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Cibo

Come questa ragazza di Senigallia sta cambiando il pane marchigiano

Sarebbe meglio dire che Francesca Casci Ceccacci sta cercando di ritornare a fare il pane di una volta. Non a caso il suo pane è stato scelto da un ristorante tre Stelle Michelin.
Francesco Morresi
Senigallia, IT

Il mio stato d’animo dopo aver dato l’ultimo esame di giurisprudenza era abbastanza confuso. Era finita. Vedevo la luce nel fondo di una galleria durata sei interminabili anni, ma sapevo che non avrei mai trovato il "bello" nel diritto. Sollievo e angoscia impastati assieme. Poi ho conosciuto Francesca Casci Ceccacci: una laurea in giurisprudenza a Bologna, un master a Torino e il lavoro in una grande multinazionale della ristorazione. Torna a casa e si ritrova in un’azienda agricola. Poi l’ultima parte della storia: nel 2018 apre il suo forno a Senigallia, Pandefrà.

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Francesca ha trentaquattro anni, ed è la prova vivente che anche un giurista pentito può redimersi e mettersi a fare cose apparentemente semplici come il pane. Così inizia la storia di Pandefrà, del suo pane agricolo e, come dice lei, della sua hardcore bakery.

Ero diventata uno strumento di ignoranza; ogni mia energia stava spingendo una macchina che disprezzavo: tutto questo mi dava la nausea

Francesca è unica nel suo modo di lavorare: nessuno, almeno a Senigallia, fa un pane migliore del suo. Le Marche sono strane e i marchigiani hanno la memoria corta: il pane una volta si faceva in casa, ogni settimana c’era l’infornata e questo doveva durare sette giorni; poi sono arrivate le farine raffinate, il lievito di birra e il pane bianco, il pane non doveva più conservarsi così a lungo. Così, anno dopo anno, la gente si scordava dei profumi del pane caldo di casa, si scordava del pane che cambiava consistenza giorno dopo giorno. Il pane perdeva fragranza, i forni si standardizzavano e i palati si abituavano alle nuove consistenze.

Ma come fossero piccoli semini dimenticati una nuova filiera del pane sta crescendo in questa regione.

Pane-Senigallia

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Ci diamo appuntamento con Francesca in una birreria del centro di Senigallia. Tempo di sederci e dalla borsa fa apparire sul tavolo un sacchetto di carta unto e macchiato di rosso. Apre il sacchetto unto di prima e mi offre un pezzo di schiacciata romana fatta con la farina del Miscuglio Evolutivo di Salvatore Ceccarelli. Un morso enorme ed un sorso di birra. Estasi.

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L’agricoltura industriale negli anni ha trasformato la mente dei contadini. Io volevo fare un pane che fosse al cento per cento autentico.

Le chiedo del suo percorso, se sia possibile trovare un punto di partenza. Dice che dall’infanzia ha sempre avuto l’impressione di procedere secondo due linee parallele: da un lato la strada delle aspettative familiari, la via del dovere, gli studi; dall’altro manteneva la via del sogno, quella che “non sapevo nemmeno di percorrere”, tracciato già dai suoi nonni.

Questo è il primo punto. La pietra basale del suo progetto: la memoria di casa, tutto il tempo passato con nonno Giorgio, carrozziere affamatissimo e con nonna Clara, imponente zdora romagnola.

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Se da un lato erano proprio loro i grandi promotori dei suoi studi, della sua “carriera da avvocata” che, come le dicevano, “ti farà vivere una vita migliore”, dall’altro sono stati i muratori della sua educazione alimentare; e qua Francesca insiste: “per me la tavola è stata come un banco di scuola. Lì ho imparato che rispettare il cibo voleva dire rispettare la fatica degli altri. I nostri nonni hanno fatto la guerra, sono stati sfollati e sapevano benissimo che l’abbondanza a tavola non è mai cosa scontata”. Con un sorriso mi racconta che, al momento dei lutti, in famiglia non riuscivano a trovare foto in cui Giorgio e Clara non stessero a tavola masticando un boccone. Ricambio il sorriso; le racconto che dalla foto sulla tomba di mio nonno il fotografo ha dovuto photoshoppare via una coscia di pollo dalla sua mano.

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Da Senigallia a Bologna, come molti, a studiare Giurisprudenza: “Davo un esame e mi regalavo un manuale di cucina.” Si laurea e decide che andrà a Torino, dove per caso trova un master in controllo qualità degli alimenti. Era il 2012, si iscrive quasi per gioco e trova un mondo nuovo. “Per del tempo ho avuto l’impressione di essere riuscita a riunire le mie due vite: continuavo a studiare regole, ma questa volta erano le regole della qualità e del buono”.

“E come ci sei finita dentro una multinazionale?”, le chiedo. “Avevo ventisette anni e dopo un tirocinio mi hanno assunta. All’inizio ero entusiasta, entravo in una cucina per la prima volta. Preparavano quattromila pasti al giorno per mense scolastiche e ci lavoravano centotrenta persone… Era abbastanza diversa dalla cucina di nonna, ma ero comunque contenta”. “E poi? Che è successo?” Francesca sorride: “Che doveva succedere in una multinazionale? Sono scappata via. Avevo firmato per il tempo indeterminato, sono stata lì tre anni, mi avevano promesso carriera e aumenti, ma non faceva proprio per me. Di una cosa però sono grata a quell’esperienza: lì ho davvero capito quanto fosse profonda l’impronta che i miei nonni avevano lasciato su di me.”

“Da bambina io sapevo benissimo cosa c’era nel mio piatto. Invece nel mio lavoro questa consapevolezza era del tutto assente. Anzi, era proprio osteggiata. Non c’era rispetto per la materia. E soprattutto non c’era attenzione per gli utenti, i bambini a scuola. Questi mangiavano cose confezionate. Ero diventata uno strumento di ignoranza; ogni mia energia stava spingendo una macchina che disprezzavo: tutto questo mi dava la nausea”.

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Francesca-Pandefra

Nel 2015 decide di licenziarsi e di tornare a Senigallia. Si ritrova a Scapezzano, un paesino accanto. “Qui ho avuto il primo contatto con i lievitati. Non avevo praticamente alcuna esperienza con il pane, ma non avevo nemmeno paura. Per la prima volta avevo a disposizione tutta la filiera; producevamo il cereale, lo macinavamo e, nel piccolo laboratorio, panificavamo.”

Qui, nelle colline dietro Senigallia, vedeva le sue diverse parti fare pace tra loro. “Scoprivo nel pane tutta me stessa. La parte rigida: le regole, la scienza; e la parte emotiva, la libertà. Il pane vero è libero. Non puoi condizionarlo. Da questo è nato lo scontro con l’azienda agricola dove mi trovavo, la vedevamo diversamente. L’agricoltura industriale negli anni ha trasformato la mente dei contadini. Io volevo fare un pane che fosse al cento per cento autentico. Il mio pane insomma. Non ne volevo sapere di chimica nel campo. Ma certe convinzioni sono indistruttibili”.

Pane-agricolo

“In un mese e mezzo ho allestito tutto il laboratorio e ho sfornato il primo pane. Ero estremamente motivata e finalmente potevo fare un pane che fosse completamente mio. Ma soprattutto ero da poco stata notata da Mauro Uliassi (tre Stelle Michelin con il suo ristorante Uliassi NdR) e dalla sua brigata: un incontro che ha cambiato davvero tutto; stavano cercando una persona che gli producesse il pane, così si è presentato da me Luciano Serritelli, uno dei vice di Mauro, portando con se due ricette da provare. Ero terrorizzata. Rinfresco il lievito, impasto e faccio lievitare; il giorno dopo cuocio e Luciano viene a vedere il risultato. Tremavo; tagliamo il filone e… Sbam! Una bomba! Era venuto benissimo”. Francesca è ancora emozionatissima se ci ripensa. “Non ci credevo, Luciano mi guarda e fa: così!? Alla prima botta!?”

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“Mauro e la sua squadra sono delle persone incredibili. Dopo la prima consegna al ristorante mi porta nel suo ufficio e parliamo un attimo; la voce mi tremava e presa dall’imbarazzo gli chiedo perché proprio il mio pane, lui si fa estremamente serio e mi dice una frase bellissima: le cose buone non vengono per caso. Si attraggono. Ecco. Forse quello è stato il primo momento in cui ho sentito davvero che qualcuno aveva capito ciò che stavo cercando di fare.”

Francesca diventa celebre nel mondo della ristorazione proprio grazie a Mauro, che parla di lei durante un Convegno di alta cucina molto famoso che si tiene ogni anno a Milano (Identità Golose).

C’è il minimo indispensabile per l’esposizione, tengo tutto dentro. Il pane non deve stare sugli scaffali

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“Non era nemmeno un anno che avevo aperto, in una settimana sono stata contattata da tantissime persone: tutti dicevano che avevano saputo di me a Identità Golose, non sapevo che rispondere”. Decidiamo di continuare la nostra chiacchierata nel suo laboratorio, il giorno dopo; vuole farmi vedere il posto, dice che è fondamentale per capire il suo progetto.

Arrivo prima di pranzo. Il laboratorio sta nel margine sud della città, il mare duecento metri davanti alla porta, e la prima collina cinquanta metri dietro. Nessuna insegna, se vuoi trovarla la cerchi! Entrando nel locale si viene storditi. La zona destinata alla vendita è raccoltissima, le pareti sono tutte viola; le impastatrici riempiono del loro canto cielo e terra.

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Iniziata quest’avventura più volte mi ero sentita sola. Vedevo intorno a me solo forni convenzionali

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Francesca sbuca tutta infarinata da dietro le quinte; mi dice subito: “È proprio cosi che volevo il mio spazio. Non sai in quanti, entrando la prima volta, hanno domandato: ma qui vendete pane? La gente è abituata a entrare in un forno e trovarsi davanti a un interminabile bancone pieno di cose. Io tengo tutto dietro. C’è il minimo indispensabile per l’esposizione. Il pane non deve stare sugli scaffali”.

Francesca stessa ha disegnato gli spazi; di cento metri quadrati solamente dieci sono stati destinati alla vendita. Una grande finestra si apre sulla parete viola e mostra senza veli i tavoli da lavoro dove tutte le cose buone prendono forma. “La gente deve poter guardare. Io racconto tutto a chi è interessato, se poi decidi che non fa per te nessun problema; ma se scegli questo pane voglio che sia una scelta consapevole. La spesa è sempre esperienza formativa; come potrei dire che il pane è libero altrimenti?”.

Focaccia-Pandefra

"Vuoi assaggiare qualcosa?”. Fingo del contegno e le rispondo di sì, iniziamo dai pani partendo dalla tradizione marchigiana: il filone, un pane “ignorante” dice lei; quello che trovi da Pandefrà è fatto con farina tipo due, locale e macinata in un piccolissimo molino a pietra della zona, pasta acida. La tradizione del pane nelle Marche non è sviluppata come in altre regioni e si può dire che questo formato rappresenti l’unico archetipo regionale, il pane per tutti i giorni, dal Piceno al Montefeltro.

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Tempo di mandare giù il boccone e cambiamo tutto, dice che mi vuole far assaggiare l’orientale. Miso e tahina impastati con farina di gentil rosso, un grano antico del centro Italia. Davvero buono, due continenti che si abbracciano, la via della seta. Poi ancora, focacce di ogni tipo: bianche, alte e ben unte; pomodorose, basse e croccantissime. Arriviamo così ai dolci, una pasticceria secca da paura. Biscotti con timo e lavanda, limone e zenzero e poi cookies al cioccolato.

Biscotti

Ne addento uno, la guardo sbalordito e chiedo spiegazioni. Lei ride e mi dice di aspettare, corre nel laboratorio e torna subito. Senza dire una parola mi passa un cucchiaio colmo di impasto crudo dei cookies. “Assaggia questo”. Burro, uova, zucchero e cioccolato. Un flash di mio padre. Mi sta passando un pezzetto di frolla cruda. La abbraccio.

Su un muro una locandina stacca dal viola avvolgente: il Manifesto dei Panificatori Agricoli Urbani. Non faccio in tempo a fare domande, Francesca: “Ci siamo incontrati la prima volta a fine marzo” Questo il primo contatto con Davide Longoni, Pasquale Polito (Forno Brisa), Matteo Piffer (Panificio Moderno), le colonne dei PAU, e tutti gli altri; “È stato bellissimo scoprire che esistevano altre persone come me. Fornai che rifiutano di usare per la produzione materie stabilizzate, che rifiutano le standardizzazioni. Giuro: iniziata quest’avventura più volte mi ero sentita sola. Vedevo intorno a me solo forni convenzionali. Io invece facevo cose strane, ora mi sembra di aver trovato una famiglia. Una famiglia con cui confrontarmi e crescere; con cui preparare un percorso comune. È davvero un collettivo fantastico.”

Pane artigianale senigallia

A fine giugno Gambero Rosso conferisce Tre pani a Pandefrà: il massimo riconoscimento nella nuova guida ai panificatori d’Italia, ennesima sorpresa per Francesca in questo suo, ancora giovanissimo, percorso. Ma il pane vero è cosa magica, il corpo di un dio (dicono alcuni). Non deve quindi stupire che questo, nella sua assolutezza, inneschi processi imprevedibili, permetta incontri inaspettati e realizzi sogni.

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