Cibo

Perché le etichette delle bottiglie di vino sono, e saranno, sempre più importanti

Vini Noelia Ricci

Quello della memoria del pesce rosso è uno dei miti più duri a morire nella cultura popolare. Il nostro “Ho la memoria del pesce rosso” vuole significare “Mi scordo le cose dopo pochi secondi” quando invece, come dimostrato da numerosi studi, dovrebbe significare “Sono in grado di ricordarmi le cose per mesi”. Nell’incipit del mio pezzo ho deciso di rendere giustizia alla creatura acquatica e citarla correttamente: quando si tratta di vini vorrei avere la memoria del pesce rosso.

Sono ormai scesa a patti con il fatto che le mie capacità di degustatrice di vino sono, a voler essere generosi, scarse: non ho memoria olfattiva né gustativa, fatico a descrivere odori e sapori e il mio massimo commento sui sentori di un vino, una birra, un superalcolico, è “Mi ricorda qualcosa”. Non sto dicendo che, dopo anni passati a lavorare nel settore enogastronomico, io mi ritenga un’ignorante assoluta in fatto di vino. Sto dicendo che faccio davvero fatica a mettere ordine tra le mie esperienze sensoriali e le mie conoscenze storico-geografiche, a collegarle, a sistematizzarle – a ricordare quei dannati nomi quando mi presentano davanti una carta dei vini. Di solito uno dei fattori che mi aiuta di più è: l’etichetta. Le illustrazioni, i colori e i font mi si imprimono nel cervello con più nitidezza di tutto il resto.

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D’altronde, come mi spiega Davide Puca, ricercatore in Semiotica del Gusto all’Università di Palermo: “Il condizionamento dell’etichetta del vino sull’acquirente esiste. Solo che si esprime su un piano indiretto, squisitamente culturale e interpretativo. Un piano che, certo, ha conseguenze sull’esperienza di consumo e quindi percettiva: come la copertina di un libro, l’etichetta orienta le aspettative del bevitore”.

Proprio per questo motivo tra me e le bottiglie di Noelia Ricci è stato amore a prima vista. Non ricordo con esattezza né il dove né il quando ho visto l’etichetta del loro Godenza. Ma ricordo che da quel momento l’occhieggiare di quella scimmia in bianco e nero, sobriamente grafica, minuziosamente dettagliata, mi è rimasto stampato in testa, portandosi dietro anche il sapore: una mineralità spiccata ma morbida, un’identità sobria, ma ben definita. E così quando ho avuto la possibilità di andarli a trovare, tramite amici comuni, non me lo sono fatta dire due volte.

Villa Pandolfa
Fiumana di Predappio
Noelia Ricci
La vendemmia

La storia di Noelia Ricci inizia nel 1941, quando il Commendator Giuseppe Ricci acquista Villa Pandolfa, storica dimora dei marchesi Albicini. Negli anni Ottanta la tenuta passa alla figlia Noelia, che per prima capisce la potenzialità dei terreni e, soprattutto, delle vigne adiacenti, da cui nasceranno i vini della Pandolfa. Ad accogliermi sui dolci pendii di questo tratto di Appennino Tosco-Romagnolo è Marco Cirese, nipote di Noelia: “Mia nonna era una donna forte e carismatica. Una donna che credeva in queste terre e in questo vino. Nel 2010 io vivevo a Roma, lavoravo in tutt’altro settore, ma continuavo a tornare qui e pensare che si poteva fare qualcosa di più”. Precisamente: rilanciare il Sangiovese di Romagna. E con esso tutto il territorio.

Qui ci troviamo a Predappio, sottozona di produzione del Sangiovese di Romagna, meno famoso del “cugino” toscano, ma non meno ricco di potenzialità: “In questo territorio le mode internazionali avevano snaturato il vitigno. Noi volevamo riportarlo alle origini: il Sangiovese di una volta, un vino da tavola, con una funzione dionisiaca. Un vino dalla beva facile. Nel 2010 abbiamo iniziato a lavorare con l’enologo Francesco Bordini su un cru di appena 7 ettari nei terreni della Pandolfa”. La prima annata di Noelia Ricci è stata quella 2013, 15.000 bottiglie annue che ora sono 60.000, esportate in 24 paesi. Da subito ottengono uno splendido riscontro nelle guide di settore, aiutando a “rompere il pregiudizio contro la Romagna enologica. Fino a pochi anni fa i vini della Romagna non esistevano nelle carte dei ristoranti. Ora, nell’ultima edizione della Guida Gambero Rosso, 3 Sangiovesi di Predappio hanno preso tre bicchieri”. Un lavoro di promozione aiutato anche dall’associazione Terre di Predappio, che riunisce undici produttori del territorio.

Alice-e-Marco
Alice Gargiullo e Marco Cirese

A fianco di Marco nell’azienda c’è la moglie Alice Gargiullo. È lei a parlarmi di ciò che, per primo, mi ha colpito dei vini: le bottiglie. Per realizzare la parte grafica, dall’inizio alla fine, si sono affidati a un art director – non un’operazione di marketing, la loro, ma una vera e propria operazione artistica parallela a quella enologica. “La nostra fascinazione per il mondo degli animali ci ha portato a pescare in alcuni archivi di storia naturale di fine Ottocento” racconta Alice “Volevamo qualcosa che desse un’identità forte, una riconoscibilità immediata. E così abbiamo creato un bestiario contemporaneo”.

A ognuno dei tre vini dell’etichetta Noelia Ricci è stato abbinato un animale. Per il vino d’annata c’è la vespa: “Vive il vigneto, protegge la biodiversità ed è veloce e scattante, di buon auspicio dal punto di vista commerciale. Il nome del vino d’annata è Il Sangiovese, molto semplicemente, per indicare la nostra volontà di puntare su quello”. La scimmia è l’animale del Godenza, perché ha “i piedi ben piantati per terra, ed è longeva, come vorremmo fosse vino più noto. Il ritorno alle origini di come si faceva il Sangiovese”. Infine la balena per il Brò, il Trebbiano: “Qui in età pliocenica c’era il mare, si trovano ancora conchiglie. A 40 km da qui hanno perfino trovato fossili di balena. È un vino salino, giovane, chiamato Brò, lo slang per brother, fratello. Un vino da compagnia”. Marco e Alice mi spiegano passo passo lo studio che hanno fatto per scegliere la visibilità del font, la desaturazione dei colori. Perfino la scatola è speciale: legno grezzo fuori, un’esplosione di farfalle colorate dentro.

Vini-Noelia-Ricci

La visita alla loro cantina mi ha portato a farmi alcune domande: da quando la bottiglia di vino è diventata un oggetto estetico di per sé? Possono essere considerate opere d’arte vere e proprie? Quello di Noelia Ricci è un caso isolato, o esistono altri produttori che escono fuori dal lessico iconografico tradizionale delle bottiglie? Ma soprattutto: queste scelte incidono sui consumi?

Ho quindi deciso di parlarne con il mio amico Davide, mio faro nella notte quando ho qualsiasi domanda relativa al vino, dalle più sciocche alle più interessanti, ma mal formulate – come in questo caso. Davide ci tiene subito a specificare che qui andiamo a parlare non dell’intentio autoris, ovvero le scelte di Marco e Alice, bensì dell’intentio operis, ovvero quello che queste etichette ci comunicano di per sé, relativamente al discorso socio-culturale in cui sono inserite.

I semiologi ci tengono sempre a specificare cose buffe.

NOELIA-RICCI_GODENZA_ETICHETTA
NOELIA-RICCI_BRO_ETICHETTA
NOELIA-RICCI_IL-SANGIOVESE_ETICHETTA


Negli ultimi 10 anni, mi spiega Davide, complice il boom del mercato del vino, c’è stato un maggior investimento nella parte comunicativa e grafica, la stessa cosa che ad esempio è successa nel mondo dell’olio extravergine d’oliva. E un tema cruciale è proprio lo scontro tra tradizione e modernità: “Da un lato hai ‘vecchi’ distretti produttivi e ‘vecchi’ produttori, dall’altro hai nuovi distretti vinicoli, come quello di Predappio, riscoperti da newcomers, spesso di piccole dimensioni, che si affidano a diversi stilemi espressivi. Da questa mediazione tra il vecchio e il nuovo nascono soluzioni interessanti e metadiscorsive, come le etichette finto-classiche”.

Davide conosce bene i vini di Noelia Ricci. “La loro è un’operazione davvero unica. Partendo dalla tenuta Pandolfa hanno inventato da zero una segmentazione e gerarchia qualitativa della loro offerta che si rispecchia, oltre che nella qualità intrinseca dei vini, nei packaging molto diversi tra loro: fascia media per quelli della Pandolfa, fascia medio-alta per quelli di Noelia Ricci”.

Un’etichetta pop e lirica, che però non contiene solo elementi nuovi: “Noelia Ricci punta su tinte desaturate e meno chiassose. Tante altre piccole realtà agroalimentari romagnole optano per una comunicazione vintage, old fashioned. Hanno sposato in pieno una comunicazione anni Sessanta e volutamente naïf. Hipster all’italiana diciamo. È quindi a suo modo un’etichetta territoriale, seppure nuova, che riconduce il vino a un immaginario e un gusto locali formatisi negli ultimi dieci anni”.

Ma questo ha un’influenza sugli acquisti del consumatore? “Il problema è che le qualità del vino non sono facilmente realizzabili dall’etichetta. L’etichetta del vino – come avviene negli altri settori semioticamente affini, quelli del lusso e dei consumi estetici – spiega le caratteristiche del vino contenuto quando il vino è scadente, altrimenti punta sul non detto e sull’iconicità, allo stesso modo in cui una borsa Hermès non ti scrive: ‘Sono bella, funzionale, ci puoi mettere dentro tante cose’“.

Io alla borsa firmata continuo a preferire il vino buono. E ormai, quanto a eleganza e portabilità a una cena raffinata, se la giocano.

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