Ricordo la prima volta che ho visto la lotta femminile giapponese. Ero in un hotel a Tokyo, stavo facendo zapping, ed ecco che mi becco queste due donne che urlano come pazze mentre cercano di rompersi le braccia a vicenda. Sembravano selvagge, e ben più incazzate delle loro colleghe americane, che sono solitamente piuttosto sexy, un po’ alla She-Ra.
Il documentario Gaea Girls, uscito nel 2000, mostra, con uno sguardo impassibile, i brutali allenamenti fisici e gli abusi psicologici a cui queste donne devono sottoporsi per prepararsi ai loro match di debutto. Ambientato nelle baracche dell’omonima compagnia di wrestling, si concentra sul percorso di Takeuchi, alias Chibi (traduzione approssimativa: piccola bambina/nana), seguendo l’attività di “incoraggiamento” dei suoi allenatori e amici, che, picchiandola duramente, la incitano ed “educano” alla sua carriera di lottatrice; da parte sua, lei implora (letteralmente) perché continuino—mentre il tutto avviene sotto la supervisione di Nagaya Chigusa, una irriducibile superstar disturbata con seri problemi di paternalismo.
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Kim Longinotto è una regista di documentari, nota per dare largo spazio al mondo femminile e ritrarre tutte quelle donne che rifiutano l’omertà e decidono di reagire alla propria condizione sociale: ragazze keniote che si oppongono alla circoncisione, donne camerunensi che divorziano dai loro mariti violentatori, teenager iraniane maltrattate scappate di casa. L’ho incontrata mentre stava montando il suo ultimo film; abbiamo fatto due chiacchiere sulle ragazze Gaea e sulla realizzazione di documentari. Mi ha fatto una fetta di toast con Marmite, e una tazza di te’.
Vice: Allora come è nato Gaea Girls?
Kim Longinotto: Be’, questo era il quinto film che giravamo in Giappone, ed abbiamo pensato di fare qualcosa che parlasse di donne giapponesi che fanno qualcosa per se stesse, e le ragazze Gaea sono semplicemente molto belle. Sono donne potenti, belle, di talento, e piene di capacità. Ed è proprio una forma d’arte, sai, quando saltano giù da un lato e fanno una capriola in aria e atterrano in maniera impeccabile. Cioè, se atterri nel posto sbagliato anche solo di mezzo centimetro, puoi uccidere qualcuno, e loro sono veramente delle atlete bravissime, ma nel complesso è stato un film veramente difficile da realizzare.
Difficile in che senso?
Sul piano emotivo. Ho sofferto mentre filmavo alcune parti. Voglio dire, mia mamma guardava gli incontri di lotta libera, quando ero piccola, e anche se mi diceva che era tutto preparato, io lo trovavo veramente difficile. È la sofferenza, si tratta di sofferenza.
Chibi
Del fatto che è tutto coregrafato non si parla mai nel film.
In effetti sei ci fai attenzione, riesci a capire quali lotte sono preparate in anticipo. La roba in palestra non è mai organizzata, come tutte quelle lotte tra Chibi e Satomura, mentre cercano di far crescere in Chibi l’istinto omicida, provando a farla diventare aggressiva, quello non è costruito. Lei vuole essere qualcuno, essere una star, e loro vogliono che diventi una lottatrice. E vogliono che lei faccia male all’altra persona e che voglia vincere. È qualcosa che le si vede negli occhi. Satomura, per esempio, è ormai completamente inserita in quell’ottica.
Nagaya Chigusa
Chibi piange molto spesso nel film. Nel wrestling americano si direbbe che le ragazze amano la violenza, più o meno, in questo caso sembra più che altro che lei agisca in un certo modo solo per dimostrare qualcosa a se stessa.
Mi chiedevo, “Perché Satomura è così arrabbiata con Chibi?” Ed è perché non mostra aggressività, non dimostra che le piace. Satomura pensa che se sei così all’inizio, la gente ti prenderà in giro perché non ti stai ponendo come una lottatrice. In pratica, o ce l’hai o non ce l’hai, e se non ce l’hai, ti lasciano debuttare comunque, perché non c’è nessun altro. Quindi quando poi lotta, ovviamente, perde. Avrebbe potuto vincere quella lotta, non credo fosse organizzata, ma comunque questo non è il tipo di cose che puoi chiedere a Gaea, perché ti direbbero che niente è costruito.
Posso capire perchè Chibi volesse diventare una lottatrice. Diceva sempre, “Sono così belle, voglio essere così anche io.” E quando alla fine si fa fare la foto, dopo il suo debutto, che è il suo grande trionfo anche se ha perso… Lo trovo incredibilmente triste. Posa con la famiglia e le dicono tutti, “Ce l’hai fatta, ce l’hai fatta!” e si vede che sa di essere la stessa Chibi di prima e di non essere cambiata. Non è durata molto, dopo. È finita a lavorare in una stazione di benzina.
Anche quando passa il test che le permette di debuttare, sta ancora piangendo e non sembra troppo felice, perché sa di non meritarlo e che non ha grande importanza, dopo tutto.
Penso questo valga per tutti noi. Quando ero all’università volevo essere la ragazza più popolare della scuola ma ero una di quelli che sono sempre degli outsider e non si integrano mai completamente. Quando ho vinto la coppa di tennis, ho pensato, diventerò la ragazza più amata della scuola, perché avevo vinto. Quando sono andata a ritirarla, nessuno applaudiva neanche perché ero sempre io, se capisci cosa intendo dire…
Arrivi mai al punto in cui vuoi solo mettere giù la telecamera e intervenire per fare qualcosa? Sto pensando a quando Takeuchi sta facendo il test e Nagaya la prende a pugni in faccia a ripetizione.
Quella è stata l’unica volta in cui ho sentito che le cose erano un po’ fuori controllo. C’era qualcosa di strano tra le due. Nagaya dice di pensare alle ragazze come sue figlie, e il problema è che quando si è genitori si ha il potere assoluto, e ci sono persone che fanno cose orribili ai loro figli. C’era qualcosa di strano su quel ring e ricordo che pensavo, ma quanto andrà avanti questo strazio? E infatti arriva il punto in cui non puoi più continuare a filmare.
Satomura e Chibi
Stare dietro la macchina da presa ti aiuta a tenere le distanza da quello che vedi?
A volte. Ricordo il film di un cameraman a Gaza, e lo vedi filmare la sua stessa morte. Un soldato israeliano gli punta contro una pistola e lui lo filma e poi viene colpito. Alcune volte pensi che stai filmando e che sei in uno spazio diverso, distaccato. Ma con Chibi era diverso perché ho cominciato a volerle bene, mi identificavo in lei ed è per questo che è stato un film difficile; soprattutto la parte finale è stata difficile da filmare.
Se finisci per voler bene ai tuoi personaggi, come gestisci il contrasto con il tuo desiderio di fare un ritratto realistico di quello che succede?
Male, in realtà. E penso che Gaea Girls sia stato un punto di svolta. In questo film non c’è alcun senso dell’oggettività, tutto è visto tramite gli occhi delle ragazze nel film.
Quindi quando vai a fare un film, hai un progetto particolare? Qualcosa a metà fra documentare quello che succede e promuovere una determinata causa? Perché una cosa tipo Sisters in law sembra veramente promuovere quello che fanno.
Non chiederei mai a nessuno di fare niente, ma quando trascorri tre mesi in un posto e ogni giorno dai tutta te stessa, devi veramente avere passione ed interesse per quello che stai facendo. E noi eravamo felici di essere dalla parte di Amina [una donna che tenta di divorziare dal marito che la picchia e la violenta], non volevamo che tornasse e venisse uccisa ed eravamo contenti di essere lì ad incoraggiarla, e credo sia per questo che abbia vinto. Penso che la nostra presenza le abbia permesso di portare avanti la cosa fino alla fine, altrimenti sarebbe stata solo una strana coincidenza, il fatto che mentre eravamo lì ben due casi giudiziari sono stati vinti da una donna, cosa che non accadeva da 18 anni.
Quindi in un certo senso sei diventata più un’attivista che una relizzatrice di film, no?
Non proprio. Tutto il rischio, e l’energia, e la sofferenza che devono sopportare, dobbiamo solo essere lì e filmarlo. Essere dei testimoni. Quello che fanno è incredibilmente coraggioso, stanno rompendo tutte le regole e i tabù.
Nei tuoi film vengono spesso ripresi bambini che raccontano le proprie esperienze traumantiche, come in Sisters in Law la ragazzina che era stata violentata. Cosa ti aspetti pensino gli adulti, se vedessero certe scene?
Be’, nel caso di quella bambina, Sonita, l’intero villaggio era a conoscenza della vicenda perché era seriamente ferita e le donne sono tutte uscite con una bacinella e c’era sangue dappertutto, poi c’è stato anche un grande processo, quindi non c’è modo che lei dimentichi quell’esperienza o che rimanga una cosa privata. E vinse il processo, ed era il primo caso del genere. Quell’uomo lo aveva fatto per anni ed anni facendola franca. Io non la vedo tanto come una vittima, ma più che altro come una persona coraggiosa che ha portato avanti un processo difficile, qualcosa di cui dovrebbe essere fiera. Sono convinta che il problema, in questo paese, sia il senso della vergogna, che è come rovesciato: quando una donna viene violentata, qui, è lei a sentirsi umiliata, non il contrario. Ed è sbagliato, chiaramente. Non capisco. Quando io sono stata violentata, sono stata anche picchiata piuttosto brutalmente, e ricordo che la gente mi chiedeva cosa fosse successo ed ho pensato, non voglio cominciare a mentire, io non ho fatto niente di male, è ridicolo. E penso anche che spesso i bambini siano sottovalutati perché Sonita era veramente fiera di quello che ha fatto; e in effetti ha fatto una cosa grandiosa.
Immagine da Sisters in law
Hai mai avuto dei problemi di censura? Nei tuoi film ci sono spesso scene molto forti.
Una volta avevamo una proiezione del film Sisters in Law in Sud Africa e un uomo dal pubblico si è alzato in piedi dicendo, “Come potete mostrare Sonita in quel modo? È una vergogna, la ragazza è stata violentata.” Ma poi un sacco—un sacco—di donne si sono alzate ed hanno detto, “Anche noi siamo state violentate, e lo stiamo dicendo a tutti.” Penso sia un modo di pensare vecchio, forse del XX secolo. Penso che le cose stiano cambiando.
E come credi stiano cambiando i documentari? La loro popolarità è cresciuta negli ultimi dieci anni, anche grazie a diverse uscite cinematografiche. Quali pensi siano i motivi?
Credo sia perché oggi i registi lavorano in modo diverso. Eravamo abituati a quei documentari-commentari, un po’ noiosi, ma comunque costruttivi, con tutti quei fatti e quelle statistiche… solo un po’ deboli. Ed ora la linea divisoria tra opera di finzione e realtà è sempre meno netta perché puoi essere divertito, commosso, è un’esperienza emotiva, ed hai una finestra verso un nuovo mondo, in cui puoi immergerti come fai con la fiction.
STU LONDON