Per come stavano le cose poteva finire molto peggio. Nell’androne di un palazzo, un uomo aveva messo all’angolo una donna terrorizzata e in lacrime, e non voleva lasciarla andare. Se in quel momento fosse arrivato qualcuno, la donna avrebbe detto che l’uomo era un perfetto sconosciuto. Avrebbe detto anche di non ricordare come fosse arrivata lì.
A quel punto la terza persona avrebbe dedotto—e avrebbe avuto delle ottime ragioni per farlo—che l’uomo poteva aver drogato la donna. Se questa terza persona avesse avuto un po’ di decenza, avrebbe cercato di salvarla. Avrebbe chiamato la polizia, o avrebbe messo le mani addosso all’uomo. Dopotutto, questi stava palesemente cercando di stuprarla. Insomma, per l’uomo non c’era nessuna possibilità di uscirne bene. O quasi.
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In quel momento ho passato mentalmente in rassegna tutte le cose che sarebbero potute succedere e mi sono messo a implorare un Dio sulla cui esistenza non ho avuto all’improvviso più dubbi. Per tutto il tempo in cui sono rimasto lì, mentre la mia ragazza era nel bel mezzo di un grave episodio dissociativo, ho continuato a pregare che non arrivasse nessuno. Dio, se mi stai leggendo, sappi che ti devo un favore.
La prima volta che mi aveva parlato del disturbo dissociativo dell’identità (DDI) era stato una mattina durante le vacanze di Natale, mentre eravamo ancora a letto. Stavamo insieme da otto mesi, e fin dall’inizio mi aveva sempre confidato tutto—tutto tranne questo. Non penso che me l’avesse tenuto nascosto perché pensava che mi sarei spaventato; penso piuttosto che dovesse sapere con certezza di potersi fidare di me prima di rivelarmi questa cosa, dato che quasi nessun altro lo sapeva.
Mi aveva spiegato rapidamente di cosa si trattava—nel peggiore dei casi, mi aveva detto, si trovava a non sapere non solo chi fosse, ma anche cosa fosse, incapace di percepirsi come un essere umano. Parlarne la faceva soffrire molto, e ho pensato che fosse soprattutto per questo che così poche persone erano a conoscenza della sua condizione. Per il suo bene, avevo deciso di non farle domande al riguardo. Quando aveva finito di parlare, le avevo detto che questo non cambiava nulla e che la amavo lo stesso. Quattro mesi dopo, ho visto per la prima volta con i miei occhi quello che mi aveva descritto.
Quella sera eravamo andati a vedere un film a casa di un nostro amico. A metà del film mi ero accorto che il ritmo del suo respiro era cambiato e si era fatto più corto e più veloce. La cosa non mi aveva preoccupato più di tanto—soffriva d’ansia da ben prima che ci conoscessimo, e in genere era perfettamente in grado di controllarla. L’ho accarezzata sulla schiena per tranquillizzata, ma pian piano è diventato sempre più chiaro che il suo attacco di panico non sarebbe rientrato. Dopo circa 20 minuti mi ha sussurrato all’orecchio: “Andiamo via. Sto per avere un episodio.”
Abbiamo raccolto in fretta le nostre cose e ci siamo scusati con il nostro ospite, dicendo che eravamo entrambi esausti e avevamo bisogno di dormire. Quando siamo usciti dal palazzo, mi ha preso la mano. “Promettimi di non lasciarmi da sola, qualunque cosa accada,” mi ha detto. Ho promesso.
Mentre camminavamo ha iniziato a stare male; era sempre più confusa. Poco più in là sono riuscito a fermare un taxi. Il primo dei molti colpi di fortuna che ho avuto quella sera.
Per quanto possa sembrare una frase fatta, all’interno del taxi il silenzio era inquietante. Rispetto a quella donna, le persone più estroverse che conoscevo sembravano JD Salinger; era una che poteva coinvolgere anche il più scontroso dei buttafuori in una vivace conversazione e arrivare a convincerlo a far entrare nel locale i suoi amici palesemente minorenni. E ora se ne stava seduta lì, guardando fuori dal finestrino. Per la prima volta da quando stavamo insieme era letteralmente senza parole.
Ho stretto la sua mano e le ho detto, “Ti amo.” Mi ha guardato in modo assente per qualche secondo, e poi si è girata di nuovo verso il finestrino. Sapevo che non potevo prenderla sul personale e ho cercato di razionalizzare—non era arrabbiata né mi stava ignorando dopo un litigio. Semplicemente, non sapeva chi fossi. Ripensandoci, mi sento incredibilmente egoista per essermi fermato a pensare a me mentre lei stava vivendo un momento terribile, ma lì per lì non ho potuto evitarlo. Era una situazione sconvolgente in modo unico e profondo.
Ero diventato un estraneo agli occhi della donna che amavo. Ero distrutto.
Gli ultimi dieci minuti del viaggio sono andati avanti senza problemi. Nonostante il momento di terrore che stava vivendo è rimasta calma, cosa per cui (forse, di nuovo, in modo egoista) le sono grato—non sarei riuscito a spiegare al tassista i dettagli di una condizione clinica di cui io stesso sapevo poco o niente. Quando siamo arrivati sotto casa sua ho aperto il portafogli e avevo giusto i soldi che mi servivano per pagare la corsa—un altro piccolo grande colpo di fortuna.
Ho aperto la portiera dal mio lato e, facendo attenzione a non lasciarle la mano, ho compiuto una difficile manovra per uscire e fare uscire lei dalla stessa parte. Abbiamo attraversato la strada, siamo arrivati di fronte al suo palazzo e siamo entrati nell’androne. È stato allora che la situazione si è fatta più complicata.
Fino a quel punto eravamo sempre rimasti in luoghi pubblici o nel taxi, dove immagino che si sia sentita rassicurata dalla presenza del tassista. Ora si ritrovava da sola con un uomo che, per quanto ne sapeva, non aveva mai visto prima. Inoltre, in quel momento, anche il palazzo dove abitava era un luogo sconosciuto. Anche se capiva di essere nel bel mezzo di un episodio dissociativo, non aveva idea di come fosse arrivata lì. Se avete mai cercato di riportare a casa una persona fatta di ketamina avete idea di che tipo di situazione stessi vivendo, ma nel mio caso era a un livello completamente diverso.
Cercate di immaginavi la situazione: una donna piuttosto esile si rende improvvisamente conto di trovarsi all’interno di un edificio che non riconosce, in compagnia di un uomo molto più grosso di lei. Ha fatto quello che avrebbe fatto qualsiasi donna in una situazione del genere: si è messa a correre, sfilando la sua mano dalla mia e cercando di raggiungere la porta. Con mia grande sorpresa, ho reagito d’istinto e mi sono gettato dietro di lei, prendendola di peso e allontanandola dall’uscita.
In una situazione del genere, bloccare fisicamente una donna non è proprio il genere di azione che comunica, “Guarda che con me sei al sicuro,” ma non avevo altra scelta. Non potevo lasciarla correre via, di notte e lungo strade a lei ignote. L’ho messa all’angolo e mi sono allontanato di qualche passo, facendo da barriera tra la mia ragazza e la porta del palazzo. Ho parlato con voce calma e tenuto le mani alzate, il gesto universale per far capire a una persona che non ha niente da temere.
Si è rintanata nell’angolo. “Se fai un altro passo mi metto a urlare,” mi ha avvertito. Sono rimasto fermo. È stato allora che ho iniziato a passare in rassegna i possibili scenari. Come ho già detto, grazie a un colpo di fortuna o al favore di un dio, siamo rimasti da soli. Per quanto questo fosse d’aiuto, non cambiava il fatto che ero nell’androne di un palazzo con una donna che non aveva idea di chi fossi e che non mi avrebbe mai permesso di condurla nel suo appartamento.
“Hai il telefono?” le ho chiesto. Ha controllato nella borsa e ha annuito. “Sai chi è George?” Ha annuito ancora. George era il suo ex, uno dei suoi più cari amici e l’unica persona al corrente della sua condizione oltre ai suoi familiari, al suo medico e al sottoscritto. Dato che si trattava di una persona che conosceva da molto più tempo rispetto a me, aveva molti più ricordi di lui e non si era dimenticata di chi fosse. “Chiama George,” le ho detto.
Va tutto bene, ho pensato mentre scorreva la rubrica in cerca del numero di George. Sono solo un tizio che se ne sta qui ad aspettare che l’ex fidanzato della sua ragazza confermi la sua identità.
Ha provato a lasciare un messaggio. Parlava piano, trattenendo a stento le lacrime, ed è riuscita a dire solo “aiuto” una decina di volte. Forse George era al lavoro. Poi, l’ennesimo colpo di fortuna della serata: pochi secondi dopo, George ha richiamato. Non ricordo esattamente cosa si siano detti o quanto a lungo abbiano parlato; può darsi sia passato un minuto, può darsi ne siano passati cinque. Lei gli ha detto che c’era un uomo che lei non riconosceva e che diceva di essere il suo fidanzato, e io ho detto ad alta voce, “George! Sono io!”
È rimasta ancora un po’ in ascolto, e poi mi ha passato il telefono. “Vuole parlare con te.” Ho parlato con George per qualche minuto. Non ero mai stato così felice di sentire la voce dell’ex fidanzato della mia ragazza. Mi ha spiegato con calma cosa avrei dovuto fare dopo—portarla a casa, farla sedere e farle vedere un film che conosceva. Mi ha detto che era importante che si rapportasse con cose che le erano familiari. L’ho ringraziato e le ho ripassato il telefono. Hanno parlato ancora per qualche secondo, poi lei ha messo giù.
“George dice che mi posso fidare di te.”
L’ho presa di nuovo per mano e siamo saliti per le scale.
Una volta entrati nel suo appartamento, tutto è diventato più facile. Ho chiuso la porta, e lei si è subito seduta sul pavimento. Mi ha detto che le facevano male i piedi, così l’ho aiutata a togliersi le scarpe. Poi l’ho fatta alzare e l’ho fatta camminare per la stanza, indicandole le foto appese alle pareti e chiedendole se riconosceva le persone ritratte. “Quella sono io!” ha detto con gioia. “E quello è George!” Questo l’ha aiutata molto.
Nel giro di pochi minuti, le dinamiche tra noi erano cambiate radicalmente: da un possibile aggressore ero diventato un specie di figura paterna. In quanto suo fidanzato, trovavo un po’ strani entrambi i ruoli, ma almeno non aveva più paura di me. Abbiamo passato il resto della serata a guardare la televisione insieme, mentre aspettavo che ritornasse la donna che amavo.
Poco dopo che mi aveva raccontato del suo disturbo dissociativo dell’identità mi ero messo a cercare informazioni su internet. Come nel caso di molte altre malattie mentali ci sono molte teorie e supposizioni sulla natura di questa condizione. In ogni caso, il DDI è definito “la condizione psichiatrica più controversa,” per cui “non c’è accordo sul trattamento indicato.”
È una condizione molto rara, ma che ricorre spesso nella cultura popolare. Anche se non avete mai sentito parlare del disturbo dissociativo dell’identità, probabilmente avrete presente il disturbo di personalità multipla, il nome con cui lo si indicava un tempo. Solitamente è rappresentato in modo negativo: spesso le varie personalità vengono raffigurate come buone e cattive, come Jekyll e Hyde. Come per la schizofrenia e altri disturbi simili, chi ne soffre viene spesso immaginato come un pericoloso sociopatico—quando in realtà si tratta di soggetti estremamente vulnerabili.
Molte delle persone che soffrono di disturbo dissociativo dell’identità hanno alle spalle una storia di abusi sessuali o fisici subiti durante l’infanzia, e questo ha portato alcuni ricercatori a credere che il disturbo nasca in reazione a un trauma. So che da piccola la mia ragazza veniva spesso picchiata dal padre, per cui è possibile che questa circostanza abbia giocato un ruolo nello sviluppo di tale condizione. Un’altra ipotesi suggerisce che il disturbo dissociativo d’identità sia causato dall’operato degli psichiatri, che “recuperano” determinati ricordi dal subconscio dei pazienti, ricordi che poi li portano a comportarsi in un certo modo. Ma questa spiegazione non si adatta al caso della mia ragazza.
Nel suo caso, gli episodi dissociativi avvengono raramente; possono passare mesi e anche anni senza che ne abbia uno, ma possono anche manifestarsi varie volte nell’arco di un breve periodo di tempo. Le capitano quasi sempre in situazioni di forte stress. Più tardi, mi ha detto che tali episodi le capitano quando il cervello non è in grado di reggere lo stress: è come se facesse una pausa uscendo dal suo corpo per un breve periodo di tempo.
Tre ore dopo l’inizio dell’episodio, ho notato il riapparire di alcuni barlumi della sua personalità. Ha riconosciuto un personaggio sullo schermo, e l’ho vista sorridere. Poco dopo le ho chiesto se sapesse chi ero. “Lo so,” mi ha risposto. “Ti amo.” Sentire queste parole ha significato molto per me.
Quando alla fine ci siamo messi a letto, si è addormentata subito, distrutta sia fisicamente che emotivamente. Una volta sveglia non avrebbe ricordato nulla di quello che era successo, né avrebbe saputo alcunché. Sono rimasto sveglio ancora un po’, a chiedermi se ci sia qualcosa di più spaventoso della mente umana.