Attualità

Cosa succede quando vai in burnout sul lavoro, spiegato da chi ci è passato

Quattro giovani ci hanno raccontato cosa può provocare uno stress prolungato nel proprio ambiente di lavoro. 
Alessandro Pilo
Budapest, HU
burnout-lavoro
Foto via Gender Spectrum Collection.

Nel 1928 il celebre economista John Maynard Keynes immaginò nel saggio Possibilità economiche per i nostri nipoti che, soprattutto grazie alla tecnologia, all’inizio del Ventunesimo secolo sarebbe stato possibile lavorare solo quindici ore alla settimana e avere molto più tempo libero. 

In realtà, non è andata affatto così. L’affermarsi di una cultura lavorativa basata sulla dedizione totalizzante al proprio impiego e sull’iperproduttività ha normalizzato pratiche come continuare a lavorare gratuitamente oltre l’orario d’ufficio, e reso la sindrome da burnout uno dei disturbi più rappresentativi della nostra epoca. 

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Con questo nome si definisce quell’insieme di sintomi—si va dai disturbi fisici come mal di testa, dolori muscolari e senso di stanchezza, a quelli mentali come ansia, depressione, perdita del sonno e apatia— provocati da uno stress prolungato nel proprio ambiente di lavoro. 

Ho chiesto a quattro persone (i cui nomi sono stati cambiati per ragioni di privacy) di raccontarmi cosa le ha portate a un burnout lavorativo, e come sono riuscite a uscirne.

Paola, 32 anni
Dipendente per due anni in una catena di articoli per la casa a Chieti

Nel 2019 ho iniziato a lavorare come stagista in una grande catena. Essendo architetta avrei dovuto progettare gli ambienti della casa dei clienti, ma fin dal primo giorno sono stata mandata a stampare i cartellini dei prezzi e a sistemare scatole di servizi di piatti. 

In tre mesi di stage la mansione per cui ero stata presa l'avrò vista un paio di volte. Finito lo stage hanno deciso di darmi una doppia mansione trasversale: vendite più allestimento. In altre parole facevo il lavoro di due persone, con un contratto part time a 25 ore che puntualmente con lo straordinario accumulato diventavano 42.

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Per preparare un allestimento a volte arrivavo alle 6 del mattino e lavoravo fino alle 13, pranzavo e poi alle 14 iniziavo il turno ufficiale in vendita. Il giorno dopo alle 6 del mattino ero di nuovo lì, fino alle 20. Durante il lockdown molti contratti non erano stati rinnovati, e ciò significava più straordinario per tutti. Dato che i turni venivano stabiliti senza che avessimo voce in capitolo, mi è capitato di lavorare per venti giorni senza pause. 

Sono arrivata al punto in cui non dormivo e controllavo la mail aziendale di notte per paura di aver dimenticato qualcosa. Avevo l'ansia costante che le mie performance non fossero all’altezza, anche perché i miei contratti venivano rinnovati trimestralmente, quindi il timore di essere mandata a casa era sempre dietro l’angolo.

Ricordo un giorno in particolare: avevo tantissime cose da fare, non avevo il tempo di farle e mi sembrava di farle male, non riuscivo neanche a mettere in fila due barattoli e due scatole su uno scaffale, avevo zero energie ed ero andata in blocco creativo totale. Sono scappata a piangere dietro ai secchioni della raccolta differenziata. 

Anche a casa piangevo spesso dalla frustrazione perché non facevo altro a parte lavorare. Ogni ora di sonno era preziosa, quindi il tempo libero era quasi bandito. Allo stesso tempo non volevo deludere quello che al tempo era il mio compagno e a volte mi facevo forza per uscire, ma il giorno dopo stavo male perché avevo sonno e non ero abbastanza produttiva. Dopo alcuni mesi di questa routine mi ha lasciata.

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In tanti mi dicevano di licenziarmi, ma lo stipendio faceva comodo. Alla fine la situazione si è risolta da sola quando non c'è stata possibilità di prorogare il contratto e mi hanno lasciata a casa. Solo a quel punto mi sono resa conto che ero passata per una fase di burnout pesante. 

Sono arrivata al punto in cui non dormivo e controllavo la mail aziendale di notte per paura di aver dimenticato qualcosa.

Ero già stata in terapia anni prima, ma la situazione lavorativa aveva riportato a galla un senso di inadeguatezza e la paura di sbagliare, tutte cose da cui pensavo di essere uscita. Sapevo che da sola non ce l'avrei fatta, e così ho ricontattato il mio psicologo e ho ripreso le sedute. Ci ho messo un anno a riprendermi, ma c’è ancora del lavoro da fare. Continuo a stare in contatto con alcuni ex colleghi, a volte ci sentiamo un po' dei sopravvissuti agli Hunger Games. Non penso che queste siano le sensazioni giuste quando pensi al tuo impiego precedente.

Mattia, 30 anni
Lavora in una società di consulenza a Roma

Durante i primi mesi del lockdown stavo crescendo professionalmente e mi venivano date sempre più responsabilità. Mi sono ritrovato quindi a lavorare su due progetti complessi: per rispettare la scadenza mi alzavo ogni mattina alle 5 e chiudevo la giornata lavorativa alle 23. Il giorno della consegna è andato tutto liscio, ma nel pomeriggio ho avuto una forte reazione isterica: ho pianto per un’ora, e nei giorni successivi non sono riuscito ad addormentarmi. 

Col tempo ho imparato a reggere orari sempre più dilatati ed è diventato normale aprire il portatile anche il sabato e la domenica. Anche per questo motivo in passato ho trascurato molto il rapporto coi miei genitori: anche se abitiamo nella stessa città, la frequenza e la durata degli incontri era fortemente limitata; e seppur presente fisicamente, mentalmente ero in uno stato di perenne eccitazione da lavoro—con la testa pensavo a questo o quel documento da terminare.

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Mettere dei paletti al lavoro non è facile: il carico non sparisce, ma viene spostato su altri colleghi che si trovano nella tua stessa condizione. Se durante la pandemia lo smart working inizialmente mi ha permesso di avere più tempo per me, le ore risparmiate sono state velocemente fagocitate dal lavoro. 

"Se il carico è eccessivo alzate la mano e vi veniamo ad aiutare," ci viene ripetuto spesso, ma se lo fai davvero ti fanno sentire una nullità e un incapace perché “dovresti essere già in grado di gestire lo stress o più progetti insieme.”

A settembre del 2021 ho iniziato ad andare in terapia e progressivamente sono riuscito a sentirmi meno in colpa sul finire a un orario decente, anche se sempre oltre quello regolare. Mi ha aiutato molto prendere consapevolezza che non mi trovo in questa situazione per via della mia disorganizzazione o lentezza. 

Il mio settore si regge su questo modello di business: io vengo pagato sempre lo stesso, ma se mi mettono a lavorare su più progetti full time per dei clienti il margine di guadagno dell'azienda sarà più alto. Chiaramente otto ore al giorno non saranno mai sufficienti per portarli a termine, quindi l’azienda fa implicitamente affidamento sul fatto che per riuscirci sacrificherò il mio tempo libero e il mio sonno. 

Malgrado la terapia la situazione non è cambiata del tutto, ero e in parte sono ancora completamente alienato; anche per questo motivo la mia ragazza qualche mese fa mi ha spronato a cercare un altro lavoro. Ho fatto dei colloqui in Italia e solo in un caso mi hanno assicurato che il work-life balance sarebbe stato rispettato. 

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Durante un colloquio per un lavoro a Bruxelles ho raccontato dei miei ritmi lavorativi e il recruiter è rimasto abbastanza sconvolto. Alla fine sono stato scelto e a breve mi trasferirò in Belgio. Sono curioso di scoprire cosa si può fare con tutto questo tempo libero. Sarà anche un modo per costruirmi una parte di identità che in questi anni ho dovuto accantonare.

Stefano, 28 anni
Content writer in un’agenzia di comunicazione di Milano

Lavoro da un paio d’anni in un'agenzia di comunicazione. Durante questo tempo ho azzerato a più riprese la mia vita fuori dal lavoro. Recentemente mi sono trovato a lavorare otto ore in più alla settimana—ovviamente non pagate—in mansioni spesso poco gratificanti. 

Quando la sensazione di non avere una vita raggiunge il suo picco, allora provo a dimostrare a me stesso che non è così: il fine settimana mi sveglio presto e vado a letto tardi per vivere più ore possibili di tempo libero. Ciò però è causa di ulteriore stress: il lunedì mi ritrovo con poche energie per affrontare la settimana e non produco al livello che mi viene richiesto. In pratica riesco a essere produttivo solo se uso il weekend per recuperare le energie, e lo stesso vale per le ferie.

Nella mia agenzia si sentono slogan come "le persone al centro," oppure ci si vanta di riconoscimenti come "best place to work" o simili, ma di fatto va avanti e fa carriera chi si sacrifica di più. Se provi a fare degli orari normali, difficilmente verrai premiato. Tra l’altro non è nemmeno così semplice riuscirci: quando i tuoi colleghi accettano queste dinamiche iperlavoriste diventa difficile tirarsene fuori.

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Il mio posto di lavoro ha avviato una collaborazione con una società che si occupa di benessere psicologico sul lavoro, ci sono dei webinar informativi e si può chiedere supporto più mirato in caso di bisogno. È un'iniziativa lodevole, ma anche uno specchietto per le allodole—perché significa riconoscere un problema e proporre una soluzione di emergenza che lavora solo sui sintomi, e non sulla causa principale. 

Da tre anni vedo una psicologa e da due uno psichiatra: la prima per problemi non strettamente legati al lavoro, anche se amplificati dall'ambiente lavorativo; il secondo per ansia e disturbi del sonno legati al lavoro. La terapia mi sta aiutando a non percepirlo come elemento qualificante della mia persona. 

Mi sto anche guardando intorno perché vorrei cambiare, anche se temo che altrove sarebbe uguale, o persino peggio da quello che dicono i miei amici. D’altronde, molti di loro vivono le mie stesse difficoltà sulla propria pelle. 

Giada, 29 anni
Lavora nella produzione cinematografica a Torino

Ho lavorato per cinque anni in una società nel settore delle produzioni cinematografiche, a Torino. Per farlo ho dovuto aprire una partita Iva, poi mi hanno fatto firmare un foglio dove accettavo di collaborare in esclusiva per loro. Non che ci fosse quel rischio, le mie giornate duravano mediamente dieci o undici ore, un fluire ininterrotto di chiamate, messaggi e mail.

Ero entrata in una spirale per cui una volta tornata a casa volevo solo portarmi avanti con il lavoro arretrato.

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Le scadenze e le urgenze erano all’ordine del giorno, quindi era normale uscire dall’ufficio tardi o lavorare nel weekend. Ero entrata in una spirale per cui una volta tornata a casa volevo solo portarmi avanti con il lavoro arretrato. 

In questi cinque anni sono passata per dermatiti, gastriti, emicranie e ho preso più di venti chili. Andavo a lavoro in qualsiasi situazione, anche con la febbre. A fine 2020 ho avuto il Covid-19 in maniera abbastanza severa, con tanto di polmonite, e ho sofferto di Long Covid. Non avevo fiato per parlare ma lavoravo comunque vista la pressione; il mio datore di lavoro mi terrorizzava dicendomi che se non completavamo questo o quel progetto eravamo finiti e chiudevamo.

Ovviamente da finta partita Iva avevo tutti i doveri di una dipendente, senza però nessun diritto. Avrei avuto bisogno di più tempo per riprendermi dal Covid ma non potevo permettermi di non essere pagata. Se davvero avessimo chiuso come diceva il mio capo, del resto, non avrei avuto diritto alla disoccupazione. 

Il maggio del 2022 è stato pesantissimo, ho lavorato quindici ore al giorno senza pause—compresi i weekend. A un certo punto ha iniziato a farmi malissimo il braccio destro per via dell’uso prolungato del mouse, ma invece di fermarmi ho provato a usare la sinistra. Lì mi si è mosso dentro qualcosa, era come se avessi toccato il fondo: ho detto al mio datore di lavoro di non voler più sottostare a certe condizioni. 

All’inizio la sua risposta è stata accomodante, ma quando si è reso conto che avevo davvero iniziato a lavorare le otto ore canoniche, il suo atteggiamento è cambiato totalmente. Durante un meeting sull’andamento trimestrale è nata una discussione molto accesa e ha iniziato a insultarmi pesantemente. Mi sono sentita minacciata e non al sicuro: d’istinto ho deciso di andare via dall’ufficio lasciando sul mio tavolo le chiavi. Non sono più tornata, mi deve ancora pagare le fatture di due mesi ma dubito che lo farà.

Poco prima di andare via avevo iniziato un percorso con una psicoterapeuta, con cui sto provando a mettere insieme i pezzi e curare le ferite mentali e psicologiche. Sento di aver buttato cinque anni della mia vita e sono arrabbiata con me stessa per non averlo capito prima. Allo stesso tempo, mi sento serena perché è finita.

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