Nei romanzi di Salman Rushdie, gli imperatori Moghul creano le mogli sognandole, e uomini che sono sopravvissuti alla caduta da un aereo in volo sognano biografie eretiche di Maometto. Quest’ultimo sogno, quello de I versi satanici, è passato dal mondo della finzione a quello della realtà nel 1989 per intercessione dell’Ayatollah Khomeini, che l’ha dichiarato “contro l’Islam, contro il Profeta, e contro il Corano,” e ha invocato una fatwa, una condanna a morte per lo scrittore.
I sogni reali di Rushdie non hanno niente di quel potere. “Molto noiosi,” li descrive l’autore stesso, sorseggiando un caffè nella Russian Tea Room di New York. “Mi sento come se consumassi il mio ‘filtro dei sogni’ tutti i giorni, col mio lavoro, così i miei sogni sono robe tipo: mi sveglio al mattino e leggo il Times, o mi sveglio, mi alzo e vado a fare due passi.” Ha aggiunto, “Dormo sempre benissimo.”
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Erano da poco passate le cinque e mezza di un giorno infrasettimanale di luglio, e Rushdie aveva passato gli ultimi mesi in quell’esistenza sotterranea tra quando hai finito un libro e quando viene pubblicato. Mi aveva concesso due ore, e le stavamo passando tra i drink e gli snack su uno degli iconici divanetti in pelle rossa del ristorante. La Russian Tea Room, da tempo nota come il posto dove una nutrita e varia schiera di pezzi grossi si riunisce per fare a chi ce l’ha più grosso—Rushdie ricordava di essere stato corteggiato lì dal suo agente a metà anni Ottanta—era, al nostro arrivo, praticamente vuota. Il locale adorno di antichi samovar sembrava un mausoleo dedicato alla decadenza e all’ostentazione. Candelabri ornati di festoni da albero di Natale stavano appesi a fenici dorate che volavano in mezzo ai cornicioni del soffitto.
Il romanziere di origini indiane, 68enne, si avvicinava con una specie di allenata compostezza, quel tipo di misura protettiva che si può immaginare una persona ‘pubblica’ utilizzi per proteggersi. Ma sembrava possedere anche una certa delicatezza di cui le sue mani—piccole e quasi fragili—erano emblematiche. Esitavo a stringerle. Ero anch’io nervoso a parlargli. È l’uomo che ha scritto alcuni dei miei romanzi preferiti. Ed è anche uno su cui ne senti delle belle. Tre persone diverse—ma nessuna l’aveva mai incontrato davvero—mi avevano messo in guardia, era un po’ un coglione. Qualcun altro aveva dichiarato di conoscere qualcuno che aveva avuto uno scambio di fuoco con lui via email, o forse via messaggio, che forse o forse no riguardavano qualche emoticon inadatta a un romanziere pluripremiato e Cavaliere dell’Ordine dell’Impero Britannico.
Mentre Rushdie finiva il suo caffè, gli ho chiesto com’è essere oggetto delle storielle della gente, spesso piuttosto note al pubblico. “Francamente non me ne frega nulla,” mi ha risposto. “Sono molto fortunato ad aver avuto successo come scrittore. La gente ha risposto positivamente al mio lavoro, e questo mi ha garantito una bella vita.”
Anche se non gli interessa quello che si dice in giro di lui, Rushdie—che durante il nostro incontro non si è mai comportato da coglione—lavora con il costante, istintivo bisogno di narrazione dell’umano. “Mi ha sempre stupito,” mi ha detto, “il fatto che quando i bambini si sentono amati e appagati chiedono di sentire una storia. Se hanno un tetto sulla testa, uno dei loro primi bisogni è, ‘Raccontami una storia.’ Non vogliono che tu dica, ‘Ti racconto di tua nonna quando era giovane.’ ‘C’era una volta’ è quello che vogliono sentire.”
Come raccontiamo le storie e perché ne abbiamo un tal profondo bisogno sono le domande al cuore dell’ultimo libro di Rushdie, Due anni, otto mesi e ventotto notti. Il romanzo, il suo dodicesimo, racconta di un conflitto quasi apocalittico che ai giorni nostri si scatena tra gli uomini e i jinn, creature mitiche che il Corano descrive “fatte di fuoco senza fumo” e che vivono in un mondo, scrive Rushdie, “separato dal nostro con un velo.” Due anni, come lo abbrevia Rushdie, raccoglie le fila della tradizione novellistica dell’India e del Medio Oriente—dal Kathâsaritsâgara al Hamzanama al Pañchatantra alle Mille e una notte. Il suo fascino per questi libri, peraltro pieni di jinn, dura dall’infanzia e ha influenzato i suoi scritti almeno fin da I figli della mezzanotte del 1981. E in Due anni è più forte che mai, fin dal titolo, che corrisponde a 1.001 notti.
Rushdie ha cominciato il romanzo dopo la pubblicazione di Joseph Anton, la sua autobiografia del 2012, scritta in una terza persona alla Henry Adams. “Ho avuto un forte contraccolpo emotivo quando ho finito di scriverla,” mi ha detto. Ha sentito l’esigenza di “tornare alla finzione della narrativa.”
È arrivato il cameriere e abbiamo ordinato da mangiare—Boršč freddo per me e crespelle alla carne per Rushdie. Ho chiesto una vodka, limpida e fredda—quella che il Principe Vladimir, come poi lo scontrino mi ha detto chiamarsi il nostro cameriere, consigliava. Rushdie mi ha seguito e ha rinunciato al caffè per una vodka tonic.
“Molte di queste storie non sono scritte per i bambini,” ha continuato, “così come molte delle fiabe dei Grimm non erano scritte per i bambini.” In Joseph Anton ricorda suo padre che gli leggeva le fiabe nel corso della sua infanzia a Bombay (ora Mumbai), dove è nato nel 1947, otto settimane prima dell’indipendenza dell’India
“Non le leggeva,” ha specificato Rushdie. Il Principe Vladimir è tornato con due bicchieri di Jewel of Russia, la “bevanda degli zar”. Abbiamo brindato. “[Mio padre] le raccontava a modo suo.”
Rushdie ha detto di aver pensato a come poteva riproporre le storie in un “romanzo adulto”—che non fosse ambientato nella “antica Baghdad con Hārūn al-Rashīd e i pantaloni harem.” L’intrusione nel presente di un passato mitico e folklorico si è rivelata una carta vincente, e i jinn erano perfetti per questo scopo. Questi esseri sovrannaturali—meglio noti in Occidente come ‘geni’—hanno una storia e una tradizione più antica dell’Islam, e sono “stravaganti e amorali,” dice Rushdie, “una tribù di individui per cui l’etica non significa nulla, che si basano solo sui propri capricci e bizzarrie.”
Rushdie elogia le novelle indiane e mediorientali per il loro livello di amoralità e secolarismo. Trattano “la natura umana, parlano di uomini che si comportano in modo furbo, subdolo, disonesto, avido—e a volte in modo giusto e coraggioso. Non sono storie piene di santi e angeli. Ci sono goblin e draghi, che io preferisco decisamente.”
In materia di draghi, Rushdie mi ha detto che si è “appassionato molto” a Game of Thrones ma che ha perso interesse durante l’ultima stagione. “Mi piace Peter Dinklage. Mi piace la ragazza coi draghi. Voglio che vincano loro. Voglio che si sposino e nascano i draghi,” dice, spiluccando dell’insalata. “Perché hanno la forza aerea, che nessun altro ha. Voglio che arrivino i rinforzi aerei e facciano strage dei cattivi.”
Nel 2015 l’immagine pubblica di Rushdie non è tanto quella di un grande romanziere quanto piuttosto quella di un irascibile fondamentalista. Il fatto risale ad aprile, quando sei scrittori hanno annunciato che non avrebbero presenziato al PEN Gala in segno di protesta contro la decisione dell’organizzazione di assegnare il suo Freedom of Expression Courage Award a Charlie Hebdo, la rivista satirica francese vittima del terrorismo per le sue vignette su Maometto. Un disgustato Rushdie ha chiamato questi sei “femminucce” e “sei autori in cerca di un po’ di ‘personaggio’.”
Ho suggerito che la sua esperienza, di convivere con una fatwa, può aver contribuito a renderlo intollerante verso questo gesto. “Mi è sembrato,” mi ha risposto, “come se la gente non avesse imparato un cazzo. O ancora peggio che abbia imparato la lezione sbagliata. Hanno imparato la lezione dell’appeasement, l’opposto di capire che la libertà di parola è davvero un aut-aut: ‘Ci credi?’ Sì o no, nel momento in cui dici ‘ma’ smetti di crederci.”
La sua veemenza ha “creato spaccature piuttosto profonde.” Alcuni dei sei—Peter Carey, Teju Cole, Rachel Kushner, Michael Ondaatje, Francine Prose e Taiye Selasi—erano vecchi amici. Ora, dice, “non vogliono più parlarmi.”
Rushdie, che è stato presidente del PEN dal 2004 al 2006, ha detto che quando ha chiesto a Cole “a che gioco stava giocando,” Cole ha proclamato che la differenza tra il caso di Rushdie e quello dei fumettisti di Charlie era che questi ultimi sono stati uccisi per razzismo percepito. Rushdie dissente categoricamente: “Sono stati uccisi per percepita blasfemia. E mi ha fatto pensare che—è questo che intendo con ‘imparare la lezione sbagliata’—che se l’attacco ai Versi satanici fosse avvenuto ora, tutte queste persone sarebbero state dall’altra parte.
Che lo consideriate uno stronzo, un tesoro della letteratura mondiale o un venduto, Rushdie rimane concentrato sul suo lavoro. Sorseggiando il secondo vodka tonic, mi ha parlato di possibili progetti televisivi e del “piccolo filo da tessere” che potrebbe portarlo al suo prossimo romanzo. “Ma non so dove.”
Il narratore di Due anni, otto mesi e ventotto notti dice che le storie non sono la creazione di una singola mente; piuttosto vengono “dall’esperienza raccontata da molte lingue a cui a volte diamo un solo nome.” Le mille e una notte, per esempio—che non hanno un autore—le ricordiamo non per chi le ha scritte ma per le storie che ci sono dentro.
Ho chiesto a Rushdie se quel tipo di sparizione lo attragga. “Be’,” ha detto, “se l’opera dei miei contemporanei e mia durerà per millenni, anche i nostri testi potrebbero diventare senza autore. Che non sarebbe una cattiva cosa. Mi piace l’idea dei libri che diventano famosi e degli autori che restano senza nome.”
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