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Attualità

'Tutti i soldi del mondo': la vera storia del rapimento di Paul Getty a Roma

Quando la 'ndrangheta rapì il nipote di uno degli uomini più ricchi del mondo e questi disse: 'Ho altri 13 nipoti, non pagherò un penny.'
Una scena di Tutti i soldi del mondo.

Questo articolo fa parte della nostra rubrica sugli anni Settanta in collaborazione con Spazio70, una pagina Facebook di approfondimento sociale, culturale e politico su quel periodo della storia italiana.

Nel caso del rapimento di Paul Getty III, avvenuto a Roma nel 1973, ci sono tutti gli elementi di un film: il sequestro di un adolescente squattrinato organizzato dalla 'ndrangheta, un orecchio tagliato e mandato alla stampa, e soprattutto un nonno miliardario che dichiara molto apertamente di non voler pagare. E infatti ora ne è stato fatto un film—Tutti i soldi del mondo, diretto da Ridley Scott e appena uscito in Italia—e anche una serie tv, Trust, diretta da Danny Boyle e in uscita negli Stati Uniti.

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Al momento del rapimento Paul Getty III ha 16 anni, i capelli lunghi e un forte accento quando parla in italiano. Sembra un ragazzo come tanti: è sempre senza soldi e le entrate gli arrivano dalla vendita, nella zona di piazza Navona, di chincaglieria e qualche quadro dipinto da lui. Ma è anche uno dei 14 nipoti dell'ottantenne Jean Paul Getty, capo dell'omonima compagnia petrolifera statunitense e uno degli uomini più ricchi del mondo.

Jean Paul Getty, nonno di Paul Getty III e capostipite della famiglia, viene spesso descritto come un vecchio taccagno dal cuore di pietra che però, nel corso di tutta una vita, ha avuto il merito di ampliare le già cospicue fortune paterne. Di lui si ricorda un curioso decalogo sul come fare soldi e mantenerli: tra gli adagi spiccano "lavorare almeno 16 ore al giorno," "non accettare consigli da nessuno, ma solo soldi," "dare consigli a chiunque, ma mai soldi" e soprattutto "non farsi derubare mai da nessuno e non avere paura di essere chiamati avari."

Il padre di Paul Getty III è uno dei suoi figli, John Paul jr, che nel 1964 divorzia da Gail Harris, la madre di Paul, per sposare l'attrice olandese Talitha Pol, dipendente dall'eroina e che morirà di overdose a Roma cinque anni dopo. John Paul jr non muove molto denaro: il padre gli passa giusto il necessario per mantenere se stesso oltre che l'ex moglie e i quattro figli avuti da lei, che vivono con la madre in un appartamento ai Parioli. La donna riceve 900mila lire al mese e a volte non ha nemmeno i soldi per pagare l'affitto, tant'è che proprio nei giorni del sequestro le arriverà un'ingiunzione di sfratto per morosità.

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Il 13 luglio 1973 nell'appartamento di Gail Harris squilla il telefono. Dall'altra parte c'è una voce sicura, maschile e senza particolari inflessioni dialettali. "Tuo figlio è con noi," le dice la voce. "Prepara i soldi perché si tratta di un rapimento." La donna resta come tramortita. "Ma noi non abbiamo una lira," riesce appena a farfugliare. "Allora telefona al padre, a Londra, e vedrai che i soldi salteranno fuori."

Qualche giorno dopo alla telefonata fa seguito una breve lettera di Paul Getty III. "Sto bene," scrive il ragazzo, "ma se non pagate mi uccideranno. Non è uno scherzo, non prendete sottogamba le minacce dei rapitori." L'allusione è al fatto che molti, a partire dalla stampa, credono che si tratti di un finto sequestro organizzato per spillare soldi al nonno. Una voce che girava già quando Paul era ancora in libertà e che lo preoccupava—come conferma un suo amico, il pittore Marcello Crisi: "Qualche settimana prima di scomparire," dice l'uomo intervistato dal Corriere della Sera, "Paul mi chiese perché questa storia del rapimento stesse diventando così insistente. Se la sentiva ripetere da ogni parte, al punto che pensava gli sarebbe accaduto qualcosa. Più che come uno scherzo cominciava a suonare come una proposta."

Ad alimentare i pericoli, sempre secondo Crisi, contribuivano anche le cattive amicizie di Paul: "Una volta mi chiese in prestito cinquemila lire e mi confidò che doveva pagare il taxi per l'aeroporto dove lo aspettavano dei suoi conoscenti marsigliesi per un breve soggiorno a Saint Tropez, completamente spesato da loro. Non partì ma tornò a Fiumicino con l'autostop. Mi disse che aveva preferito declinare l'invito perché la storia non gli suonava bene."

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Mentre Paul è nelle mani dei rapitori, a tenere banco sono i litigi tra i genitori sulla gestione del sequestro: la madre vorrebbe pagare semplicemente il riscatto, mentre il padre—che nel frattempo rimane a Londra, forse temendo un'incriminazione per la morte della seconda moglie—è intenzionato a supportare la polizia nella ricerca del figlio, stanziando un milione di dollari per chiunque fornisca informazioni utili. In tutto questo, sullo sfondo, si staglia la figura del ricchissimo nonno, che per mesi non fa altro che ripetere la sua totale indisponibilità a pagare un riscatto. "Ho altri 13 nipoti," dichiara, "e non pagherò nemmeno un penny per incoraggiare potenziali rapitori."

Una pagina di giornale dell'epoca. Grab via Archivio La Stampa.

Il 10 novembre 1973, a fine giornata, nella sede del quotidiano Il Messaggero arriva un pacco. A occuparsene è la segretaria di redazione Mirella Di Biagio, tra i cui compiti c'è anche quello di aprire le buste e smistare il contenuto tra i giornalisti presenti in sede. Tra la posta questa volta compare una busta indirizzata alla "Direzione generale del Messaggero."

Dato che si tratta di qualcosa di inconsueto, la segretaria decide di aprire con accortezza, temendo un pacco bomba. Dentro trova solo un biglietto scritto a macchina e un piccolo contenitore di plastica come quelli dei cerotti. Quando però solleva leggermente la linguetta di apertura, rimane come paralizzata: non ha nemmeno la forza di gridare e resta semplicemente lì, immobile. Prima di sentirsi male riesce a chiamare il capo cronista e gli altri redattori: quando finalmente accorrono, il suo urlo viene udito in tutta la sede del giornale.

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"Siamo i rapitori di Paul Getty III," si legge nel biglietto scritto in un italiano molto approssimativo, "e come vi avevamo promesso una ventina di giorni fa, vi mandiamo un orecchio del ragazzo. Come vedete noi facciamo sul serio mentre i Getty ci pigliano in giro. Sappiate che se entro dieci giorni non avrete pagato vi invieremo il secondo orecchio e poi altri pezzi anatomici."

L'invio dell'orecchio al Messaggero convince tutti che non è il caso di perdere altro tempo. Qualcuno organizza collette per salvare Paul mentre Gail Harris, abbandonata da tutti, non sa più cosa fare e prova ad appellarsi al presidente Nixon perché convinca il vecchio Getty a pagare il riscatto.

L'orecchio mozzato è anche la prova che dietro al rapimento c'è un'organizzazione criminale potente e ramificata. Quando sul reperto vengono fatti esami approfonditi, si scopre che è stato reciso da un chirurgo esperto: con un bisturi, calato dall'alto verso il basso e poi dal basso verso l'alto prima del taglio finale. A colpire sono la precisione della lacerazione, la regolarità dei margini e—soprattutto—la presenza di tracce emorragiche nel tessuto cartilagineo, appositamente conservate con un fissatore a base di alcol e formalina. Il chirurgo, insomma, ha previsto che l’orecchio sarebbe stato sottoposto agli esami di un medico legale e ha fatto in modo di non cancellare le tracce dalle quali risultava che il reperto apparteneva a una persona viva.

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Questa scoperta convince i Getty a pagare. Vengono messi insieme poco meno di due miliardi in banconote da 10mila, 50mila e 100mila lire, in buona parte provenienti dalle finanze del nonno. Anche a realizzare il contatto coi rapitori ci pensa un emissario di Jean Paul Getty, partito in auto da Roma e diretto a sud. Il pagamento avviene il 12 dicembre, cinque mesi dopo il rapimento. Paul viene lasciato libero, sotto una pioggia gelida, nei pressi di Lagonegro, lungo la Salerno-Reggio Calabria: a trovarlo, intirizzito e affamato, è un camionista di passaggio. "Sono Paul Getty," dirà il ragazzo ai carabinieri, "datemi una sigaretta: guardate, mi hanno tagliato un orecchio."

Quando Jean Paul Getty apprende della liberazione del nipote dalla sua casa di campagna nel Surrey, presso Londra, ha una reazione sorprendente. "È il più bel regalo possibile per i miei 81 anni," dice al Sunday Telegraph. Il padre del ragazzo invece manifesta sentimenti differenti: "Voglio dedicare il resto della mia vita allo sforzo di insegnare agli italiani il significato della parola vendetta," dice a un giornale inglese. "Quelli del rapimento faranno bene a dormire sempre con un occhio aperto."

E in effetti, qualche anno dopo, nell’infermeria del carcere di Poggioreale viene ucciso a coltellate il boss della 'ndrangheta Domenico Tripodo, sospettato di essere il mandante di almeno cinque omicidi e sequestri di persona—tra cui appunto quello di Paul Getty III. La vicenda giudiziaria del sequestro Getty, invece, si concluderà definitivamente soltanto nel febbraio del 1980, quando la Cassazione, confermando sostanzialmente la precedente sentenza della Corte d’Appello di Potenza, condannerà il clan dei calabresi Lamanna-Mammoliti a 36 anni complessivi di carcere.

Paul Getty III non si è mai ripreso del tutto dall'esperienza. Dopo essere stato liberato ha lasciato subito l'Italia per New York, dove per qualche periodo ha frequentato Andy Warhol e il suo gruppo di artisti. Nel 1981, in seguito a una overdose di valium e metadone, ha avuto un infarto che lo ha lasciato paralizzato, cieco e non autosufficiente. È morto nel 2011 in una villa di famiglia nel Buckinghamshire, in Inghilterra.

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