Laura Tripaldi menti parallele
Fotografie per gentile concessione di Laura Tripaldi.
Tecnologia

La ricercatrice italiana che studia melme, robot ‘viventi’ e intelligenze non umane

Abbiamo parlato con Laura Tripaldi di ciò che robot, strane melme, tele di ragno e nanomateriali possono dirci sull'intelligenza e sul futuro.
Daniele Ferriero
Milan, IT

Ogni giorno che passa, la realtà ci invita a rivedere e rinnovare il significato di concetti come “intelligenza”, “mente” e persino “vita”. È il segno di un percorso che, in quanto specie, non interrompiamo mai: quello della ricerca scientifica e della conoscenza che ne deriva, tra errori e verifiche, esperimenti e aggiustamenti di tiro.

Nessuna fede cieca, solo fiducia nel lavorio costante delle nostre sinapsi al fine di migliorare e ridefinire continuamente il nostro sguardo sul mondo. Menti parallele di Laura Tripaldi, uscito nel 2021 per effequ—e nel 2022 per la prestigiosa Urbanomic—, cammina proprio su questi ripidi e strani sentieri, mettendosi con forza al centro di un dialogo necessario tra scienza e letteratura.

Pubblicità

Ho contattato l’autrice per parlare di divulgazione e università, strani organismi e materiali fantascientifici, cultura scientifica, letteraria e di vita nella sua interezza.

VICE: Ciao Laura, di cosa ti occupi nello specifico?
Laura Tripaldi:
Sto svolgendo un dottorato di ricerca in Scienza e Nanotecnologia dei Materiali all’Università di Milano-Bicocca. L’obiettivo è quello di progettare materiali migliori sia dal punto di vista della performance che della sostenibilità.

Qual è il tuo background?
Prima del dottorato ho studiato chimica, che mi ha dato le basi per capire il comportamento della materia su scala molecolare e mi ha insegnato a lavorare in laboratorio, dove la ricerca prende forma. In parallelo ho iniziato a scrivere di temi legati al rapporto dell’essere umano con la tecnologia: un momento di svolta che mi ha permesso di capire come il lavoro scientifico si inserisce in un contesto culturale più ampio.

Perché hai scritto Menti parallele?
Il fattore determinante è stato il contatto con Silvia e Francesco, gli editori effequ. Ma i temi centrali li ho maturati nel corso degli anni precedenti, riflettendo sul significato delle esperienze scientifiche in relazione alla filosofia: postumanismo, femminismo, accelerazionismo, antispecismo, moltissime correnti di pensiero che ho approfondito mentre mi dedicavo ai miei studi. Menti Parallele nasce all’intersezione tra questi due mondi, quello scientifico e quello umanistico, tra cui non è sempre facile costruire un dialogo produttivo.

Pubblicità

Cosa manca al dibattito pubblico riguardante la scienza?
Nel corso dell’ultimo anno siamo stati inondati di comunicazione scientifica, e questa improvvisa attenzione del pubblico ha evidenziato i limiti del nostro modo di parlare di scienza al pubblico. Credo il problema sia legato a ciò che i media e il pubblico si aspettano dagli scienziati, sia alle capacità effettive degli scienziati di partecipare al dibattito culturale e politico.

Qual è il nodo da sciogliere?
L’idea che il sapere scientifico sia in qualche modo al di sopra della società, che possa darci accesso a una sorta di oggettività sovrumana, è assolutamente dannosa. La scienza, al contrario, è un insieme di pratiche che sono definite dalla cultura che le produce e che a loro volta partecipano alla costruzione dell’ambiente culturale in cui sono inserite.

Perché questo accade?
La formazione scientifica è gravemente carente di sperimentazioni interdisciplinari in cui i giovani scienziati possano imparare a comunicare tra loro, con altre discipline non scientifiche e con la società nel suo complesso. Che gli studenti di discipline scientifiche non siano tenuti ad avere almeno una vaga conoscenza della storia e delle implicazioni politiche e sociali dei saperi che studiano è una cosa che da scienziata trovo profondamente imbarazzante.

Come vedi il rapporto tra mondo letterario e scientifico?
Ho trovato il mondo della cultura umanistica, dalla filosofia alla letteratura e all’arte, particolarmente sensibile e ricettivo nei confronti delle ibridazioni con la scienza e la tecnologia. C’è una sempre maggiore comprensione del fatto che la pratica scientifica non si limita a risolvere problemi concreti, ma è un nutrimento incredibilmente ricco per il nostro immaginario. Per citare due esempi tra tanti: la newsletter MEDUSA, che affronta il tema dell’antropocene in tutte le sue sfaccettature, e, in ambito artistico, il progetto Re:Humanism, che intreccia l’intelligenza artificiale con l’arte contemporanea.

Pubblicità

Cominci il tuo libro parlando della tessitura. Perché?
Il punto di partenza è stato una riflessione sulla nostra “cultura materiale,” cioè quell’insieme di conoscenze e pratiche che definiscono il modo in cui entriamo in relazione con i materiali che utilizziamo. Nella cultura dominante c’è un pregiudizio nei confronti di una categoria di materiali che potremmo definire “soft”: quelli flessibili, deformabili e fluidi che facciamo fatica ad associare al progresso tecnologico. Il progresso umano è di solito definito attraverso materiali duri e rigidi, come bronzo, ferro e silicio. Tuttavia, la nostra storia tecnologica è stata segnata da moltissimi materiali “soft”, tra cui il tessuto, la cui importanza è spesso sottostimata.

Qual è il motivo di questa scarsa considerazione?
In questa dimenticanza c’è una componente di genere, perché tecnologie come la tessitura sono da sempre appannaggio delle donne. Ma non è tutto qui, perché utilizzare materiali “soft” significa anche ripensare il nostro modo di costruire le tecnologie nella direzione di un minor controllo diretto e di una maggiore complessità. Pensiamo alla trama di un tessuto e al modo in cui una molteplicità di fili interagiscono tra loro per formare un intreccio flessibile e funzionale. La scienza dei materiali oggi cerca di fare la stessa cosa, costruendo sistemi delocalizzati dotati di proprietà uniche che emergono da un tessuto di relazioni.

Pubblicità

A questo proposito, cos'è la melma policefala?
La melma policefala (o Physarum polycephalum) è uno degli organismi più interessanti in cui mi sono imbattuta. Si tratta di un protista, una sorta di ameba che non è soltanto priva di un sistema nervoso, ma anche di cellule propriamente dette. Eppure, nonostante la sua apparente semplicità, ha rivelato una capacità sorprendente di risolvere problemi complessi: è in grado di ottimizzare il percorso che connette una rete di punti, un problema particolarmente dispendioso anche per i nostri computer più avanzati.

Come ci riesce e a cosa può servire?
La melma policefala riesce a fare tutto questo proprio in virtù della sua struttura “relazionale”, costituita da un “tessuto” non gerarchico di componenti in continua interazione. Per questo è stata usata come modello per ripensare la nostra idea di computazione, anche nell’ottica di fare ricorso a substrati alternativi ai materiali convenzionali, come il silicio.

Oggi, come viene considerata l'intelligenza dei "non umani"?
Dai tempi di Thomas Nagel, che scrisse Cosa si prova ad essere un pipistrello? nel 1974, si sono fatti molti progressi nella direzione di riconoscere una forma di soggettività, di intelligenza o di coscienza anche agli organismi non umani, non soltanto animali. Oggi viviamo quasi un rinascimento del panpsichismo; abbiamo capito che, se guardiamo abbastanza attentamente il mondo che ci circonda e tutte le configurazioni materiali che lo abitano, possiamo scoprire una forma di intelligenza anche dove meno ci saremmo aspettati di trovarla.

Pubblicità

Non si tratta di limitarsi a dire che la materia è intelligente, ma di capire in quali forme questa “altra” intelligenza può manifestarsi e attraverso quali canali può comunicare con la nostra. In questo senso sono stata molto ispirata sia dagli scritti filosofici di Emanuele Coccia, sia da quelli più scientifici di Stefano Mancuso e Godfrey-Smith, per cercare di fare un passo in più e estendere il concetto di mente anche al mondo del “non-vivente”.

Cos'è, poi, la “mente estesa”?
Il concetto di mente estesa nasce negli anni Ottanta in un articolo di Andy Clark e David Chalmers, i quali proposero che la mente umana, piuttosto che trovarsi confinata nel cervello, fosse in grado di trasferirsi anche su oggetti esterni al nostro stesso corpo. In effetti credo che oggi nessuno abbia dubbi sul fatto che molti dei nostri compiti cognitivi siano delegati a corpi tecnologici non umani. La cosa interessante è cercare di portare questo concetto alle estreme conseguenze, provando a capire in che modo tutti i materiali che utilizziamo contribuiscono a plasmare la nostra esperienza del mondo e partecipano, a loro modo, alla nostra intelligenza.

Un esempio?
Quello del ragno, che usa la seta della sua ragnatela per orientarsi nello spazio e percepire la realtà che lo circonda. Molta ricerca nell’ambito della scienza dei materiali è indirizzata verso questo tipo di progettazione—”smart material” che, proprio come la seta del ragno, possono adattarsi e modificarsi autonomamente in risposta all’ambiente e agli stimoli che ricevono. Spesso si tratta di materiali “soft,” “gelatine” capaci di reagire a determinati segnali cambiando forma.

Pubblicità

Esistono altri casi?
Nel 2002 un gruppo di ricercatori dell’Università di Tokyo ha progettato un robot interamente flessibile a forma di stella marina, capace di muoversi in un ambiente acquatico in risposta a un campo elettrico esterno. Questi materiali, che non sono più solo oggetti ma anche un po’ “soggetti”, ci costringono a ripensare il nostro rapporto convenzionale con gli strumenti tecnologici.

Tu come definiresti l'intelligenza?
È una domanda molto difficile, a cui non mi sento in grado di dare una risposta univoca. Dal mio punto di vista è interessante riflettere sul concetto di “mente”, che secondo me è ancora più generale di quello di “intelligenza”, da una prospettiva sistemica. In altre parole, significa comprendere che ogni mente è la proprietà emergente di un sistema complesso, cioè un sistema formato da numerose componenti in relazione.

Ma perché dovremmo mettere in discussione la “mente”?
Ridiscutere che cos’è una mente è molto importante non solo per riuscire a mettere in crisi il nostro antropocentrismo, cosa che in questo momento storico è particolarmente urgente, ma anche per trovare delle nuove strategie per affrontare il mondo del futuro, che sarà sempre più complesso, globale e interconnesso. Questa definizione di mente è molto trasversale e versatile: funziona dai nanomateriali all’essere umano, fino alle città, alle reti digitali e alla società nel suo complesso.

Pubblicità

Invece, un esempio di proprietà emergente?
Un materiale esemplare che può aiutarci a comprendere meglio il concetto è il ferrofluido: un liquido composto da nanoparticelle magnetiche disperse in un solvente. Quando il ferrofluido entra in contatto con un campo magnetico, le particelle al suo interno si organizzano spontaneamente per dare forma a una struttura complessa, capace di ricostruirsi ogni volta che viene modificata dall’esterno.

C'è una differenza netta o sfumata tra oggetti tecnici e naturali, organici e inorganici?
Il problema di individuare una continuità tra gli organismi viventi e gli oggetti tecnologici ha perseguitato la scienza e la tecnologia per secoli. Siamo abituati ad avere a che fare con oggetti tecnologici che in molti sensi sono radicalmente diversi dai corpi viventi: le “macchine” comunemente intese non sono capaci di crescere, ripararsi e replicarsi come invece sappiamo fare noi, e soprattutto hanno bisogno di essere progettate e assemblate dall’uomo. In realtà, le nuove tecnologie mettono in discussione questo paradigma, perché ci portano a confrontarci con oggetti tecnologici completamente nuovi il cui comportamento non è poi così diverso da quello degli organismi naturali.

In quali frontiere ci stiamo muovendo?
Anche se si tratta ancora di un campo di ricerca innovativo e con limitate ricadute concrete, la scienza si sta occupando di progettare sistemi artificiali capaci di auto-organizzarsi, replicarsi e interagire con le strutture biologiche in modo molto intimo. Questi progressi sono dovuti alla nostra capacità di lavorare con sempre maggiore accuratezza e controllo sulla scala nanometrica, cioè su corpi di dimensioni piccolissime, confrontabili con i meccanismi microscopici dei sistemi viventi.

Pubblicità

In Menti parallele c’è uno strano termine, “vyta”. Da dove arriva e cosa indica?
Il termine vyta è la mia traduzione della parola “lyfe”, un neologismo recentemente proposto da due studiosi, Stuart Bartlett e Michael Wong, in un articolo pubblicato sulla rivista Life. Questa nuova parola permette una generalizzazione del concetto di “vita” anche in riferimento a sistemi molto diversi dagli organismi viventi terrestri.

Cos’ha che non va il classico termine “vita”?
La definizione di “vita” è da sempre molto problematica, perché non è facile identificare le funzioni caratteristiche che un organismo deve possedere per essere considerato vivente, e spesso queste caratteristiche sono proprie anche di sistemi inorganici. L’ambiguità di questa definizione cresce man mano che diventiamo capaci di produrre artificialmente sistemi che, pur avendo caratteristiche chimiche diverse dagli organismi biologici propriamente detti, sono comunque in grado di svolgere funzioni che siamo abituati a considerare esclusive della vita. È interessante come il progresso scientifico ci costringa continuamente a ridiscutere il nostro linguaggio.

Recentemente mi è capitato d'incappare negli Xenobot: li conosci? Cosa puoi dirci a riguardo?
Sono sicuramente tra gli organismi tecnologici più interessanti che hanno visto la luce in anni recenti. A proposito di tutto quello che abbiamo detto sulla definizione ambigua del concetto di vita e sulla distinzione tra macchine e organismi, gli Xenobot sono un caso esemplare: si tratta di robot biologici progettati in silico da un algoritmo e costruiti a partire da cellule di embrioni di una particolare specie di rana africana (Xenopus laevis).

Cosa può dirci la loro creazione?
In questo esperimento di biologia sintetica ci sono moltissimi spunti di riflessione: tanto per cominciare, abbiamo di fronte un oggetto che per definizione non è né naturale né artificiale, ma definibile il primo robot vivente propriamente detto. È poi molto interessante il modo in cui interagiscono tra loro e con l’ambiente che li circonda: la loro forma è stata ottimizzata dall’algoritmo per svolgere particolari funzioni, ad esempio muoversi in una certa direzione, trasportare o manipolare oggetti. In questo senso potremmo dire che, pur essendo organismi molto semplici, sviluppano una forma di intelligenza che si manifesta come proprietà emergente della loro specifica struttura.

Quale conclusione possiamo trarne?
Si tratta di uno dei numerosi esempi del fatto che le nuove tecnologie, a partire dalla robotica, si stanno muovendo in una direzione inaspettata: gli automi del futuro non saranno ammassi di ferraglia ma corpi umidi e flessibili (in inglese si usa la parola “wetware”, in analogia a “software” e “hardware”), capaci di mettere in discussione molti dei nostri pregiudizi sulla tecnologia.

Segui Daniele su Instagram e Twitter.