Cibo

Cosa significa scrivere di cibo quando soffri di disturbi alimentari

Questo post fa parte della Guida di VICE alla salute mentale, realizzata da VICE e MUNCHIES in collaborazione con Progetto Itaca in occasione della Giornata mondiale per la salute mentale.
Puoi vedere tutti gli articoli della serie qui.

“Vuoi fare la giornalista gastronomica? Non hai paura di ingrassare?”. Se potessi tornare indietro, davanti alla me 21enne che riceve questa domanda, le direi le seguenti cose. La prima: il ragazzo biondo che ti sta facendo questa domanda è solo il primo di una serie di biondi sfigati che frequenterai. Mollalo subito. La seconda: dì la verità. La verità è che tu hai una paura fottuta di ingrassare.

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A 21 anni ho iniziato a scrivere a titolo sommamente gratuito per alcuni siti di cucina. Nel giro di un paio d’anni, superando ogni mia più rosea e arrischiata aspettativa, queste collaborazioni si sono trasformate in un lavoro vero e proprio. Scrivere di cibo comporta il mangiare fuori tanto. Tantissimo. Affrontare menu di ventiquattro portate. Degustare batterie di vini. Venire costantemente spinti ad assaggiare, a ‘Prova questo’ e ‘Se non lo finisci mi offendo – non era buono?’.

Ho smesso di fare la spesa: le rare volte in cui mangiavo a casa tappavo i buchi della fame con il tonno scondito sforchettato direttamente dalla scatoletta.

I primi tempi, quando mi sono trasferita a Milano, ero entusiasta di questo paese di Bengodi: partecipavo a a ogni inaugurazione, accettavo ogni invito stampa, mi sciroppavo cene interminabili senza battere ciglio. Faccio il lavoro dei miei sogni e mi pagano per mangiare tutta questa roba? Wow.

La verità, però, è che ero cosciente di mangiare molto di più, sempre di più, rispetto a quanto ero abituata. E la cosa mi terrorizzava. Il giorno dopo un evento gastronomico non mangiavo, oppure mi cibavo delle carotine crude del supermercato. Ho smesso di fare la spesa: le rare volte in cui mangiavo a casa tappavo i buchi della fame con il tonno scondito sforchettato direttamente dalla scatoletta. Ho smesso di accettare gli inviti a cena degli amici oppure, se lo facevo, io prendevo l’insalata mentre tutti ordinavano la pizza. Ma il peggio l’ho riservato ai miei genitori: quando tornavo a casa a trovarli, ogni due/tre settimane, mi chiudevo subito in bagno, dove c’era la bilancia. Se constatavo – con un sospiro di sollievo e la morsa che mi lasciava lo stomaco – di non essere ingrassata, cenavo con loro serena, godendomi i piatti che aveva preparato mia madre dietro mia stretta indicazione: solo verdure mamma, no pane, no pasta e al massimo proteine magre. Altrimenti sbocconcellavo di malavoglia, senza nemmeno ascoltare le loro chiacchiere, pensando ossessivamente a una sola cosa: “Sto ingrassando. Sta accadendo. Sapevo che sarebbe successo”.

Arrivavo a fare sogni in cui mangiavo un dolce, o non mi controllavo davanti a un buffet, e mi svegliavo piangendo dai sensi di colpa.

La mia passione per il cibo è nata a diciannove anni, mentre iniziavo il lungo e faticoso percorso di guarigione da due anni di anoressia. Ero arrivata a pesare trentotto chili – un peso che, pure per una nanetta come me, è borderline per l’ospedalizzazione. Ci ho messo anni a capire che fosse davvero anoressia, a chiamarla con il suo nome: dopotutto non vomitavo, non mi abbuffavo, non svenivo né facevo tutte quelle cose che mi avevano sempre detto facessero le ragazze anoressiche. Semplicemente non mangiavo, riducendo al minimo il mio apporto calorico e pensando ossessivamente, costantemente, a come non mangiare o a come bruciare le calorie in surplus che avevo disgraziatamente ingerito. Arrivavo a fare sogni in cui mangiavo un dolce, o non mi controllavo davanti a un buffet, e mi svegliavo piangendo dai sensi di colpa e constatando con sollievo che era solo un sogno, che non avevo mangiato davvero tutta quella roba.

I dati emersi dall’ultimo World Eating Disorders Action Day, lo scorso 2 giugno, parlano di 3 milioni di persone solo in Italia che soffrono di disturbi alimentari. ‘Disturbi alimentari’ è un cappello ampio per una serie molto sfaccettata di problemi con il cibo che non sono sempre riconducibili al classico stereotipo dell’adolescente sottopeso che si provoca il vomito nel bagno della scuola. Si fatica ancora a capire cosa siano, i disturbi alimentari, e si fa fatica a diagnosticarli. Io ho avuto la fortuna di avere una famiglia che all’epoca definivo soffocante e che ora definirei semplicemente piena d’amore: non si sono arresi davanti al mio progressivo scivolare in una spirale di controllo ossessivo, davanti a quella figlia adolescente che diventava sempre più magra ma soprattutto più arrabbiata, nervosa, insicura, palesemente infelice.

L’ex anoressica che scrive di cibo! Cibo malattia e cura! Ah, che incredibile narrazione di caduta e risalita

Dopo la maturità mia madre mi ha messo davanti a un’alternativa: o ricominciavo a mangiare o mi mandava in clinica. Ho ricominciato a mangiare, in quantità e modalità definibili come ‘normali’. Lei ha assecondato la mia riscoperta del cibo – cucinando per me, portandomi al ristorante, comprandomi libri – e il cibo è diventato la mia cura: ho scoperto quanto mi appassionasse quel settore gastronomico che proprio allora stava esplodendo. Ho raggiunto quello che il dottore definiva il normopeso minimo da mantenere. E ho deciso che mi sarebbe piaciuto fare la giornalista gastronomica – avevo una storia da raccontare, no? L’ex anoressica che scrive di cibo! Cibo malattia e cura! Ah, che incredibile narrazione di caduta e risalita. Peccato che non fossi risalita da nessuna parte.

Chi ha sofferto di disturbi alimentari sa che non basta raggiungere un peso ‘sano’ per essere sani. Ma soprattutto che è qualcosa che ti definirà per sempre: se sei stato alcolista sarai sempre un ex alcolista, se sei stata anoressica sarai sempre un’ex anoressica. Una volta che hai imparato a memoria le calorie di praticamente tutti gli alimenti base della dieta occidentale non puoi semplicemente dimenticarle. Però, c’è un però, la cosiddetta fase di recovery esiste. Solo che io non l’avevo raggiunta. Da fuori ero una giornalista gastronomica che saltellava da un evento all’altro, faceva foto di hamburger succulenti e predicava le delizie delle acciughe del Cantabrico con il burro salato. Da dentro, cercavo di capire quanti grammi pesasse quel burro, e sfrondavo sempre di più la mia vita sociale al di fuori del lavoro per non essere costretta a mangiare ancora. Il mio corpo esisteva in funzione del lavoro: mangiavo per lavoro, mi sottoponevo ad estenuanti tour de force gastronomici. Non sapevo più cosa fosse il piacere.

Perché nessuno se n’è accorto, è la domanda? Perché il mio comportamento sembrava assolutamente legittimo a tutte le persone vicine a me? Perché in pochi ambienti come in quello del giornalismo gastronomico ho trovato un rapporto malsano con il cibo. Il lavoro di un giornalista gastronomico è estremamente impattante sul corpo, sarebbe inutile negarlo. Se si vuole conoscere, esplorare, lavorare, si deve mangiare. Se si deve mangiare a quei ritmi e in quelle quantità, si prende un po’ di peso. È fisiologicamente inevitabile. Capita a tutti all’inizio del mestiere. Ho visto una serie così lunga di rapporti disfunzionali con il cibo da parte delle mie colleghe che non saprei nemmeno da che parte cominciare a elencarli.

Ho visto giornaliste che affermavano di non pranzare mai, mai, di aver consapevolmente scelto di rinunciare a un pasto al giorno, imponendosi quotidianamente faticose ore di digiuno per poter poi mangiare di più a cena.

Perché parlo solo di colleghe, al femminile? Oltre il 90% delle persone che soffrono di disturbi alimentari sono donne. Anche in un settore come quello gastronomico le donne sovrappeso sono relativamente poche, le altre sono tutte in forma o addirittura molto sottopeso. Non sto dicendo che ci sia qualcosa di sbagliato in sé nell’essere in forma. Sto dicendo che uomini e donne vivono il rapporto con il cibo in maniera diametralmente opposta. Non parlo per stereotipi e luoghi comuni, parlo delle persone che ho conosciuto, delle storie che ho ascoltato. Gli uomini tendono a prendere un po’ (o anche molta) pancia, dicono che dovrebbero andare a correre o svegliarsi presto per andare in bicicletta, scherzano un po’ sulla perdita della tartaruga, e poi tornano a riempirsi il piatto di fiori di zucca fritti con la consapevolezza che la suddetta pancia, o il modo di portarla, non influisce minimamente sul loro fascino – o sulla mancanza di – e sul loro modo di vivere il rapporto con il loro lavoro, con le relazioni sessuali e sentimentali, con la vita. Le donne, invece. Le donne sono tutta un’altra faccenda.

Ho visto giornaliste che mangiavano solo metà piatto – metodicamente, implacabilmente, incuranti dello spreco, se il piatto fosse più o meno buono, se chi preparava la cena per loro potesse o meno offendersi. Ho visto giornaliste che affermavano di non pranzare mai, mai, di aver consapevolmente scelto di rinunciare a un pasto al giorno, imponendosi quotidianamente faticose ore di digiuno per poter poi mangiare di più a cena. Ho visto giornaliste che barattavano gli alcolici con il cibo, ubriacandosi subito e il più velocemente possibile e poi ignorando il cibo che arrivava a tavola. Ho visto influencer e blogger pubblicizzare diete o beveroni detox senza la minima nozione nutrizionale, incuranti se il loro messaggio arrivasse alle ragazzine. Ma soprattutto ho visto l’ansia nei loro occhi, l’angoscia di chi si vedeva offrire altre calorie, l’agitazione di chi ha fame ma si nega il cibo; le ho viste e le ho riconosciute, perché le vivevo anche io.

Mi ripeto ancora: so che è un lavoro impattante per il corpo e più in generale per il benessere psicofisico, così come lo sono altri lavori – forse che le diete estreme di un atleta, o i dodici voli settimanali presi da un manager internazionale, o le infinite cene di rappresentanza di un politico, valgono meno? Ognuno deve ricercare il suo equilibrio e sono la prima a sostenere l’importanza di uno stile di vita sano e di un’attività sportiva regolare. Ma quello di cui sto parlando è un rapporto alienante con il cibo, visto solo come fonte di paure e ansie che bisogna subire in quanto lavoro. Sono queste le persone da cui vogliamo che il cibo venga raccontato?

Quando parlo dei miei disturbi alimentari ne parlo al passato. Perché? Perché nell’ultimo paio di anni per me sono cambiate tante cose. Ho iniziato a leggere, a informarmi, a seguire il movimento body positive e a studiare l’intuitive eating – due cose, queste ultime, di cui purtroppo al momento potete leggere solo da fonti inglesi. Ho iniziato a dire molti no: a cene, a eventi, alle cose a cui non mi interessava partecipare. Ho ricominciato a uscire a cena con i miei amici e a cercare di capire cosa volessi davvero mangiare, a prescindere da quanti carboidrati sentissi di meritarmi quel giorno – a guardare di nuovo la sezione dei Primi Piatti dopo anni in cui automaticamente spulciavo subito quella dei secondi perché sapete, i carboidrati. I miei genitori si sono letteralmente commossi la prima volta che, tornata a casa, ho proposto di prendere la pizza e non ho chiesto le solite verdure al forno.

Mi sono riappropriata della mia fame, del mio diritto ad avere fame e a vivere il cibo come piacere, nutrimento, o anche solo semplice accadimento della vita, e non come qualcosa da misurare e controllare ossessivamente. Ho iniziato a (provare a) volere bene al mio corpo, a smettere di pesarlo e a mettere in pratica ogni giorno tutte le nozioni di cui prima mi limitavo a riempirmi la bocca senza applicarle: che il mio valore non risiede solo nella circonferenza delle mie cosce, che i canoni di bellezza contemporanei sono frutto di un contesto socioculturale molto specifico e molto problematico, che il mio corpo è un vascello, uno strumento, un compagno di viaggio. Ma non è tutta me stessa.

Ho ancora tanta strada da fare? Tantissima. Ci sono i momenti no, le giornate no, le settimane no. Ma ho un rapporto nei confronti del cibo più sano, rilassato e piacevole di quanto abbia avuto in anni. E questo paradossalmente significa rifiutare molte occasioni professionali: degustazioni, cene, viaggi. Non perché abbia paura del cibo che dovrei ingurgitare. Ma perché spesso non mi va di essere circondata da quel rapporto malsano, sgradevole e – per me – potenzialmente innescatore di comportamenti sbagliati nei confronti del cibo. Preferisco uscire a farmi una pizza con i miei amici.


Progetto Itaca è un’associazione di volontari per la salute mentale. Se hai bisogno di aiuto o vuoi entrare in contatto con loro, chiama il numero verde 800 274 274 (02 29007166 da cellulare) o scrivi una mail a info@progettoitaca.org.

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