La festa nera
Illustrazione di Alessandro Galatola / safespacecmx

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Tecnologia

La festa nera

Tre reporter in un'Italia del futuro che fanno slalom tra trattamenti di bellezza estremi e hipster che ripudiano la tecnologia. Un estratto dal nuovo romanzo di Violetta Bellocchio.

Questo racconto fa parte di Terraform, la nostra rubrica mensile di narrativa sci-fi. Racconti sul futuro dell'uomo, della Terra e dell'universo — tra nuovi approcci alla realtà ed evoluzioni distopiche del nostro presente. Ogni mese una nuova puntata: se hai un'idea da proporre o un racconto da pubblicare, scrivici a itmotherboard@vice.com.

Oggi ospitiamo un estratto de 'La Festa Nera', il nuovo romanzo di Violetta Bellocchio in uscita domani 14 giugno per Chiarelettere. Compralo: in libreria, o su Amazon.

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In 'La Festa Nera' i protagonisti sono 3 reporter che, in un'Italia del futuro, tornano a girare documentari facendo slalom tra madri che venerano il dolore, uomini convinti che la donna sia un virus invincibile, hipster eremiti che ripudiano la tecnologia, famiglie integraliste che credono in un'Apocalisse ormai passata dia moda e un misterioso e miracoloso guaritore.


Questa è la storia di noi che perdiamo tutto. Questa è la storia della fine del mondo, quando la realtà, per come la conoscevamo noi, è scomparsa. È inutile cercarci una morale o una logica. Nessuno saprebbe dire come si è aperta una simile crepa nella terra sotto i nostri piedi. Però è successo, a noi, ed è per questo che siamo finiti come siamo finiti.

Stiamo girando un reportage sui trattamenti di bellezza considerati estremi e sulle persone che spendono tutti i loro soldi per farseli fare. Niente di strano. Siamo nello studiolo di una santera che si è data al fitness perché, dice, è un modo più produttivo di intervenire nelle vite degli altri. Intorno a noi ci sono statuette di orisha neri, vestiti con la carta velina, e barattoli con scritto sangue nero della terra. Abbiamo già filmato gli animali sacrificati sull’altare domestico, i bicchierini di rum che non stanno lì per farsi bere da nessuno. La chiave di tutto è il sangue. Un’applicazione di sangue fresco ringiovanisce i tessuti. L’intervista sta andando meno bene di quanto si poteva sperare: la strega fa la difficile, nicchia quando le domandiamo da dove viene il sangue nel suo studio, se è umano o animale, e si limita a dire che i donatori sono in costante aumento – verosimile, ma un po’ scarsa come spiegazione. Poi la strega invita Misha a mettersi il sangue sulla faccia, se vuole provarne i benefici. Ricordo il suo gesto, su, prova. E Misha lo fa. Non che ci fossero dubbi. Due dita dentro il barattolo, wow, è ancora caldo, dice, con un tono sospeso tra la meraviglia e la nausea. Assaggia il sangue. È sangue, dice. Le sue dita sulle sue labbra, indice e medio. Un secondo. Due secondi. Prende il barattolo e se lo rovescia in testa.

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L’ultima inquadratura: Misha seduta all’indiana, con un litro di sangue che le cola sui capelli, sulla faccia, sul petto, che si passa la lingua sulla bocca e dice, strano, non mi sento più giovane. Guarda in camera. Non è strano, per voi?

"Stiamo girando un reportage sui trattamenti di bellezza considerati estremi e sulle persone che spendono tutti i loro soldi per farseli fare."

Ne parliamo, sulla strada del ritorno. Siamo contenti. Lasciamo Misha davanti al portone azzurro che si asciuga con uno strofinaccio e si lamenta, ridendo, oof, questo per venire via ci metterà tre giorni. A ripensarci, mi colpisce la felicità che ci tocca tutti quanti senza eccezioni. Siamo dei fulmini, lo siamo sempre dopo un lavoro, ma convinti di aver fatto bene.

Il reportage dura quarantacinque minuti. Il primo giro di insulti parte dopo venti minuti dalla messa online. I conti non mi tornano – come fanno a sapere cosa cercare? Come fanno a sapere che il sangue arriva al minuto quarantatré, se ci stanno guardando da venti minuti? –, ma il primo giro di insulti è abitudine. Siamo approfittatori, speculiamo sulle disgrazie degli altri. Cerchiamo soltanto lo shock facile, la ferita di superficie, l’applauso casuale di un pubblico privo di qualsiasi gusto o sensibilità. Poi arriva qualche obiezione teorica. Avremmo discriminato le streghe, che hanno pienissimo diritto a praticare la loro religione nella privacy di casa propria. Il nostro obiettivo sarebbe raccogliere click e rinfocolare le ceneri di un perbenismo da secolo scorso. La gente non si sta arrabbiando con noi: la gente si è offesa.

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La situazione volta verso il buio quando parte la polemica sul sangue.

È vero, è falso?

È falso, è falso.

Figurati se era vero.

Se il sangue è falso, su quante altre cose ci hanno mentito?

Salve a tutti, pratico la santeria da ormai ben otto anni e posso dire che la signora nel video non l’ho mai incontrata né sentita nominare. Sul sangue non mi sbilancio, ma la scena è un falso.

Possiamo fidarci di qualcuno?

Ragazzi, state davvero parlando di moralità della visione per un reportage di quella troia di merda di Misha Fontana?

Ricordo Nicola curvo sul telefono che cerca un lato positivo. C’è contestazione, dai. Va bene. Non ci farà benissimo, nelle prossime sei ore, ma andrà tutto bene. Sorride con la bocca e non con gli occhi. Si stuzzica la croce sul polso. Misha come sta, gli chiedo. È… in viaggio, dice lui. Tornando a casa sento che qualcuno mi sta guardando.

Ci siamo sempre mossi in questo modo, ma non importa. Abbiamo girato documentari molto più criticabili senza patire la minima conseguenza – abbiamo fatto gli appassionati del Terzo Reich e i loro animali domestici, voglio dire – anzi, semmai, siamo famosi per essere quelli che stanno avanti, che si spingono dove gli altri non osano andare. Ma non importa. Abbiamo perso il nostro vantaggio. Questa la paghiamo.

Due ore dopo finisce il dibattito sul vero e sul falso e comincia il ballo del liceo.

Sciacalli, inadeguati, braccia rubate alle vacanze in barca a vela. Misha Fontana è una troia di merda. Misha Fontana se le va a cercare. Una pallottola in testa e ce la leviamo dal cazzo. Oh, finalmente qualcuno che dice le cose come stanno, ti stimo. Ma magari le sparassero alla troia.

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"Ci dividiamo la città in base a quello che succederà nell’arco delle prossime dodici ore. Pietro si prende il torneo sarcastico di Mortal Kombat a cielo aperto al parco Solari."

Dal tramonto all’alba, Misha non è più Misha, mezza ingenua e mezza furba, la ragazza bianca che tutti sopportano quando non riescono ad amarla, quella che, in mancanza di definizioni migliori, si ammette abbia coraggio; adesso è soltanto una ragazza bianca uguale a un milione di ragazze bianche, una stronza della circonvallazione interna che non può sperare di capire le vite diverse dalla sua, una zoccola ricca molto più cretina di quelli che finge di raccontare, e chi le ha dato il permesso di filmare con i suoi occhi, e in nome di cosa?

Tanto parla sempre di se stessa, l’avete notato? Puttana. Troia. Puttana. Troia. Scusate, possiamo tornare al punto di partenza? Il sangue era falso o era vero?

Tra poco sarà notte. Nicola ci chiama all’azione con un messaggio. Vasca collettiva in tutti i luoghi di interesse socioculturale, non dobbiamo chiedere scusa di niente e fino a prova contraria la corona in testa ce l’abbiamo solo noi. Facciamoci vedere. Prima linea. Sono stato chiaro.

Ci dividiamo la città in base a quello che succederà nell’arco delle prossime dodici ore. Pietro si prende il torneo sarcastico di Mortal Kombat a cielo aperto al parco Solari. Ci dimentichiamo di lui, quindi sono gli altri che lo trovano, una settimana dopo, blindato nel capanno dei custodi, che ripete, la mia anima è mia. I giochi vintage sono materiale incandescente e lo sapevamo, però che potessero annullarti la personalità, quello no. E intanto ci siamo tutti dimenticati di Pietro. Povero Pietro. Salutiamo Pietro.

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La nostra montatrice del suono, Diana la bellissima, la infiliamo al volo tra i relatori di un convegno sull’utilizzo politico del sintetizzatore nelle partiture originali. Deve andare a nord di piazzale Loreto. Un viaggio in un territorio ostile. Non è pronta, dice. È più vecchia di noi, è stanca, i ragazzini la detestano. Non sa cosa fare. Diranno che non sono preparata, mi confessa, mentre indugia sulle scale della metropolitana. Non ha i soldi per un vestito nuovo, le ballerine se l’è fatte prestare da sua madre. Diana, le dico, se ti mettono in discussione, tu ti alzi, prendi la sedia e gliela spacchi sulla schiena. Lei ride, ma ha i nervi tesi. Non avere paura, le dico. Tu sai tutto. Lei sbatte le ciglia per la prima volta in un’ora, poi mi lancia un lungo sguardo rallentato, le pupille di vetro. Si stacca un cerotto dal collo. È vero, dice. Io so tutto. Adesso mi sentono.

L’ultima volta che l’ho vista dal vivo è questa, con lei che scende in metropolitana, la testa che le scatta sul lato, le vertebre che si riallineano nella sua schiena. Qui io smetto di conoscere Diana, la mia collega Diana, per il poco che la conoscevo, e vado, col tempo, a conoscere la dea della distruzione che mi appare nei video con l’inquadratura tremolante fatta apposta. La regina degli scontri nei parcheggi dei supermercati, la guerriera in bomber rosa confetto con il doppio coltello a serramanico, e quando entra in campo, stateci attenti, lei sta sempre gridando, NO, NO, NO, se non avete visto la copia restaurata di Distretto 13 in una sala del Mifed che puzzava di traghetto siete VOI che non siete preparati e siete VOI che dovete soltanto STARE ZITTI, avete finito di fare i froci con il lavoro degli altri, e chiude gli incontri con quella che ormai è la sua mossa tradizionale, coltellata-coltellata-calcio-calcio-piroetta-sputo in faccia al nemico. Quaranta match, quaranta vittorie. Combatte scalza. È più pericoloso. Almeno così sostiene lei quando rilascia interviste alle teppiste adolescenti che la chiamano kitsune. Sì, sul serio. Non mi prendo nessuna colpa e nessun merito, però mi chiedo, e mi chiederò sempre, se sono stata io a darle la spinta giusta o se ho soltanto accelerato una resurrezione in programma da ben prima che la incrociassi sulla mia strada.

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"Le stringo il polso tra il pollice e l’indice. Altri cinque minuti e le darò un bacio, penso. Ma prima che possa succedere, prima che sullo schermo i testimoni ammettano di essersi lasciati trasportare dall’atmosfera di una caccia alle streghe, l’audio dello schermo viene sovrastato dal rumore di mille telefoni che partono tutti insieme, ding, ding, ding, il suono delle notifiche di quando si scatena un inferno."

Per un po’ ho preferito pensare che l’avesse scelto Diana, di buttarsi dentro la sua crepa. Ora non lo so.

Torniamo alla notte in questione. È importante.

C’è una maratona di documentari sulla cronaca nera con il titolo che comincia per C. Roba stravecchia, ma l’incasso lo versano a un’associazione per le vittime di stupro, qualcuno di noi ci deve andare e sembra un posto eccellente per tenere in mano una bottiglia e ammirare le ragazze degli altri, allora ci vado io. Hanno montato lo schermo sul tetto di un albergo in Porta Venezia. Sono appena passate le undici. L’ascensore è fuori servizio: tocca usare le scale. Il tetto è una spianata di catrame. L’audio è basso, perché i vicini non avvisino la polizia, c’è il solito secchiello di ghiaccio con il Cuervo custodito dalla barista con gli anelli al naso, c’è la solita schiera di provinciali trapiantati che parlano di mollare tutto, e sullo schermo sta passando un video amatoriale convertito in pellicola, il marrone e il rosso del vhs originale sembrano viscere rispetto ai colori come li percepiamo oggi – lo riconosco: questa è la parte del film dove il figlio impazzisce e comincia a filmare tutto quello che gli sta succedendo in casa, nel tentativo di esercitare il controllo su una dinamica assurda che distruggerà per sempre la sua famiglia. Ci sono i piatti vuoti, la tovaglia stesa male sul tavolo da pranzo, i mobili pensili di legno in cucina. È un classico. Lo schermo, però, non lo guarda nessuno.

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Stanno tutti guardando lei.

All’inizio non riesco a vederla bene. È una macchia, una fotografia in movimento con la pelle luminosa. Sta al centro della scena e nessuno ci va a parlare. Qualcuno fa la mossa della partenza, due passi nel vuoto, il braccio, poi si blocca e torna indietro: non la regge. Qualcun altro si sfrega il pollice sulla fronte e arriva fino a una parte di lei – gambe e ginocchia che spuntano da un salvagente, sandali di plastica azzurra che ciondolano da due piedi bianchi – e niente, torna indietro a testa bassa. La sua compagnia non è desiderata. La conversazione l’ha chiusa un colpo nell’aria con due dita. Vattene, non sei nessuno.

La stanno guardando tutti.

La guardano perché è bella, credo, ma non è la bellezza che ci manca. Questa è un’altra cosa. La metto a fuoco. Comincio a distinguere il suo contorno, i pezzi che vanno a formare l’intero. Porta un maglione di Natale sopra un vestito argento, in grembo ha un sacchetto di biscotti, con le briciole che dalla bocca aperta le cadono sul petto, e sta ridendo mentre guarda lo schermo.

Allora la capisco.

In un oceano di schiavi che sparlano dei mancati successi degli altri, lei è l’unica che sta davvero facendo quello per cui stanotte si è scollata dal divano.

Mi apro la strada con le mani. La folla mi lascia passare. Posso vincere, penso, loro continuano a sottovalutarmi. Mi sento calda. Lei ha i capelli ricci e lunghi sparsi intorno al viso. Cerco di prepararmi una battuta mentre cammino. Come ti chiami? Ti hanno mai scambiata per un uomo? Sei una che balla o una che sposta i soldi? Lei mi vede arrivare con la coda dell’occhio. Non mi ferma. La musica nella mia testa aumenta di volume. Tiro indietro le spalle. Lei mi vede. Lei mi vede intera. È da quando avevo tredici anni che aspetto di essere guardata così. Con un’occhiata mi spinge contro lo specchio e scrive il suo nome sulla mia schiena, e intanto mi dice, non credi che il fascino delle false accuse stia nel rendere necessario il reciproco inganno? Ha la voce come una macchina messa in moto sfregando i cavi. Questa me la devo giocare bene. Lasciami indovinare, le dico, tu rotoli attraverso i giorni come una testa tagliata che sta finendo una frase. Lei mi sorride. Vedo che conosci la storia, dice, siediti pure, e si sposta, mi lascia un bracciolo del salvagente. Guardiamo il film. Sullo schermo passa un collage di interviste alle vittime. Mi chiamo Megan, dice. Genitori crudeli e insoliti. Tu che scusa hai? Faccio documentari, le dico. Ma porca troia, non ci credo. Ho visto qualcosa di tuo? Be’, Megan, ieri ti avrei detto di sì, oggi spero di no. Mangia un biscotto, mi dice, hai le labbra bianche, pressione bassina, secondo me. Le sue dita sono fredde, il suo braccialetto fa click contro il mio. La sua pelle è illuminata da dentro. Sei un’artista, le chiedo, e lei scuote la testa, no. Dice che non ha mai provato l’obbligatorio richiamo del vuoto. La amo. Faccio il medico legale, dice. Sul serio? Yeah, bitch. Mangiati un biscottino. Quindi stai in mezzo ai cadaveri tutto il giorno. Non mi posso lamentare, dice. È facile andarci d’accordo. Con i vivi è sempre una lotteria.

Le stringo il polso tra il pollice e l’indice. Altri cinque minuti e le darò un bacio, penso. Ma prima che possa succedere, prima che sullo schermo i testimoni ammettano di essersi lasciati trasportare dall’atmosfera di una caccia alle streghe, l’audio dello schermo viene sovrastato dal rumore di mille telefoni che partono tutti insieme, ding, ding, ding, il suono delle notifiche di quando si scatena un inferno. E stavolta tutti guardano me. Non lei, non noi. Me. Ho cinque unghie piantate nel collo.

Mi alzo. La mia sposa gangster dagli occhi azzurri mi chiede dove sto andando. Ci stavamo divertendo, dice, ci stavamo divertendo, o no? Non sono capace di parlare con le persone in carne e ossa per più di dieci minuti. Lei mi ama. Io la amo di più. Dude. Devo scappare. Però ti chiami Megan, fai il medico legale e abiti a Milano, allora ricordati di me, e presto o tardi giuro che torno. Forse tardi. Ho detto qualcosa di brutto?, mi chiede. Megan. Mi fermo. Sento il suo nome nella mia bocca, Me- gan. No, devo andare. Megan, sono appena suonati tutti i telefoni a questa festa. È successo qualcosa di brutto. Devo andare.

Piacere di averti conosciuto da viva, dice la barista, che sono certa di aver scartato io all’ultima selezione del personale.

Prendo il telefono in piazza Oberdan. Passo il resto della notte a guardare lo schermo. Abbiamo finito.