Siamo entrati a Parco Verde, il ghetto più inaccessibile e violento d'Italia
Il quartiere Parco Verde a Caivano, in provincia di Napoli. Tutte le foto sono di Enrico Nocera.

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Siamo entrati a Parco Verde, il ghetto più inaccessibile e violento d'Italia

Un ex spacciatore per i clan di camorra, oggi attivista, ci ha accompagnato all'interno di uno dei luoghi a più alta concentrazione criminale del paese, in Campania.

Questo articolo è comparso originariamente su VICE News.

L'asse mediano è un solco d'asfalto che taglia in due l'entroterra a Nord di Napoli, fino al confine con la provincia Sud di Caserta.

È percorrendo questa strada, nel cuore della zona conosciuta in tutta Italia come "terra dei fuochi", che si raggiunge Caivano, paese di 37mila abitanti, un tempo noto per la coltivazione di pomodori e cavolfiori.

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Caivano, nel giro di trent'anni, si è parecchio trasformata. Il cemento ha preso il posto dei campi arati, creando periferie senza identità che segnano, ormai, la fisionomia stessa del territorio.

Fra queste c'è il Parco Verde: una delle piazze di spaccio più grandi d'Europa.

Nel 1980, uno dei terremoti più disastrosi che l'Italia ricordi provocò quasi tremila vittime in Campania, la maggior parte delle quali in Irpinia. L'anno dopo, la Legge 219 – cosiddetta "post-terremoto" – dispose, fra le altre cose, la costruzione di alloggi alternativi per gli oltre 280mila sfollati.

Il Parco Verde di Caivano nasce così: con una legge che stanziò millecinquecento miliardi di lire fuori bilancio e che diede il via a una delle più grandi speculazioni edilizie che il Meridione ricordi.

Tant'è vero che, da sistemazione provvisoria, il Parco Verde si è trasformato in rione residenziale permanente. Un ghetto abitato da reclusi in casa, fisicamente separato dal resto della cittadina, segnato da stradoni perpendicolari di cui nessuno ricorda più il nome.

Il Verde che definisce il Parco non è quello di aiuole o giardini, ma quello sbiadito dei palazzi che sorgono uno dopo l'altro in fila, con ampi cortili interni dove il narcotraffico è l'attività quotidiana più diffusa.

"Qua dentro le piazze di spaccio non si contano. In un quartiere abitato da circa seimila persone, compresi i bambini, sono oltre seicento quelle che vivono di traffico di stupefacenti," spiega a VICE News Bruno Mazza, responsabile dell'associazione Un'infanzia da vivere.

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L'associazione nacque nel 2008 per stare vicina ai bambini del Parco Verde e per fornire loro un percorso di vita alternativo alla quotidianità malata che hanno sotto gli occhi.

"Cocaina, eroina, kobret, marijuana, ecstasy. Non manca niente. Dopo tutta l'attenzione mediatica su Scampia, lo spaccio si è spostato in massa al Parco Verde, qualche chilometro più su rispetto alla periferia di Napoli."

In questa zona di Caivano la droga è quasi una cifra distintiva: "Da qui partono corrieri per ogni città d'Italia, mentre la gente si buca ogni giorno, quasi per abitudine. Con 15 euro riesci a mettere assieme una dose di eroina che poi vai a iniettarti qua di fronte, nei campi coltivati. Io stesso, la mattina, vado a raccogliere le siringhe che i tossicodipendenti lasciano per terra. In un giorno solo ne raccolsi seicentocinquanta. Seicentocinquanta."

Passeggiando nel Parco, Bruno racconta la sua storia e quella del suo rione. "Io abitavo nel quartiere Sanità, a Napoli," racconta Mazza.

"Fui deportato qui assieme alla mia famiglia pochi anni dopo il terremoto, nel 1986. Dovevamo restare qualche mese negli alloggi provvisori, in attesa di una sistemazione definitiva. Dopo più di trent'anni noi, come tutti gli altri, stiamo ancora qua."

Oggi Bruno ha deciso di dedicare la sua vita al volontariato. Una scelta non casuale, nata da un passato molto diverso: "A 12 anni avevo già cominciato la mia carriera criminale. Scippi e rapine non si contavano, arrivavamo a farne anche trenta o quaranta al giorno. Una volta, con degli amici più grandi, rubammo la paletta al comando dei vigili, qui nel Parco Verde, e un lampeggiante al presidio ospedaliero. Ci mettemmo sull'asse viario Nola-Villa Literno e cominciammo a fingerci poliziotti organizzando finti posti di blocco. Rapinavamo tutti quelli che si fermavano. Con quei soldi andavamo poi a comprare la droga con la quale ci imbottivamo."

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IL "MARCHIO" DI PARCO VERDE

Dal Parco Verde al carcere il passo è stato breve: a 14 anni e mezzo Bruno viene arrestato e rinchiuso nell'istituto minorile di Nisida, per poi essere trasferito ad Airola, provincia di Benevento.

Un percorso durato due anni, al termine dei quali aveva ormai alle spalle un curriculum che attirò l'attenzione di Alfredo Russo, boss dell'omonima famiglia camorristica a Nord di Napoli. Bruno fu messo così a capo di alcune piazze di spaccio della zona. A 18 anni, assieme ad altri 13 ragazzi, faceva parte della manovalanza armata del più temuto capoclan del Parco Verde.

"Sì, eravamo quattordici, tutti coetanei. Oggi io ho 35 anni. A questa età siamo arrivati solo in due. Gli altri dodici sono tutti morti per overdose di eroina, faide di camorra, suicidi".

A salvare Bruno, almeno inizialmente, fu di nuovo il carcere: "Ero ormai diventato il punto di riferimento nelle piazze di spaccio di questo rione. Fra le mie mani giravano milioni di lire come fosse niente. Fu allora che venni bloccato dalla polizia, mentre ero in moto."

"Avevo in una tasca la pistola, e nell'altra la foto di uno che doveva essere punito per uno sgarro. La questura fece due più due e io venni arrestato perché ritenuto colui al quale era stato commissionato il delitto. Fui condannato a quattro anni, che diventarono poi dieci più otto mesi, perché il boss Russo si pentì e cominciò a fare i nomi dei suoi collaboratori."

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Nel 2006 la vita di Bruno cambia definitivamente. "Mio fratello muore per overdose. Nel suo letto. S'è addormentato e non s'è più svegliato. Mi sentivo e mi sento tuttora responsabile della sua morte. Come mi sento responsabile delle morti di tutti quei ragazzi che venivano a comprare la droga da me."

Dalla sua finestra, al quarto piano di uno dei tanti palazzi popolari, Bruno guardava i bambini del Parco Verde fare le stesse cose che faceva lui vent'anni prima. Droga, rapine, scippi, atti vandalici, aggressioni. Un modo come un altro per vincere la noia in un rione dove già nascere ti marchia."

"È questo marchio che ora voglio cancellare", dice Bruno. "Qui dentro ci sono milleduecento minori a rischio. Milleduecento, tra bambini e adolescenti, condannati a un futuro criminale. Un futuro di morte, senza alternative."

I dati di cronaca, oltre all'evidenza che si para come un pugno in fronte a chi percorre le vie di questo parco residenziale, confermano le parole di Mazza.

L'isolato numero 3 del Parco Verde ospita le case gestite dall'Iacp (Istituto Autonomo Case Popolari), che stabilisce gli aventi diritto all'alloggio popolare in base a una graduatoria pubblica.

Almeno in teoria. In pratica quelle case sono occupate da centinaia di inquilini abusivi. Nella sola provincia di Napoli, secondo i dati diffusi dallo stesso Istituto, sono circa 1500. Famiglie spesso affiliate a una cosca camorrista. Gli stessi clan che da queste parti decidono, in piena autonomia, chi deve occupare, e per quanto tempo, quegli stabili.

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L'ECATOMBE DEI BAMBINI

L'isolato numero 3 è anche quello dove, il 24 giugno 2014, fu trovato il corpo di Fortuna Loffredo, una bambina di 6 anni precipitata dall'ottavo piano del palazzo dove abitava.

Le indagini della procura di Napoli Nord, coordinate dal procuratore Francesco Greco, portarono all'arresto di Raimondo Caputo, un vicino di casa della famiglia Loffredo, accusato di continui atti di violenza e pedofilia nei confronti della piccola Fortuna nonché del suo omicidio.

La piccola, secondo i pm, si era ribellata alle ennesime violenze di Caputo. Il quale, perdendo la testa, l'avrebbe presa in braccio e scaraventata giù dal balcone di casa.

Un anno prima, il 27 giugno 2013, un altro bambino di quattro anni, Antonio Giglio, cadde dal balcone di casa sua al settimo piano, nello stesso palazzo di Fortuna. La madre di Antonio, Marianna Fabozzi, era la compagna di Raimondo Caputo, che venne accusato anche di violenze sessuali nei confronti di una figlia della stessa Fabozzi.

Bruno Mazza.

La bambina di soli tre anni, sorella di Antonio, era stata costretta "a subire atti sessuali in presenza della madre, la quale sebbene a conoscenza dei comportamenti assunti dal convivente ai danni della bimba, non li impediva, omettendo altresì di denunciarli", come scrive la procura di Napoli Nord.

Sulla morte del piccolo Antonio indaga oggi la procura di Napoli Nord, dopo due anni in cui si era sempre pensato a un incidente.

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Un incrocio di depravazioni e orrori da cui nessuno può dire di uscire immacolato. Lo stesso soccorritore di Fortuna, Salvatore Mucci, l'uomo che la trovò agonizzante e la portò in ospedale con la speranza di salvarla, venne arrestato il 23 dicembre 2014 con l'accusa di abusi sessuali sulla figlia.

"Solo in quel palazzo lì ci sono 32 famiglie, due bambini morti e quattro persone arrestate per pedofilia," sintetizza Bruno Mazza. Un palazzo dove tutti sapevano, tutti vedevano, nessuno parlava.

L'omertà del Parco Verde va oltre lo stereotipo che dipinge un Meridione in cui tutti si fanno i fatti propri. Il silenzio qui è spesso l'unica via per garantirsi un'esistenza tranquilla, per quanto quella vissuta in un ghetto possa dirsi tale.

Al Parco Verde le finestre e gli ingressi degli androni sono perennemente chiusi.

In pochi tirano la testa fuori, spesso solo per il tempo necessario a stendere i vestiti o fumare una sigaretta. In alcuni palazzi i pusher sono appostati dietro i portoni d'ingresso per controllare il rado viavai degli inquilini.

Poco più in là, nel sottoscala, due persone si bucano, guardate a vista da un altro pusher che blocca le scale. Nessuno può salire o scendere prima che i due non abbiano finito di iniettarsi l'eroina nelle vene.

Nel palazzo di Fortuna e Antonio, come in tanti altri, si vive così. Ogni giorno. Controllati giorno e notte da secondini armati che spacciano droga e contano mazzette di banconote un migliaio di euro alla volta. Tanto che Bruno consiglia di nascondere la macchina fotografica: "Non ci mettono niente a scambiarla per una pistola."

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"Qua l'ottanta per cento degli abitanti è disoccupato," dice Mazza. "Gran parte di loro spaccia per guadagnare, come facevo io a 18 anni. All'epoca io arrivavo a tirare su fino a dieci milioni di lire a settimana, ora il giro si è praticamente triplicato. Dal 1986 a oggi, in questo rione sono morti 32 ragazzi, la maggior parte per overdose."

Altri invece sono morti con un proiettile in corpo. Il 13 ottobre 2014 viene ucciso un ragazzo di 25 anni, Emilio Solimene, con precedenti per spaccio. Pochi mesi prima, l'8 agosto, la vittima è un pregiudicato di nome Gennaro Amaro, 51 anni, condannato a dodici anni di carcere per traffico di stupefacenti e detenzione abusiva d'armi.

Nel vano dell'ascensore del suo palazzo vengono ritrovati un fucile calibro 12 a canne mozze, un giubbotto antiproiettile, una pistola calibro 8 e trentasei cartucce.

L'abbandono è visibile in ogni declinazione, dalle strade piene di auto rubate e poi bruciate, agli edifici dall'intonaco scrostato che conservano ancora le vecchie coperture in amianto. Sono gli alloggi cosiddetti "a riscatto", l'edilizia pubblica degli anni Ottanta dove l'Eternit veniva utilizzato a profusione perché a basso costo e con un grande potere termoisolante. Oggi, dopo trent'anni, quell'amianto di copertura sui terrazzi c'è ancora.

COME NASCE UN GHETTO ITALIANO

Nel 1994, la Legge 109 sulla Programmazione Finanziaria Triennale della Regione Campania, stanziò dieci milioni e mezzo di Euro per le palazzine costruite grazie alla Legge "post-terremoto" del 1981.

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Oltre sette milioni di euro erano destinati al completamento delle strutture, altri 3 milioni circa per il recupero e la riqualificazione degli stabili. Le cifre, erogate direttamente dalla Regione Campania, furono destinate al Comune di Caivano, che provvide alla gara d'appalto, vinta dalla ditta IGI.CA, al 51 per cento di proprietà dello stesso Comune e al 49 per cento di proprietà di Italia Lavoro.

L'esecuzione dei lavori fu affidata da IGI.CA a una ditta di Somma Vesuviana, la Mafra, che a sua volta subappaltò alla Costruzioni Generali di Afragola, Comune non lontano da Caivano. Su quei cantieri, partiti solo nel 2005, morì un operaio, Ciro Leonardo, 17 anni, caduto dal settimo piano mentre lavorava alla facciata dell'edificio A174, lotto giallo del Parco Verde.

"Qui non esiste un solo cantiere regolare," dichiarò un imprenditore locale a Repubblica dopo la morte del giovane Leonardo. "Non c'è una sola tabella con l'indicazione del responsabile della sicurezza. Eppure qui, nei lavori di pubblica ristrutturazione, si è investito qualcosa come 10 milioni di euro."

"Non sono mai stato in zone di guerra, ma lavorare come volontari per l'infanzia al Parco Verde di Caivano credo non sia molto diverso," dice Bruno. Il risultato del suo impegno è davanti a tutti, lungo la strada che lambisce l'ingresso dell'asse mediano, dove ha fatto costruire due campetti da calcio.

Prima del 2008, quando Un'infanzia da vivere non esisteva, i bambini del Parco Verde non avevano alcun posto dove potersi radunare e giocare assieme; solo il cortile della parrocchia o la sala giochi di fronte, "dove i tossicodipendenti vanno a chiedere i venti centesimi per 'apparare' i quindici euro," spiega Bruno.

Anche qui i bambini non sono del tutto al riparo da quelle che Bruno definisce "le evidenze quotidiane." A pochi metri, oltre la strada, c'è un fazzoletto di campagna dove la gente si inietta le dosi: "È un viavai continuo, impossibile contarli. Sono centinaia ogni giorno."

Fra loro c'è Saverio, un ragazzo di 34 anni che ne dimostra almeno venti in più. Il corpo magro, macilento, gli occhi che sembrano uscire dalle orbite, espressione assente. Anche quando Bruno lo prende a male parole: "Si è bucato un'altra volta, 'stu strunz'. Guarda qua: tiene la mia età e pare mio nonno. L'ho portato tante di quelle volte in comunità che non hai idea. Però scappa sempre. Sta sempre qua a iniettarsi quella cazzo di eroina. Sempre." Eppure, nonostante tutto, Bruno non si arrende. E porta avanti i suoi progetti.

Assieme ai campetti, Bruno ha fatto rimettere a nuovo la villetta comunale, con le giostre, le aiuole e gli scivoli. Lo scorso agosto, tre ragazze diplomate all'Accademia di Brera sono giunte qui da Milano per colorare, assieme ai bambini del Parco Verde, panchine e fontane; per restituire un minimo di dignità a uno spazio pubblico dove, nel corso degli anni, sono stati ritrovati i corpi di sei persone morte per overdose.

"Abbiamo in programma di creare orti sociali, un campetto polifunzionale da calcio, basket e pallavolo, un piccolo anfiteatro per spettacoli all'aperto. Non ti sto parlando di sogni, ma del futuro di questo spazio. Abbiamo vinto un bando che ci permetterà di togliere qualche bambino dalla strada, tenerli lontani dalle piazze di spaccio che li circondano."

"Qui basta distrarsi un attimo, non hai nemmeno il tempo di crescere e capire cosa ti sta succedendo intorno, te lo dico per esperienza vissuta. Ma io non voglio che questi bambini abbiano la stessa adolescenza che ho vissuto io. A costo di morirci, qua dentro. Non li posso abbandonare."

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