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Dovremo aspettare ancora un po' per avere spiagge senza plastica in Italia

Due ordinanze che vietavano la plastica usa e getta in Puglia e Sicilia sono state bloccate dai Tar perché insensate per lobby e associazioni di categoria. Cosa significa?
Giulia Trincardi
Milan, IT
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Nelle ultime settimane ha fatto notizia la decisione di due Tar regionali—in Puglia e Sicilia—di revocare il veto alla plastica usa e getta sulle spiagge e in alcuni comuni locali, che era stato deciso dalle due regioni già questo inverno. La reazione dell’opinione pubblica al cambio di rotta è stata—comprensibilmente—piuttosto negativa.

Nella complessa lotta al cambiamento climatico che aspetta il genere umano nei prossimi anni, la riduzione dello spreco è un passaggio fondamentale e, in casi come quello della plastica usa e getta, è anche una manovra apparentemente tra le più semplici e immediate da implementare, con benefici pressoché immediati. Non abbiamo davvero bisogno di piatti e bicchieri di plastica o di cannucce: smettiamo dunque di usarli subito, no?

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A partire da questo inverno, sono state diverse le località e regioni italiane ad aver fatto proposte di legge in favore di un passaggio al “plastic free” entro il 2020 o prima—in anticipo, comunque, sulle tempistiche europee—tra cui, appunto anche Puglia e Sicilia, mete dove il turismo estivo ha un enorme impatto ambientale: pensate al consumo di plastica che si fa spesso nei lidi, ma anche alle sagre di paese.

Cosa è successo, allora?

I due Tar hanno accolto un ricorso mosso da associazioni di categoria e lobby, per cui eliminare la plastica già quest’estate da lidi e strutture turistiche sarebbe impossibile: la conversione a materiali sostitutivi (compostabili o biodegradabili) richiederebbe, a loro avviso, più tempo. È stata dunque chiesta una proroga alla prossima estate per allinearsi con le disposizioni regionali, e i Tar hanno accordato la richiesta, che verrà discussa nuovamente i primi mesi del 2020.

La plastica è, senza dubbio, un problema serio per le spiagge e i mari italiani: stando al report di Legambiente pubblicato a maggio 2018 in seguito all’indagine “Beach litter 2018,” sulle 78 spiagge monitorate—per “un’area complessiva di 416.850 mq (pari a circa 60 campi di calcio)”—sono stati rinvenuti 48.388 rifiuti, con “una media di 620 rifiuti ogni 100 metri di spiaggia (lineari) campionata,” ovvero “6,2 rifiuti ogni metro di spiaggia.” E l’80 percento di questi rifiuti, sottolinea il report, è plastica.

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“Oltre la metà dei rifiuti raggiungono le spiagge perché non vengono gestiti correttamente a terra,” si legge nel report dell’anno scorso. “La cattiva gestione dei rifiuti a monte è, infatti, la causa principale del continuo afflusso dei rifiuti in mare. Ma non è la sola. Anche i rifiuti abbandonati direttamente sulle spiagge o quelli che provengono direttamente dagli scarichi non depurati e dalla cattiva abitudine di utilizzare i wc come una pattumiera.”

Entrambe le ordinanze respinte erano modellate sulla direttiva europea 2019/904 approvata il 5 giugno scorso, con cui l’Unione Europea prevede la messa al bando assoluta di cose come posate, piatti, cotton-fioc, contenitori di polistirolo, cannucce, e palloncini a partire dal 2021 in tutti gli stati membri.

L’inghippo del caso pugliese starebbe però in come è stata interpretata la messa al bando in particolare delle bottigliette PET, che non sono nominate nella direttiva europea, e a difesa delle quali si è schierata una serie di associazioni di categoria di produttori di bevande. Stando però alle parole riportate da National Geographic dell’avvocato che ha invece sostenuto l’ordinanza insieme al WWF, per le bottigliette PET era prevista proroga fino a fine settembre e non potevano dunque rappresentare un passo più lungo della gamba per la regione.

Nel caso invece della Sicilia, il ricorso contro l’ordinanza annunciata a febbraio scorso è promosso dalla Federazione gomma plastica/Unionplast, la cui motivazione è “l’assenza di presupposti di necessità e urgenza e dal rischio di provocare inutilmente danni gravi alle imprese e ai loro occupati,” stando a quanto riportato da LifeGate.

Ad aprile 2019, il ministro dell’Ambiente Sergio Costa—già allineato con la decisione europea—ha emanato anche il decreto Salvamare, con cui viene consentita ai pescatori la raccolta di plastica in mare, fino a prima “costretti a ributtarla in mare [quando rinvenuta nelle reti da pesca] perché altrimenti avrebbero compiuto il reato di trasporto illecito di rifiuti,” è spiegato sul sito del Ministero, “sarebbero stati considerati produttori di rifiuti e avrebbero dovuto anche pagare per lo smaltimento.”

Nel frattempo, almeno due amministrazioni stanno portando avanti senza intralci le proprie ordinanze: Bibione (una località marittima in Veneto) e la regione Marche, la prima a licenziare una legge che riguarda l’intero territorio e non solo comuni specifici o iniziative autonome di gestori di attività locali. Anticipando sia la direttiva europea che la norma “Salvamare” italiana, infatti, le Marche prevedono di diventare “plastic free” entro il 2020, vietando anche le sigarette nelle spiagge non munite di posacenere. Bibione, a sua volta, ha emanato lo stesso divieto già per questa estate: sui suoi 8 chilometri di litorale sarà proibito fumare, fatta eccezione per alcune aree apposite.

Tanto le ordinanze che i ricorsi e le decisioni dei tribunali regionali sono indicative di un cambiamento in atto che non può che essere complesso nelle sue prime fasi, ma che rappresenta anche una necessità assoluta. Dipendiamo dalla plastica, ma grossa parte di questa dipendenza è un falso problema. E per quanto una migliore gestione dei rifiuti—soprattutto nelle località turistiche—debba essere parte del processo, è inutile negare che se la plastica usa e getta non viene prodotta, acquistata e consumata, non può diventare rifiuto e galleggiare in mare in attesa di un pescatore che la riporti a riva.