La cucina venezuelana è meno conosciuta rispetto a quella messicana. Spesso le persone ci chiedono se i piatti sono piccanti, come se venissimo dal Messico.
Che Roma con le cucine internazionali non vada fortissimo è una credenza a cui mi sono aggrappata nel corso degli anni. Salvo scoprire che di posti ne esistono parecchi, i cui nomi viaggiano silenziosamente nelle chat di appassionati e addetti ai lavori. Capita che siano più famosi per i turisti che per noi, abitudinari o peggio. Come mi disse uno chef una volta: “i clienti romani so’ i più stronzi. Pensano de sape’ tutto loro”.
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Un giorno però anche io mi sono messa in fila fuori da questo localetto vicino a San Pietro. L’insegna dice “El Maiz”, c’è un bel menu, tanta gente da tutto il mondo che consulta ripetutamente la gallery di Instagram del ristorante e poi io, che ne rimarrò particolarmente entusiasta. Mi slancio: quasi folgorata.
Fiorella Moffa, detta Fiore, 28 anni, mi dice di essere timida ma di timidezza non c’è traccia mentre mi spiega più volte l’intricato albero famigliare. Riassumo così: c’è un’intera famiglia con la F. Fiorella che lavora in cucina, poi il padre Frank, detto Franco, chiamato così dalla madre, appassionata di Frank Sinatra, poi c’è Franca Pascia de Moffa, la madre, anche detta “la regina della cachapa”, Fabrizio, il fratello di Fiore, sberleffato da tutti per i suoi ritardi sul lavoro. Di recente si è aggiunta anche Anlibeth Molina Moffa, la cugina di Fiore che mi spiega: “In Venezuela c’è questa abitudine di mischiare i nomi della madre e del padre. In questo caso i genitori sono Angelo e Milybeth. Lo so, siamo strani”.
Dopo il ritorno dal Venezuela in Italia nel 2002, Franca, la madre di Fiore, custode di tutte le ricette, cucina periodicamente piatti venezuelani per gli amici e per gli eventi. Tutti ne sono entusiasti, “perché non aprite un ristorante” dicono. E alla fine lo fanno sul serio. È il 2017 quando apre El Maiz. Per i primi tempi vengono solo venezuelani e turisti. Frank fa l’imitazione dei romani che passano due e tre volte davanti alla porta prima di decidersi ad entrare. I venezuelani portano gli amici italiani, che portano altri amici italiani, che guardano i video su Instagram che posta Fiore e si presentano alla porta col cellulare in mano dicendo: “voglio questo”.
La gastronomia del Venezuela ha una caratteristica che la contraddistingue: è questa nota dolce-salata che si ritrova in tantissimi piatti. Un po’ è merito del mais, un po’ dello zucchero, che viene usato in quantità magistrali
Prima di passare alle ricette, è buona cosa fare la rassegna degli ingredienti di base: l’avocado, i fagioli neri, il riso, il mais, sia in chicco che in farina, poi la carne mechada, una preparazione con carne di manzo o di pollo sfilacciata e ripassata in padella.
E poi i platani, quelli verdi che si usano per i tostones e i patacónes, e quelli maturi, che si usano invece per le tajadas. Fiore mi fa vedere, coltello alla mano, con quali mosse si apre un platano verde. Per favore, accantonate l’immagine di voi che sbucciate agevolmente la banana. Qui si rimuove la parte superiore, poi si fanno dei tagli verticali precisi e si sfila un pezzo dopo l’altro senza strapparsi via le dita.
In un test di ingresso sulla conoscenza della cucina venezuelana probabilmente prenderei zero. La cosa che mi conforta è che a quanto dice Fiore, siamo messi tutti così, tanto che a Roma questo è praticamente l’unico ristorante venezuelano. “La cucina venezuelana è meno conosciuta rispetto a quella messicana” mi racconta “spesso le persone ci chiedono se i piatti sono piccanti, come se venissimo dal Messico. Ma qui le salse piccanti sono salse come le altre e le mettiamo a parte”.
Eppure la gastronomia del Venezuela ha una caratteristica che la contraddistingue: è questa nota dolce-salata che si ritrova in tantissimi piatti. Un po’ è merito del mais, un po’ dello zucchero, che viene usato in quantità magistrali tanto che Franca, mi dice, “ho dovuto cambiare leggermente le ricette. Ci dicevano che le cose erano buone, ma troppo dolci”. E vale anche per il bere. Fiore mi mostra due lattine: una è la malta, una bevanda frizzante fatta con malto d’orzo e canna da zucchero, l’altra è la frescolita, una bevanda ancora più dolce, che assomiglia nel gusto alla famosa gomma da masticare rosa. Non dite “ma quanto sarà mai dolce” perché lo è.
La cachapa, una frittella di mais cotta sulla piastra e piena di formaggio
Passando poi alle ricette, ce ne sono diverse, anche se questo localino fa principalmente street-food. Questo è cibo che a Merida, da dove viene la famiglia F., si mangia per strada, a tutte le ore del giorno. “Quando si fa nottata vai a la calle del hambre, la strada della fame, dove ci sono solo baracchini aperti fino a notte fonda e mangi cinque arepas tutte insieme” mi dice Frank, specificando che le arepas si mangiano tutto il giorno, colazione, pranzo e cena. “Mentre le empanadas” aggiunge Fiore “anche a colazione, soprattutto a colazione”.
Entrambi i piatti sono comuni a molte regioni dell’America Latina, ma in Venezuela vengono fatti in modo diverso. C’è sempre la farina di mais alla base, le emapanadas si friggono e non hanno quell’arricciamento che me le ha rese familiari. “All’inizio non sapevo neanche farle e mia madre era costretta a prepararmi l’impasto. Poi ho imparato, adesso posso dirlo: sono perfette” dice Fiore, contenta che sua madre la chiami la regina dell’empanadas.
Alla base si fa una pallina con l’impasto con farina di mais, acqua e sale, si schiaccia molto fine, si mette il ripieno dentro, si piega a metà, si coppa con un cerchio e si tuffa nell’olio bollente. Mentre ne spacco a metà una con fagioli neri e queso llanero mi cola sulle dita qualche goccia di olio bollente ma sono ancora qua.
Un’altra ricetta a cui accennavo prima è il patacón, il platano verde sbucciato, schiacciato, fritto e condito. Franca lo prepara con carne mechada di manzo, guacamole, pomodoro, ancora guacamole. Quando penso che abbia finito appone un ulteriore platano fritto che gli dà l’aspetto di un panino. E via.
Ma c’è una cosa che il Venezuela ha e nessun altro, ripeto, nessun altro gli contende. È la cachapa, una frittella di mais cotta sulla piastra e piena di formaggio. Ma non facciamola semplice perché la cachapa è il piatto più difficile anche per i venezuelani. “C’è anche chi vende impasti già pronti, ma non è la stessa cosa di una cachapa fatta col chicco del mais” mi racconta Fiore “L’unica differenza è che in Venezuela sono grandi il doppio. Si mangia fuori, per merenda magari, perché a farla in casa non sono tutti pratici”.
Il chicco del mais viene bollito per creare una frittella con il latte, la farina, le uova. Poi viene cotta sulla piastra bollente per più di 20 minuti. Vedo Franca, l’unica in questa cucina che sappia fare la cachapa, armeggiare con due palette giganti, mentre gira la cachapa da un lato e dall’altro. Una volta cotta e abbrustolita mette due fette extra di queso de mano, piega la cachapa su sé stessa e lascia andare ancora un paio di minuti. Poi serve su un piattino e sul lato rivolto verso la mia fame spalma una dose generosa di burro salato. Si potrebbe aggiungere anche carne mechada o jamón per spingerla sul salato.
Ora questo queso de mano è ancora una storia a parte che sento dentro questa piccola ma fragorosa cucina, perché sembra una mozzarella, sia all’aspetto che al gusto. E il procedimento è simile, come suggerisce il nome. C’è una famiglia venezuelana emigrata in Puglia che lo prepara solo per El Maiz. Il formaggio finisce dentro la frittella e mi pare chiaro che il segreto sta nel non romperla, segreto che mamma Franca non ha nessuna intenzione di rivelarmi. Ma io sono altrove perché, sperando che non ci sia nessun venezuelano in ascolto, l’addento a mani nude, cosa che nessuno di loro farebbe, perché sono una barbara.
Il giro a El Maiz sta per finire. La famiglia F mi spiega che per un venezuelano andare al ristorante non vuol dire mangiare queste cose, ma magari arrosti di carne o piatti con cotture prolungate, o prenotare al ristorante italiano, francese, messicano, qualunque cosa.
Sui dolci spunta un’altra mania latina: il latte condensato. Finisce nel quesillo, il dolce nazionale, nella torta tres leches con latte evaporato, condensato, scremato con sopra panna e cannella (ma l’originale vuole la meringa), e anche in una bevanda a base di riso e latte che si beve a fine pasto oppure per merenda. Si chiama chicha. Qui ho alzato le mani per mettere in salvo i trigliceridi, ma tornerò presto per riprendermi quello che non è mai stato mio.
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