni fa – di una Convenzione che definisce e tutela i diritti e le libertà fondamentali dei cittadini. Tanto in situazioni di emergenza, come guerre o dittature, quanto in tempo di pace.
A fare rispettare i dettami della Convenzione esiste dal 1959 un tribunale situato a Strasburgo, la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, incaricato di pronunciarsi sui ricorsi che possono essere presentati dai cittadini dei 47 stati che hanno ratificato il documento, alla conclusione delle procedure giudiziarie avviate nei paesi di appartenenza.
Dal 1 novembre 2015, a presiedere la Corte è il magistrato italiano Guido Raimondi, che nel 2010 era entrato in servizio come giudice sostituendo l’uscente Vladimiro Zagrebelsky. VICE News lo ha incontrato per discutere la situazione dei diritti umani nel nostro continente, soprattutto alla luce dei recenti eventi di Parigi e della crisi dei migranti che ha segnato l’agenda politica del continente durante tutto l’arco del 2015.
VICE NEWS: Presidente Raimondi, è evidente che anche l’attenzione della corte sia rivolta ai fatti di Parigi, dopo gli attentati del 13 novembre scorso. Questi eventi cambieranno qualcosa nel vostro modo di lavorare? Guido Raimondi: No, non direi. Ho aperto la riunione di lunedì scorso esprimendo il cordoglio della Corte per i tragici fatti di Parigi, insieme alle condoglianze rivolte alla delegazione francese. Alle 12, nella sede del Consiglio d’Europa, abbiamo tenuto un minuto di silenzio per esprimere unità e compassione per tutte le vittime degli attentati. La migliore risposta, la migliore forma di resistenza, è quella di continuare a lavorare per la democrazia e per i diritti dell’uomo.
In Italia, il Procuratore Antiterrorismo Franco Roberti ha spiegato che dobbiamo essere pronti a cedere una parte delle nostre libertà per aumentare e migliorare difesa e sicurezza. È quello che sta già succedendo in Francia e negli altri paesi europei. L’articolo 15 della convenzione dei diritti dell’uomo, in effetti, prevede deroghe straordinarie in caso di guerra o emergenze pubbliche. Il rispetto dei diritti fondamentali è a rischio, da questo punto di vista? Se alcuni stati ricorreranno all’articolo 15 della convenzione si tratterà di una scelta grave. L’Italia, pur avendo avuto a che fare con periodi storici difficili e preoccupanti, penso al terrorismo e agli anni di piombo, ma anche alla lotta alla criminalità organizzata, non ha mai fatto ricorso alla possibilità offerta dall’articolo 15. Gli stati tuttavia ne hanno diritto, e la Corte non deve esprimere giudizi sul ricorso a questo tipo di deroghe straordinarie, non deve entrare nel dibattito politico; quello che possiamo fare, e che certamente faremo, è continuare a esercitare con rigore il nostro controllo sul rispetto dei diritti fondamentali della persona umana.
La sicurezza dei cittadini, in ogni caso, resta un elemento prioritario e tale da giustificare, in casi eccezionali, le misure restrittive? Essendoci dei rischi per la sicurezza, a questi rischi deve fare fronte una protezione: il ricorso alle deroghe speciali dell’articolo 15 non inficia il dovuto rispetto dell’articolo 2, quello che protegge il diritto alla vita e impone il dovere per gli stati di proteggere l’incolumità fisica dei cittadini. Tutto quello che i governi fanno per la sicurezza, dunque, risponde a una serie di obblighi precisi imposti dalla convenzione.
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Anche la situazione dei rifugiati in potrebbe dare vita, forse, a un’anomalia sistemica. Alcuni stati, tra cui l’Italia, hanno adottato pratiche al limite del rispetto dei diritti umani—come, ad esempio, i respingimenti in mare. Dobbiamo aspettarci un numero imponente di ricorsi alla Corte ‘legati’ all’attuale crisi migratoria? Sul tema migranti la Corte si è già espressa in diverse sentenze. Ne cito due molto importanti, ‘M.S.S. contro Belgio e Grecia‘ e ‘Hirsi Jamaa contro l’Italia‘: la prima riguarda le condizioni di accoglienza, la seconda invece la prassi dei respingimenti in mare dei migranti [che la Corte ha valutato come una violazione dei diritti dell’uomo, ndr]. Con la crisi più recente la Corte è stata nuovamente sollecitata, in alcuni casi con provvedimenti urgenti. La grande ondata di ricorsi non è ancora arrivata ma non è escluso che arrivi: la situazione di molti di questi migranti è al momento all’esame degli organismi nazionali che si occupano dello status dei rifugiati. Di conseguenza, immagino che quando queste procedure saranno concluse, avremo un arrivo abbastanza massivo di ricorsi.
Nei casi di espulsioni o estradizioni, la Corte si preoccupa anche della situazione dei diritti umani dei paesi di destinazione, se questi sono esterni ai 47 stati che hanno sottoscritto la Convenzione?
La competenza della corte è limitata al nostro continente, ma la situazione dei diritti umani al di là delle frontiere europee non è per noi irrilevante. Se c’è il rischio di espulsione di una persona in un paese in cui i diritti umani non sono adeguatamente protetti, oppure di una estradizione verso un paese in cui rischia un trattamento contrario all’articolo 3 della Convezione – trattamenti disumani o degradanti – in questo caso la corte ne tiene ovviamente conto, anche se il paese non è parte contraente del documento.
Questo dal punto di vista giuridico. Dal punto di vista politico, qual è il vostro ruolo verso il resto del mondo? Dal punto di vista politico, sottolineo come l’esigenza di continuare a proteggere efficacemente i diritti fondamentali sul nostro continente abbia un valore ancora più grande, proprio perché purtroppo si verificano violazioni gravi o gravissime dei diritti fondamentali al di fuori dei nostri confini.
Sono trascorsi 60 anni dal 1955, l’anno in cui l’Italia ha ratificato la Convenzione e dunque ufficialmente fatto il suo ingresso sotto la ‘giurisdizione’ della Corte, che sarebbe poi nata quattro anni più tardi. Dal 1957 a oggi, al nostro paese sono state riconosciute oltre 1700 violazioni, rendendoci il quarto paese con la ‘fedina penale’ più sporca. Come mai, dal suo punto di vista? È innegabile che il numero sia molto elevato. Tuttavia, la gran parte dei ricorsi riguarda un difetto di funzionamento del nostro sistema giudiziario; non so se può essere un elemento di consolazione… Il problema è rappresentato dalla eccessiva lunghezza dei processi, un problema endemico.
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E la legge Pinto, che dovrebbe garantire al cittadino il diritto di richiedere un’equa riparazione per il danno in caso di un processo dalla durata irragionevole? La legge Pinto ha portato a un ingolfamento dei giudici italiani competenti, ovvero le corti d’appello, e causato una crisi finanziaria, visto che il costo di questi indennizzi è davvero molto alto. Come conseguenza, queste difficoltà si ripercuotono anche da noi a Strasburgo. Diventa un circolo vizioso, una catena infernale. Ora il governo sta almeno cercando di arginare il problema proponendo regolamenti amichevoli, cioè transazioni economiche, in buona parte dei casi che sono pendenti presso la nostra Corte e che riflettono il difetto di funzionamento della legge Pinto. Il governo attuale ha annunciato delle riforme, speriamo che questa volta l’azione sia efficace per produrre il risultato sperato.
Dobbiamo considerarci ‘fortunati’ che i casi riguardanti l’Italia, per quanto assai numerosi, riguardino un tema burocratico e non violazioni più gravi dei diritti umani? Certamente da una parte è una considerazione che rassicura, perché non si parla di torture o altri crimini. Ma non bisogna banalizzare la difficoltà di funzionamento dell’ordinamento giuridico e dell’efficienza del sistema giudiziario—affinché si possa garantire efficace protezione ai cittadini, occorre che ci sia uno stato di diritto funzionante. Detto questo, se i miei colleghi hanno deciso di votare un italiano, un po’ di stima per il nostro sistema giuridico nazionale ci deve pur essere… altrimenti non avrebbero eletto me. [ride]
I paesi con il maggior numero di ricorsi presentati alla Corte sono Russia, Turchia e Ucraina. Come mai, secondo lei, la Russia primeggia in questa non certo lodevole graduatoria? Qual è il motivo principale di tutti questi casi? È sempre pericolo fare delle classifiche e delle valutazioni, perché citando un caso se ne esclude un altro, ma direi che la situazione delle carceri in Russia rimane la principale fonte dei ricorsi. Sul numero di procedimenti russi, posso dire che è stabile nel tempo; da un lato, forse, anche perché si tratta del paese più popoloso.
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E la Turchia? I casi dalla Turchia, al contrario, sono in diminuzione. Questo avviene perché lo stato, due anni fa, si è dotato di una commissione interna che giudica sui casi di persone insoddisfatte dall’esito o dalle modalità dei processi che le hanno viste coinvolte.
Detta così sembra un vantaggio, ma non c’è il rischio che mantenendo tutti i gradi di appello interni al paese, il controllo sugli esiti delle sentenze rimanga vittima di censure e controlli? È ancora presto per giudicare: il sistema è nato da due anni e bisogna poi vedere se funzionerà bene. Ovviamente però chi rimane insoddisfatto può appellarsi comunque a noi, la nostra Corte resta aperta ai cittadini turchi.
Con una sentenza nel 2001, la Corte confermò la messa al bando di un partito politico islamista in Turchia, il Refah Partisi. Nella sentenza dichiarò che “l’istituzione della legge della sharia e di un regime teocratico è incompatibile con le necessità di una società democratica.” Nello scenario attuale, quanta forza assume una affermazione del genere? Un precedente della corte mantiene il suo valore e la sua forza nel tempo, e senza dubbio la corte potrebbe essere confrontata in futuro su decisioni simili—scioglimento di formazioni, associazioni e partiti che presentano caratteristiche incompatibili con i valori protetti dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo.
Lei prefigura un aumento di cause e processi su queste tematiche in futuro? Su questo la Corte non ha fatto nessuna previsione ed è bene che non ne faccia—deve mantenersi serenissima sulla questione.
La corte permette anche i ricorsi tra stato e stato. Con quale frequenza si verificano scenari di questo tipo? Le cause intestatali sono davvero pochissime rispetto alle decine di migliaia di ricorsi presentati dagli individui. Tuttavia, i conflitti degli ultimi anni hanno portato a un certo incremento dei ricorsi tra stato e stato. Attualmente, abbiamo pendenti ‘Georgia contro Russia’ e ‘Ucraina contro Russia’.
Cosa cambia rispetto ai ricorsi presentati dai cittadini? A differenza dei ricorsi individuali, che possono essere rivolti soltanto agli stati che hanno sottoscritto la convenzione, ai ricorsi degli stati non viene applicata nessuna clausola opzionale. E lo stato che riceve il ricorso non può sottrarsi ad esso, non c’è una possibilità di opt-out.
Perché sono usati così raramente, secondo lei? Proporre un ricorso tra stati è una decisione politicamente pesante, non viene mai presa alla leggera. Questo è quello che posso dire da osservatore esterno.
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Tutte le fotografie sono state pubblicate nell’archivio immagini del Consiglio d’Europa.