Lo spettacolo su Lester Bangs ti fa capire che la critica musicale è morta
Fotografie di Craig Schwartz

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Musica

Lo spettacolo su Lester Bangs ti fa capire che la critica musicale è morta

Probabilmente il famoso critico sarebbe schifato da come funziona oggi il giornalismo musicale, tra spam, condivisioni e paura di sbagliare.

L'anno scorso, in un articolo pubblicato sulla Paris Review, il Critico dei Critici Rock Americani Robert Christgau mi ha definito il Lester Bangs di questa generazione, anche se non sono esattamente sicuro del motivo per cui l'abbia fatto. Forse è per il fatto che, proprio come il leggendario Bangs, che morì più o meno quando aveva i miei 33 anni, ho la reputazione di uno scrittore pugilistico. Inoltre sono un ardente e disperato difensore del rock, e non ho letteralmente mai lavato un paio di jeans. Quindi quando ho saputo dell'esistenza di How to Be a Rock Critic, uno spettacolo teatrale sulla vita di Bangs, ho pensato che avrei dovuto rendere omaggio al mio predecessore facendomi lo sbattimento di andare a vedere la sua storia recitata su un palco.

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Ci tengo a precisare una cosa: Lester Bangs non è il mio dio. Non è il motivo per cui ho cominciato a scrivere di musica e non lo venero come molti altri scrittori (maschi). A dire la verità, trovo che la sua scrittura sia scalcagnata. Al suo meglio, la sua prosa critica in stile gonzo era legittima e rivoluzionaria, e creò un modello che venne spudoratamente copiato da una moltitudine di critici in potenza. Ma quando era nei suoi momenti peggiori, Bangs vaneggiava sul nulla proprio come Nonno Simpson quando raccontava della cipolla sulla sua cintura.

I creatori di How to Be a Rock Critic, Jessica Bank (la regista) ed Erik Jensen (che interpreta Bangs), hanno basato la loro ricerca per la stesura del copione sull'intero corpus di scritti di Bangs, e hanno parlato con diversi suoi amici registrando interviste. Lo spettacolo è un monologo, probabilmente il formato più adatto a raccontare la storia di una persona che scrive di musica data la sua qualità masturbatoria. Il tutto è ambientato su un set decorato in modo tale da sembrare l'appartamento di Bangs, sporco e incasinato, pieno di lattine di birra, medicinali e pile di LP di Van Morrison e dei Velvet Underground.

Nonostante si intitoli "Come fare il critico rock", lo spettacolo non è una guida per aspiranti scrittori né una fedele biografia di Bangs. Passa per alcuni elementi chiave della sua vita, quello sì: racconta la sua infanzia e la sua educazione sotto i precetti dei Testimoni di Geova, la sua ossessione per Burroughs in fase adolescenziale, quella volta che fu testimone di uno stupro di gruppo da parte degli Hell's Angels, le sue esperienze nel panorama rock and roll degli anni Sessanta e Settanta. Ma quello che il monologo cerca di fare è mostrare al pubblico come questa persona incapace di smettere di esprimere opinioni sugli album che ascoltava, quasi fosse una malattia, usava la sua ossessione, cioè la musica, per criticare il mondo intero. Quella di Bangs era un'infinita ricerca del significato di ogni cosa, e procedeva un accordo alla volta. Bangs era un uomo che poteva ascoltare una canzone di James Taylor e sputare fuori 900 parole che spiegavano perché rappresentava tutto ciò che c'era di sbagliato nella società. E inoltre probabilmente sapeva fare mainsplaining su "Wild Thing" dei Troogs con l'unico scopo di rimorchiare.

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E nonostante questo tutto ciò a cui sono riuscito a pensare mentre guardavo lo spettacolo era quanto il mestiere è cambiato da quando Bangs si licenziò con un'overdose nel 1982, ascoltando Dare! della Human League. Ci penso ogni volta che lo vedo immortalato in Almost Famous, il celebre film di Cameron Crowe del 2000. Intepretato da Philip Seymour Hoffman, Bangs dà dei consigli al protagonista del film, un aspirante scrittore rock dal nome William Miller. È una situazione in cui mi sono trovato un po' di volte: un universitario mi invita a prendere un caffé e mi guarda con gli occhi spalancati mentre cerca di carpirmi consigli su come cominciare a scrivere di musica per lavoro, e io gli dico di iscriversi a giurisprudenza. I consigli di Hoffman nel film sono leggermente più utili: "Se vuoi diventare un giornalista rock, non ti pagheranno mai molto, ma ti regaleranno un sacco di dischi".

Bé, mi spiace per tutti i piccoli William Miller là fuori, ma eccovi una notizia che farebbe meglio a farvi riflettere: siamo nel 2018 e continuano a non pagarci molto. Anzi, se consideriamo l'inflazione devo dire che in proporzione prendiamo molto meno che un tempo, e dobbiamo anche mandare una serie infinita di mail a vari reparti contabilità per far sì che i soldi che ci sono dovuti arrivino veramente. Questo quando il compenso che ci viene proposto non è solo "visibilità". E le etichette non ti mandano più dischi gratis, e la tua mail è una buca innavigabile di link ad Haulix scaduti, account SoundCloud spammati e uffici stampa che vogliono "sapere se hai aggiornamenti". Le etichette più grandi stanno diventando piuttosto conservative riguardo agli album più grossi che pubblicano, tra l'altro, e quindi solitamente te li mandano da ascoltare su una qualche inguardabile piattaforma di streaming nativa che chiede al giornalista, dopo avergli fatto cliccare migliaia di volte su vari pulsanti "Accetto i termini", di restare seduto al proprio computer e ascoltare ogni canzone individualmente schiacciando play ogni singola volta. Proprio come l'arte dovrebbe essere assorbita!

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Proprio come quella scena di Almost Famous, How to Be a Rock Critic è pieno di momenti che mi hanno trascinato dall'appartamento scalcagnato di Bangs a New York e portato con il pensiero al mondo moderno (in cui lo stesso edificio è stato comprato da un imprenditore che ora fa pagare l'affitto dieci volte tanto, ne sono sicuro). Fin dall'inizio Bangs, che Jensen interpreta più con un tremolio alla Jim Carrey che con una compostezza alla Philip Hoffman, presenta chiaramente al pubblico il cruccio principale della sua carriera: "Non guadagni tanto, non ti fa scopare. E allora perché farlo?"

Fare il critico, dice, "significa voler infliggere il tuo gusto alla gente", e il risultato è che "la maggior parte delle persone ti odieranno e te lo diranno in faccia". Questa, nel 2018, è solo una mezza verità. La gente ti odia, è vero, ma nessuno te lo dice in faccia. Scelgono invece di commentare su Facebook, mandarti email minacciose e rispondere ai tuoi tweet. Io ci sono passato più volte: sono anche stato insultato dal palco a qualche concerto, ma non sono mai stato immortalato in forma canzone come è successo a Bangs. Comunque vorrei consigliare a tutte le band che volessero tentare l'impresa che il mio cognome fa rima con "Nazi".

Bangs era un bisbetico asociale che preferiva avere ragione invece di essere amico della gente, e quindi è difficile immaginarlo nella monocultura tutta like della blogosfera attuale. Se una combinazione fatale di Valium e NyQuil non avesse messo troppo presto la parola "fine" alla sua carriera, probabilmente lo avrebbe fatto Twitter. Probabilmente gli sarebbe piaciuto avere uno scatolotto in cui buttare dentro le sue neurosi per gridarle al mondo una per una, ma sarebbe anche inorridito dalla mentalità di gruppo che genera a livello di piattaforma. Non so quanto tempo l'essere umano medio passi a leggere e scrivere di musica su Twitter, ma lasciate che ve lo dica: è una fogna. Da un lato è un modo fantastico per scoprire nuovi artisti—hai un accesso diretto a editor, artisti e testate, e restare al passo con le varie conversazioni. Dall'altro, è una camera di riverberazione in cui chi scrive di musica dà pacche sulle spalle ai suoi colleghi per le loro Ottime Opinioni e insulta i dissenzienti—un'enorme sega di gruppo i cui partecipanti sono convinti di essere in mezzo a un'orgia. Questo, a sua volta, si riflette sugli articoli che vengono scritti, come in un Human Centipede di contenuto.

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La cosa che noi giornalisti musicali facciamo troppo poco spesso è analizzare e sviscerare la cosa, e scegliamo invece di scrivere della narrazione che circonda la cosa. O scriviamo pezzi di risposta a critiche di altri autori come se fossimo in una sorta di serata slam poetry sfigata. E così facendo, scriviamo per un pubblico composto da… non saprei, in realtà. Non lo facciamo per la nostra edificazione, come faceva Bangs, e certamente non lo facciamo per chi legge. Scriviamo per altri scrittori, o per l'afflusso di dopamina delle notifiche, per i cuori e i like e i checazzoneso. Inseguiamo i click, e il numero di condivisioni è tristemente diventato un indicatore di successo giornalistico. Se il vecchio Lester dovesse mai tornare in vita, che nessuno gli dica che Medium ha proposto di pagare gli scrittori in base a quanti "clap" riuscivano a racimolare.

La cosa più pericolosa è che troppi giornalisti musicali dell'era internettiana sembrano scrivere per gli artisti stessi. Chi scrive è incentivato a parlare bene del soggetto dei suoi articoli. Dopotutto, una condivisione o un retweet da parte loro potrebbe far innalzare quei dolci, dolci dati di traffico, e quindi innalzare il capitale sociale dell'autore (che, come dicevo, è l'unico capitale che potete accumulare facendo questo lavoro). Se volete farvi un'idea di come funziona e sentirvi come quando avete scoperto come si fanno i wurstel, mi arrivano continuamente pitch di uffici stampa che mi presentano gli artisti usando i loro numeri sui social come prima informazione ("64k Facebook / 39k Instagram / 23k Twitter"). Così il confine tra ufficio stampa e scrittore si fa nebbioso, e la critica devolve in un ibrido omogeneo di frasi fatte da comunicato e chiacchiere pseudo-filosofiche scritte come si scrive su internet basate in gran parte sulla venerazione delle pop star. Questo toglie valore alla parola scritta e crea un miscuglio di opinioni e pensieri che si perdono in un enorme mare di nulla.

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Detto semplicemente, chi scriva ha paura di sbagliarsi, il che è comprensibile. A differenza di quanto succedeva ai tempi di Bangs, quando un errore su Creem veniva prontamente seppellito sotto a una pila di nuove uscite da impilare sul pavimento del bagno, quello che scrivi su internet ci resta per sempre. Come ho già scritto, le recensioni musicali si sono fatte sempre più positive con il passare degli anni, mentre quelle negative stanno diventando sempre più rare. Bangs sarebbe inorridito, lui che parlò così male dell'iconico debutto dei Black Sabbath che Ozzy Osbourne lo definì una testa di cazzo pretenziosa nella sua autobiografia, pubblicata 40 anni dopo. Oggi i giornalisti musicali tendono a restare sul sicuro, a trattare artisti intoccabili coi guanti e a sputare sentenze e ironia contro bersagli semplici, zimbelli troppo famosi per esserne danneggiati, gente come Ed Sheeran o i Coldplay.

Questo vale non solo per i giornalisti ma per le testate stesse, almeno le poche che sono rimaste in vita—quelle che verranno sicuramente presto assorbite da società più grandi e potenti finché non arriveremo alla singolarità dei contenuti. Questo conflitto non è però niente di nuovo. A un certo punto, in How to Be a Rock Critic, Bangs si lamenta di come Rolling Stone abbia iniziato a rifiutare le sue recensioni perché erano, tipo, troppo vere, amico—distruggendo artisti che si meritavano di essere criticati, stava privando la rivista di preziosi investimenti pubblicitari da parte delle loro etichette. L'anno scorso MTV News, che è stato poi chiuso, cancellò una critica neanche troppo cattiva nei confronti di Chance The Rapper soccombendo alle pressioni del suo manager.

In How to Be a Rock Critic ci sono alcuni temi importanti allora quanto oggi. Per esempio, Bangs parla di come nel 1972 già si credeva che il rock fosse morto mentre lui continuava a difenderlo. Il pubblico, che mi sembrava composto in maniera predominante da ascoltatori di rock non proprio giovanissimi, si sono fatti una bella risata pensando che gli anni Settanta potessero non essere considerati un periodo glorioso per il loro genere preferito. Ma, come Saturday Night Live, il rock and roll è una di quelle cose che la gente pensa sempre fosse meglio prima, in un tempo fiabesco e indistinto, e così non riesce ad apprezzare il presente. Anzi, potremmo dire che difendere lo stato del rock contemporaneo è diventato un argomento basilare per ogni giornalista rock che voglia tentare questa carriera.

Un'altra cosa ancora valida viene fuori nel momento in cui Bangs si vanta che, scrivendo di rock, puoi "farti cinque seghe al giorno, ascoltare dischi, e guardare la TV". Ed è vero. È l'unico vantaggio che i giornalisti hanno nei confronti dei loro amici che fanno la dichiarazione dei redditi.

Non sono ancora decisamente sicuro del perché mi hanno paragonato a Bangs. Ma recensendo uno spettacolo sulla sua vita mi sono trovato a lamentarmi, a buttare fuori paranoie personali, ho sparato merda su un sacco di gente e ho vagato così tanto con la mente che quasi non ho parlato dell'argomento dell'articolo. Spero di avergli fatto fare un sorriso.

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