Artwork di Linda Caracciolo Borra. Traduzione di Nicola Manuppelli e Giacomo Cuva.
Questo racconto è estratto dal Nono annuale di narrativa.
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Vorrebbe andarsene da questo posto. Vorrebbe andarsene anche da questo tempo, ma ovviamente è impossibile, e se non può tornare indietro non ha modo di recuperare le forze, né di dare un taglio a quei legami che lo trattengono, fatti di necessità, abitudine e amore. No, è da lì, da quell’antica base che deve lavorare.
Parte di questo lavoro è ricordo, ma i ricordi non sempre sono affidabili. Sta ripensando a una notte di primavera, mentre camminava, solo, nella ressa della stazione di Tokyo fra la gente vestita di stracci. Sente di nuovo l’aria lievemente acre della grande città. Il vento primaverile è caldo. Ovunque, fra le macerie, sui bracieri hibachi cuociono riso e cibi delicatamente speziati. Nel suo ricordo di Tokyo ha sempre fame, ha diciannove anni ed è consapevole della sua forza e della sua resistenza. Pensa che i giapponesi siano gente tosta, sobria e bella. Una vecchia dalle gambe robuste trasporta sulla schiena un gigantesco mucchio di fascine che peserà cinquanta chili, i piedi esili e grigiastri nei geta, la cinghia di stoffa le luccica intorno alla fronte. Persino le fascine paiono uscite da un’opera d’arte, i loro delicati intrecci neri tratteggiati da un pennello sottile. Ma non vuole che il ricordo lo trasporti verso una simile nostalgia del passato. Tokyo non c’entra un bel niente con il lavoro che ha per le mani. Proprio niente. Neppure Parigi, Londra o Roma, città che ha conosciuto poco più che ventenne, quando parevano così antiche, e lui così moderno. Al suo presente, al suo lavoro attuale, è più vicino un paesotto universitario del New England, non certo quelle vecchie e magiche città. È in quel paesotto che deve tornare, anche se si sente in colpa, anche se non vuole, pur con gli enormi dubbi che lo attanagliano riguardo alla volontà e all’energia per affrontare quel viaggio a ritroso nel tempo.
Su una pagina vuota del quaderno scrive in stampatello: “I CAPELLI DI HAROLD ROUX”.
Fissa quelle parole e prova una sorta di disperazione. Per mettersi a lavorare deve sbarazzarsi di chi gli sta attorno. E piantarla di farsi del male in lungo e in largo, a piccole e grandi dosi. Fumo e alcol, tanto per cominciare. Non c’è dubbio. I capelli di Harold Roux: un attacco senza troppe pretese, mettere insieme gli eventi che conosce e costruire, organizzare, popolare quella pianura arida con alberi e nomi. Allard Benson, Mary Tolliver, Harold Roux, Naomi Goldman, Boom Maloumian… Lì c’è un mondo, in parte del passato, che ha bisogno di provvedere a se stesso. D’accordo.
Il nostro eroe, piuttosto sottotraccia, è un certo Allard Benson, e la storia (una semplice storia di seduzione, stupro, follia e omicidio—le consuete preoccupazioni umane) a quanto pare inizia al compimento dei suoi ventun anni. Veterano, ma non certo eroe di guerra, la sua battaglia può riassumersi nel sincero tentativo di mutilare non tanto il nemico quanto i propri commilitoni. In realtà non approva la violenza, e anzi ritiene di doversi difendere in continuazione. La sua teoria è di non essere abbastanza grosso da mettere in soggezione potenziali aggressori, né abbastanza piccolo da passare inosservato. C’è qualcosa di vero in quasi tutte le teorie. C’è anche la teoria secondo cui farebbe fuori chiunque per una come Mary Tolliver, e le occhiate rozze di certi omaccioni prepotenti gli lasciano intendere le ragioni dell’infelicità della ragazza. Diciamo così: è convinto che un essere umano non dovrebbe far soffrire un suo simile, e ogni volta che egli stesso contravviene a quest’onnicomprensivo briciolo di ortodossia ne è chiaramente consapevole. Qualunque cosa abbia fatto è scolpita, algida e perpetua, nella sua anima. Questa, ovviamente, è la voce di Allard Benson, per il quale alcune faccende vanno considerate sfortunate casualità.
E poi c’è Harold Roux. Povero Harold. Come se lo immaginava il college? Finalmente la guerra era alle spalle, e quel ragazzo pallido, magro e sensibile non avrebbe più dovuto affrontare la rozzezza, la volgarità, l’orrore bell’e buono della vita in caserma. Deve aver pensato con nostalgia ai muri coperti di edera nell’intensa luce d’autunno, all’eleganza formale e allo spirito, alla vita della mente, ai distinti professori con le giacche di tweed, alle lunghe e impegnative discussioni sui massimi sistemi a mensa. Deve aver pensato anche alla bella e talentuosa ragazza che sarebbe stata la sua compagna. Allard si è sempre chiesto se Harold avesse dato un po’ di sostanza a quell’ultimo sogno, qualcosa in più di una passeggiatina mano nella mano o di un pudico bacio.
Mentre era nell’esercito, Harold era diventato calvo. Nulla di patologico, solo un’inevitabile perdita di capelli in cima alla testa—prima la chierica, poi la fronte che si era fatta più spaziosa, poi la parte superiore del cranio lucida e spoglia dalle ciglia a quello che un tempo era un ciuffo ribelle e oltre finché, a ventitré anni, il processo si era completato. E a Manhattan gli era capitato di passare davanti alle vetrine di un posto in cui certe chiromanti sostenevano di poter rimettere a posto, senza lasciare tracce, la chioma di Harold. Aveva esitato, sorriso, ripreso a camminare, esitato di nuovo. Da fuori aveva dato un’occhiata alle immagini di uomini sulla quarantina (prima) improvvisamente trasformati in affascinanti giovanotti di trent’anni (dopo), circondati da sensuali ragazze con la faccia da tonte. Quel genere di ragazze potevano pure tenersele, aveva pensato Harold, ma…
Allard aveva rimuginato spesso sul bisogno di Harold, sul disperato desiderio che lo aveva spinto a entrare lì dentro. “Lasciate ogni candore, o voi ch’entrate.” Harold non sarebbe mai riuscito a raggirare il prossimo con successo, mai. Una volta entrato, però, il mondo con tutti i suoi vecchi valori era cambiato. Era nel posto dei credenti, e per un po’ aveva creduto.
Un giorno frizzante di primavera, mentre nel loro giallo-verde gli alberi oscillavano sullo sfondo di un cielo immobile che pareva smaltato di blu, Allard, Mary Tolliver e Harold Roux se ne stavano seduti sulla riva erbosa, di fronte ai campi da tennis su cui ragazze sudaticce inseguivano soffici palline nuove di zecca ridendo della propria goffaggine. Allard parlava di un’opera teatrale su cui stava lavorando, intitolata La fine. E ovviamente la scriveva partendo dalla fine.
La giornata era così calda e piacevole che Harold si era tolto giacca e cravatta. I lunghi lembi del colletto, poco avvezzi a tanta informalità, erano rimasti appiccicati. La luce del sole pareva scomparire nella sua pelle biancastra, e l’immacolata parrucca (o parrucchino o tupè) contornava con eccessiva perfezione la sua fronte liscia.
Mary indossava una camicetta bianca e pantaloncini da tennis. Piccoli peli dorati le brillavano sulle cosce magre; il labbro superiore era leggermente umido. I capelli splendevano d’oro chiaro, mentre i suoi occhi erano di un marrone scurissimo—scuro e dolce da guardare. Nei riflessi bruni dell’iride sinistra c’era una minuscola punta di verde, come una scheggia di giada. Quel piccolo, sorprendente gioiello la accompagnava fin dalla nascita. Ogni arto, ogni movimento di Mary trasmetteva felicità. Persino le increspature e le pieghe dei vestiti sembravano condurre senza intoppi a quell’eccitazione e contentezza. Era evidente che di tutti i luoghi e i tempi del mondo, qui e ora era dove voleva essere, e lì stava. Allard la guardava, pensando a come ogni cellula del suo corpo sembrava in armonia con quella felicità. Aveva diciotto anni, ne avrebbe compiuti diciannove in autunno.
Mary e Harold ascoltavano Allard spiegare che l’ultima scena della sua pièce era ambientata in un ristorante, ci sarebbero stati tavolini disposti in fondo e ai lati del palco. E su ognuno una lampada con dentro varie lampadine da flash. Poco prima del sipario le luci del teatro si sarebbero abbassate fino al buio totale, abbastanza a lungo perché le retine del pubblico si aprissero al massimo. A quel punto sarebbero scattati i flash, tutti insieme. Approfittando del conseguente stordimento e della collettiva cecità, gli attori avrebbero invaso i corridoi del teatro, fra i singhiozzi e le urla della loro agonia, ciechi e morenti. La fine. Per la chiamata alla ribalta (una volta che il pubblico avesse ripreso a vederci, e anche in mancanza di applausi), il sipario si sarebbe aperto non sugli attori che si abbracciavano felici, ma su un enorme schermo sul quale veniva proiettato a colori il viso accecato, devastato e contaminato di una vittima di Hiroshima o Nagasaki. Silenzio. Il pubblico poteva restare o andarsene. Nel teatro non sarebbe più comparso nessuno, né attori né maschere.
“Wow,” aveva detto Harold con ammirazione.
“Mi chiedo come reagirebbe la gente‚” aveva detto Mary.
“Linciando il drammaturgo?” aveva suggerito Harold.
“No‚” aveva detto Allard. “Devono essere masochisti, altrimenti nemmeno verrebbero a vederla.”
“Certo che sarebbe un po’ crudele,” aveva osservato Harold.
“Crudele?” aveva detto Allard. Come per rispondergli, si era piegato e aveva dato un piccolo morso a Mary sopra il ginocchio, sentendo sulla lingua il sapore salato e il calore della sua pelle scaldata dal sole. Ridendo, Mary l’aveva preso per le orecchie scuotendogli la testa. Un sorriso amaro era comparso sulla bocca di Harold.
“Hai un buon sapore. Sei commestibile‚” aveva detto Allard. “Lo sapevo che eri commestibile.” Mary era arrossita dandogli le spalle, ma gli aveva lasciato posare la testa sul suo grembo, sorreggendola delicatamente. Lui da sotto le aveva guardato il seno e il mento sullo sfondo azzurro del cielo, con gli alti olmi dell’università che la incorniciavano. Quando si era chinata a guardarlo, i capelli le erano calati sul viso, e sembrava che lì dentro ci fosse la luce del sole, la sua espressione si era fatta improvvisamente intima, loro due da soli nel pergolato dei suoi capelli. Quello sguardo diretto, serio, quegli occhi spalancati, dicevano che era lui il prescelto. E Allard lo sapeva.
I capelli di Harold Roux è in uscita questo mesi per Fazi, nella traduzione di Nicola Manuppelli e Giacomo Cuva.