Negli anni antecedenti al 2010, alcuni adolescenti italiani sono stati investiti da un bastimento carico carico di mode: l’acquisto di macchine fotografiche digitali per immortale posaceneri e firmarsi con “.ph;” l’utilizzo di nickname improponibili per distinguersi in social network ormai defunti; e l’avvicinarsi ad una sottocultura rimasticata, con annessa musica che non comprendevano appieno, per sentirsi parte di qualcosa in attesa di una identità propria. Io ero tra questi ingenui coglioni.
Mi firmavo .ph, pensando che qualcuno potesse rubarmi originalissime foto di mozziconi ammassati con dovizia. Il mio Nickname era H@t3, perché pensavo di odiare tutti e di non meritarmi, probabilmente, le vocali. Ed ero un “Emo,” o almeno avevo deciso di esserlo perché essere percepito come ridicolo nella provincia in cui vivevo, mi sembrava molto più confortante di esserne risucchiato. Ma comunque lo negavo, perché negarlo era una delle regole non scritte da seguire. Poser! sei un poser! Io ‘sti poser non li sopporto! Ma neanche i truzzi, eh. I metallari sono amici nostri? E i goth?
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Nell’immaginario, corroborato in parte dalla pessima narrazione bidimensionale che ne davano i media mainstream, erano considerati emo quei ragazzini con le frange inamidate, pantaloni stretti e agghindati di borchie, teschi, un po’ apatici, attenti ai sentimenti (o più semplicemente depressi-taglia-polsi-sfigati, ma a questo punto arriveremo più avanti)—che la maggior parte degli adulti italiani non distinguevano comunque da metallari, goth e tutte le subculture tendenti al nero. I miei per dire chiamavano tutti, senza distinzioni, “infrasciamati.” Si riferivano al disagio esistenziale che emanavamo indistintamente, e penso che su questo ci avessero beccato.
Di quel periodo mi sono portato dietro negli anni almeno tre cose: ho continuato a fare foto (per VICE e altri); conservato reperti imbarazzanti in hard disk sotto chiave; e infine continuato ad ascoltare un sacco di musica di quel periodo. Questo, mi sa che però capita a molti: come analizzato in uno studio, infatti, certe ‘vecchie’ canzoni su Spotify sono maggiormente popolari tra chi le ha ascoltate quando era teenager, e continua ad ascoltarle per fluttuare in una sorta di stallo temporale, a tratti tossico, a tratti confortante, chiamato nostalgia.
Nel mio personale loop nostalgico campeggiano da sempre i My Chemical Romance, checché se ne dica, il più importante gruppo emo(-pop) degli inizi dei duemila, scioltosi nel 2013. Da quel momento i membri dei MCR si sono dati alla famiglia, a progetti piuttosto solitari (per esempio Gerard Way ha realizzato il fumetto The Umbrella Academy, un album da solista e qualche singolo), ma mai a nessuno è fregato granché di questi sviluppi. Piuttosto, ha continuato a crescere incredibilmente la fandom dei MCR, tra chi li considerava una reliquia e chi sperava che la “teoria degli Smashing Pumpkins” fosse fondata. Teoria secondo cui il desiderio, espresso da Way, di far riunire la band dopo sei anni anni nel caso di scioglimento, com’è capitato agli Smashing, si sarebbe avverato. E così alla fine è stato: il 31 ottobre 2019, i MCR hanno annunciato il loro ritorno. Messo su un profilo Instagram. Organizzato un tour.
Quando un amico mi ha girato la notizia, nonostante in questi anni abbia continuato a rinnegare il mio periodo emo, la mia reazione è stata questa:
Così, ho deciso di tornare ai tempi in cui per cercare di sfogare gli scombussolamenti ormonali mi stiravo i capelli tre volte al giorno. Lo avrei fatto per una settimana, alla veneranda età di 28 anni. Quando alla mattina l’ho comunicato all’Editor di Noisey lo sbrilluccichio entusiasta dei suoi occhi mi ha quasi inquietato. Alla sera, invece, la mia coinquilina mi ha rimesso subito in riga: “Questa è proprio una delle tue solite idea di merda,” riferendosi a miei passati articoli esperienziali. “Solo che questa volta è l’idea più di merda di tutte. Godrò un sacco quando nei commenti ti insulteranno tutti.” Ma era troppo tardi, l’emo sopito in me si era ormai risvegliato.
Dovevo soltanto riportare le lancette indietro, per capire una volta per tutte se la scena emo è stata all’epoca bistrattata giustamente, o più semplicemente fraintesa—e accettare una volta per tutte un passato molto oscuro.
PROVA LOOK
- Breve storia triste: il mio emo esteriore arraffazzonato venne ammazzato nell’istante in cui mia mamma, con la sua profonda saggezza da provincia italiana, mi disse: “Tu all’università a Milano conciato in questo modo non ci vai.” Così tutti i miei vestiti e la mia ribellione giovanile vennero gettati in un cassonetto, e arrivai in città con una valigia vuota come nei mesi seguenti lo è stato il mio armadio. E credo proprio che una cosa simile sia successa a molti altri.
Oggi. Breve update: Ciao Mamma, la brutta notizia è che con un budget editoriale, maglia dei MCR compresa, ho ricomprato tutto. La bella è che non ho dovuto sfilarti di soppiatto i soldi dal portafogli come una volta. Contenta?
Ammetto però che presto il mio entusiasmo iniziale ha progressivamente lasciato spazio a un’amara e rinvenuta consapevolezza: la preparazione emo è lunga quanto la gestazione di un pachiderma, e rischiosa—tra piastre ardenti e matite affilate— come uno stunt di Jackass senza protezioni.
Mi sento anche piuttosto grato ai miei geni per avermi permesso di mantenere ancora dei folti capelli ricci—ma, una volta divenuti una frangia liscia asimmetrica calata sulla faccia, chi è stato emo sa che si trasformeranno automaticamente in un incubo.
Mantenere i capelli emo, a meno che tu non rimanga dentro una teca ad atmosfera zero, è una lotta contro i mulini a vento. Se fosse estate diventerebbero un tutt’uno con la fronte per il sudore. Ora che fa freddo o piove, l’umidità li gonfia a tal punto da trasformarti automaticamente in una particolare specie umanoide di riccia fluitans.
Senza contare che non ci vedi effettivamente un cazzo. In una settimana non so quante volte sarò inciampato, detto “oh, perdonami non ti avevo visto”, o scritto via mail “mi scuso per gli eventuali refuso ma questa settimana sono emo, e la mia visibilità è molti ridotta.”
Ma non è forse questa la vera dissidenza?
Ri-valutazione del look: comunque, troppo faticoso.
PROVA SOCIAL
Quella emo è stata la prima sottocultura a crescere (e morire) sui social media. Erano gli anni della diffusione dell’ADSL e gli adolescenti, che da sempre passano un bel po’ di tempo in casa, iniziarono a interagire con i nuovi mezzi a disposizione. Il sottobosco emo bazzicava su Myspace, ma quello italiano esprimeva il suo massimo su Netlog: un non-luogo dove ragazzi con nomignoli ispirati a termini presi in prestito da fauna, anatomia umana e farmacie (Dynamic Pussycat, Barbie Xanax, Vicky Moss) condividevano autoscatti fatti col flash al cesso, canzoni e pensieri a mò di blog sui diari. Alcuni divennero un bel po’ noti nella scena, nano-influencer diremmo oggi. Soltanto che poi a un certo punto il social si è svuotato quando la gente ha iniziato a diventare maggiorenne, e nel 2014 è stato definitivamente chiuso.
Visto che Facebook è moribondo e gruppi come “emo italia” sono inattivi da tempo, ho quindi deciso che per esprimere il mio emo ritrovato avrei utilizzato Instagram. Così in una story ho chiesto un feedback sul mio look, e incredibilmente solo il 29% ha votato orrore. O forse più semplicemente il restante 71% mi stava prendendo per il culo. Poi ho condiviso anche una poesia molto emotional scritta sul tram, e infine chiesto se qualcuno si sentisse ancora orfano di Netlog.
Alcuni mi han detto che era meglio Myspace, altri che “quando la gente si ‘matchava’ per la musica e lo stile, di sicuro si stava meglio.” Poi, incredibilmente, è arrivata @sallyhisterick: “Nonostante fossi una grande estimatrice del sito il solo pensiero delle foto che avrei potuto ritrovarci dentro mi fa accapponare la pelle 😂 bella la musica, belli i ricordi, ma le pose imbarazzanti io non le dimentico.”
Sally è a una mia vecchia conoscenza, con cui passavo ore a scambiare messaggi proprio su Netlog, ogni tanto a pomiciare, e che ha mantenuto intatto il suo nickname di allora—ispirato ovviamente a uno dei personaggi del mondo di Tim Burton, della cui filmografia gli emo si erano totalmente appropriati. Così le ho chiesto se avesse voglia di rivangare certi momenti e farci un autoscatto imbarazzante con il filtro “cinema”—altro elemento emo imprescindibile—e il risultato è questo:
Il mio ex compagno di banco ha poi commentato: “Che è sto 2006 improvviso?😂”
Ri-utilizzo emo dei social: Ho perso 43 follower in una settimana.
PROVA MUSICA
Incredibilmente pure l’angolo dell’internet che ti insegna tutto, wikiHow, ricorda che un sacco di pischelli hanno litigato per anni su cosa fosse emo o no, ma che era piuttosto inutile dato che il termine è stato usato “per 30 anni allo scopo di descrivere una varietà di musica in continua evoluzione.” Il genere è nato dalla scena punk hardcore di Washington nella metà degli anni ’80, grazie a band—come i Rites of Spring—che sperimentavano di più sulle melodie, si basavano su testi più introspettivi (tendenti alle volte al misogino) e li gridavano.
Facendo un grosso salto, poi, dall’emocore si è passati al più criticato (dai puristi) e amato (dal grande pubblico) emo-pop degli anni 2000 pompato dal mainstream: My Chemical Romance, Fall Out Boy, Panic! at the Disco, Funeral for a Friend, Paramore, un pizzico di 30 Second to Mars agli inizi, etc.
In parte non è cambiato molto:
Per esempio, mentre stavo fumando a una serata per i fatti miei, Gaia, una ex scene queen incuriosita dal mio look, mi ha iniziato a tirare un pippone su quanto “la vera musica emo erano i Texas Is The Reason, i Fugazi, mentre i MCR erano un fake.” Per poi però aggiungere: “che amavo incondizionatamente lo stesso.”
A una festa in casa, poi, mi sono permesso di fare una prova schiacciando play su Misery Business: in passato sarebbe stato un rischio enorme, oggi mi ha permesso di sentire frasi del tipo, “Oh anch’io li ascoltavo, ma di nascosto.” Giudicare una persona in base alle sue playlist mi è sembrato sempre un po’ ipocrita, perché a causa della desiderabilità sociale non ammetteremmo mai di ascoltare certa roba—manco sotto waterboarding.
Per questo, aggiungo, non punterò nessun dito contro chi era in fissa con quello che su Noisey è stato definito falso emo italiano, ovvero “una versione un po’ più amatoriale e semplicistica dell’originale, con l’aggiunta di una buona dose di immobilismo da discografico italiano.” L’esempio più lampante è “Wale (Tanto Wale)”, un pezzo che fece così impazzire tutti—nel bene e nel male— da scalare le classifiche, e continua a macinare tutt’ora commenti revisionisti su YouTube, tra “che ne sa la mia dignità di quando l’ascoltavo a 15 anni,” e chi confessa che “la nostalgia ti fa apprezzare cose che non avresti mai pensato.” II pezzo è dei Dari, un gruppo il cui grande successo durò il tempo di un duetto con Max Pezzali.
Ri-ascolto di TUTTA la ‘musica emo’: E allora dimmi Wale, che cosa wale Wale waleeeeeeeeeeeee quel che waleeeeeeeeeee.
REAZIONI E LUOGHI STORICI: LE COLONNE DI SAN LORENZO A MILANO E PIAZZA DEL POPOLO A ROMA
La questione commenti e reazioni è stata quella che mi ha creato più bias cognitivi di tutti. La prima osservazione WTF è arrivata da un collega: “oh, hai cambiato look? Stai bene.” Un attimo prima due tizie in tram mi avevano indicato e riso. Un mio amico non ha voluto vedermi fino a quando è durato l’esperimento, perché “non voglio farmi vedere in giro con te, gli emo erano degli sfigati e lo sei pure tu.” Ma nemmeno una discussione con un truzzo o una vecchina che mi dicesse che ero il diavolo come un tempo :(
Tra apprezzamenti inaspettati e occhiatacce prevedibili, presto però mi sono sentito incompreso, solo al mondo. Così, nella speranza di incontrare dei simili, mi sono diretto verso il posto storico degli emo a Milano: le colonne di San Lorenzo.
Al gelo ho aspettato ore, ed ore. Ma niente. Nemmeno l’ombra di un metallaro, che mi sarei fatto bastare. Ho anche chiesto qui e lì se ancora degli emo si radunassero in zona, ma la più onesta mi sa che è stata una tizia di fretta che mi ha detto lapidaria: “vedi che ormai qua ci stanno solo gli spaccini.”
Incassata un’altra delusione, non rimaneva che fare un ultimo tentativo: prendere un treno per Roma. Direzione: le chiese gemelle (quella a sinistra degli emo, quella a destra dei metallari) di Piazza del Popolo, le sacre mura degli alternativi italiani.
Ma anche qui, ancora, solo palle di fieno, passanti che non sapevano chi fossero gli emo (Emo chi?), e riconfermata mestizia ad attendermi:
Alla fine, per osservare degli emo nei loro habitat ho dovuto ripiegare su YouTube, e premere play su vecchi servizi—come il famoso Mondo emo—in cui i giornalisti dei media tradizionali si confermavano incapaci di raccontare i giovani, ma degli assi a selezionare giovani incapaci di mettere in fila un pensiero di senso compiuto (o a tenere in montaggio le loro affermazioni più sconclusionate).
Ma in effetti ringrazio entrambi, perché ci hanno lasciato perle come il pregevolissimo video-meme “semi-BBRUDAL.” Sempre nei nostri cuori. Dove sei finito, fatti intervistare. O indotto alla creazione di acutissime parodie, come quella di Urban Jungle, la web serie italiana migliore di sempre.
Valutazione di luoghi e reazioni: Emo definitivamente estinti (?).
L’EREDITA’ EMO: APERTURA E SALUTE MENTALE
Arrivati a questo punto è innegabile che la scena emo italiana sia stata raccontata come uno dei fenomeni giovanili più assurdi di sempre—e forse per i suoi aspetti più prosaici lo è stata davvero. Effettivamente è difficile dire se sia nata dal basso grazie ai millennial che avevano iniziato a navigare nei meandri dei siti esteri; o creata a tavolino da produttori che volevano vendere magliette e dischi. Probabilmente, la verità sta nel mezzo.
Nonostante questo e strambe interrogazioni parlamentari dell’UDC per bandire gli emo, “una sorta di tribù che online esalta l’autolesionismo”; i media in quel periodo hanno comunque perso una grande occasione: parlando superficialmente di “musica triste” per “ragazzi depressi”, non si sono accorti che i giovani iniziavano a discutere—seppur spesso MALE, quasi sempre a sproposito, in rarissimi casi con cognizione di causa—più apertamente di salute mentale in un paese in cui tuttora lo stigma è forte.
Come evidenziato da VICE UK, nel suo articolo di ricerca accademica del 2011 “ Emo Saved My Life“, la dott.ssa Rosemary Lucy Hill, docente di Sociologia all’Università di Leeds, ha contestato la narrazione secondo cui la musica emo inducesse alla depressione e all’autolesionismo i giovani. Ma al contrario che “può aiutare i fan sopravvivere a problemi di salute mentale.” O al bullismo, all’ansia, ai problemi in casa. Perché da sempre “le persone trovano la musica che funziona per loro e si adatta al loro umore”.
Tant’è che i MCR hanno sempre mostrato atteggiamenti di supporto per chi ha problemi di salute mentale, grazie a loro i fan hanno iniziato a condividere le loro esperienze, lo stesso Way dei MCR ha confessato di aver sofferto di depressione, e la cover coi The Used di Under Pressure dimostra che anche molti altri avevano già raccontato egregiamente “follia” e amore.
Senza dimenticare, infine, un ultimo aspetto: l’emo ha contribuito forse un po’ più delle altre sottoculture ad avviare una discussione tra i giovani volta anche a rivalutare i codici di mascolinità previgenti e sulle sfaccettature della sessualità con un’apertura inedita. Sotto il segno dell’ambiguità è la generazione “bi-curious”, titolava in maniera un po’ buffa Repubblica, parlando di “ragazzi [emo] nell’età incerta, che scoprono se stessi” e “si confidano in una galassia di siti e blog.”
Insomma, fraintesa o meno, questa è la vera eredità della cultura emo. Questa, della musica okay, capelli brutti, video revival su Tiktok, e probabilmente quel collega che solo a vederlo dici “sicuro era un emo.” (O come avrebbero detto i miei un “infrasciamato”). Tipo me. Un saluto alla mia analista.
Voto all’eredità: 7/10.
Se qualche ex emo volesse condividere la sua esperienza, Vincenzo è su Instagram.