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Vale davvero la pena rischiare disastri e tragedie per esplorare lo spazio?

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L’esplosione dello Space Shuttle Challenger nel 1986 ha avuto un effetto drammatico sulla NASA e sulla comunità di esplorazione spaziale. È stata anche, verosimilmente, un classico esempio dei cosiddetti “incidenti normali.”

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Il libro Normal Accidents: Living with High Risk Technologies, pubblicato nel 1984 e scritto da Charles Perrow, un sociologo della Yale University, afferma che gli incidenti normali sono i disastri inevitabili che accompagnano l’uso di qualsiasi tecnologia complessa e ad alto rischio.

Perrow stabilisce molte definizioni formali e ragionamenti, ma il succo del suo libro suona familiare a chiunque abbia mai sentito parlare della Legge di Murphy. Una cosa complicata può essere costituita da così tanti elementi che alcuni di questi sono sballati in modi inaspettati—e quasi sempre non ci sono conseguenze. Ma se un certo numero di elementi non funziona correttamente allo stesso momento, potrebbe portare a un disastro. 

Può accadere così velocemente che ci vuole poi un sacco di tempo per capire cosa abbia scatenato il disastro. E se si aggiungono maggiori controlli e misure di sicurezza per prevenire i problemi, si aumenta la complessità, cosa che potrebbe rendere le operazioni ancora più problematiche.

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Nel caso del disastro del Challenger – il cui 30esimo anniversario si è tenuto la scorsa settimana – non è stato coinvolto solo lo Space Shuttle stesso, ma un’intera rete di responsabilità e comunicazioni della NASA e dei suoi appaltatori, che serviva a trasmettere informazioni fondamentali per il funzionamento sicuro dello Shuttle. L’aumento dei controlli e delle misure di sicurezza ha solo aggiunto burocrazia e procedure, che, a loro volta, hanno causato problemi.

Quindi, secondo Perrow, i sistemi spaziali complessi sono destinati, prima o poi, a uccidere l’equipaggio e i passeggeri, indipendentemente dalle precauzioni messe in atto. Quello che si può fare è rimandare una tragedia, non prevenirla.

A prescindere dal fatto che questa teoria sia vera o meno, è un’idea interessante. 

Un’altra idea interessante è stata sviluppata da Henry Petroski, specializzato in analisi dei fallimenti. Pur avendo scritto molti libri su quello che succede quando l’ingegneria va a farsi benedire e cosa comporta, c’è un libro in particolare che merita attenzione: Engineers of Dreams: Great Bridge Builders and the Spanning of America, nel quale sostiene che nel campo della costruzione dei ponti avviene un disastro ogni 30 anni circa.

L’idea è che subito dopo un grande disastro, tutti si impegnano per aumentare la sicurezza, si assicurano contro i rischi legati al design, e in generale agiscono con molta attenzione. Ma con ogni anno che passa, le persone diventano più ambiziose e le scadenze diventano sempre più ravvicinate. 

Trent’anni dopo, la generazione precedente di ingegneri, terrorizzata dall’ultimo disastro, è andata tutta in pensione: quando qualcuno si mette a sfidare un po’ troppo la sorte, a quel punto arriva il disastro e il ciclo continua. 

I tre grandi disastri spaziali della NASA sono l’incendio dell’Apollo 1 del 27 gennaio 1967, il disastro del Challenger del 28 gennaio 1986. e il disastro del Columbia dell’1 febbraio 2003. Il secondo incidente è avvenuto a 19 anni e un giorno di distanza dal primo. Il terzo è avvenuto 17 anni e tre giorni dopo il secondo. In media, fanno 18 anni e tre giorni di distanza. Supponendo che i disastri spaziali siano particolarmente puntuali, e considerandola una questione estremamente precisa, la prossima sciagura nella NASA- secondo questa teoria – dovrebbe arrivare attorno al 3 febbraio 2021.

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Ovvio: basare le analisi sui cicli temporali è solo una forma di superstizione. E, seguire questo tipo di logica, qualcosa di avvicinabile all’idiozia.

Detto ciò, però, c’è da considerare il fatto che la prima missione NASA con la capsula Orion e il sottosviluppato Space Launch System era originariamente in programma per il 2021, ma è stata rimandata al 2023. 

Nel frattempo, i dipendenti della NASA stanno ovviamente invecchiando, così intorno al 2023 molti veterani staranno per andare in pensione—cosa che rischia di prosciugare l’esperienza critica dell’agenzia. Per complicare ancora di più la faccenda, negli anni precedenti al lancio, la NASA ha accatastato una serie di obiettivi di alto profilo per dei programmi molto costosi, mettendo ancora più sotto pressione l’organizzazione.

Basta unire gli incidenti normali al concetto del ciclo dei fallimenti per concludere che ci sono motivi per pensare che non si possa continuare a mettere persone su macchinari profondamente complicati e pieni di esplosivi anno dopo anno senza rischiare di ucciderli. Infatti, un disastro potrebbe essere addirittura una caratteristica inevitabile di un’esplorazione.

Se consideriamo le esplorazioni come movimenti o espansioni in uno spazio a cui prima non si poteva accedere, e c’è un vantaggio ad arrivarci per primi, allora probabilmente un programma di esplorazione che non gioca con il pericolo è irrilevante.

Se i paesi avessero potuto far arrivare le persone nello spazio con facilità, e se non ci fossero stati incidenti mortali come quelli dell’Apollo 1, del Columbia e del Challenger – e quelli del Soyuz 1 e del Soyuz 11 russi – allora raggiungere lo spazio sarebbe un esercizio triviale di riduzione dei costi.  

Ovviamente, questo non vuol dire che le esplorazioni devono comportare livelli omicidi di negligenza. Piuttosto, quando il Presidente John F. Kennedy ha fatto lo storico discorso del 1962 sullo sbarco sulla luna, in cui ha detto, “Abbiamo scelto di andare sulla luna in questo decennio e fare altre cose, non perché erano semplici, ma perché erano difficili,” aveva più ragione di quanto lui stesso pensasse. 


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Foto via NASA