Come Iron & Wine ha rivoltato il folk americano

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Come Iron & Wine ha rivoltato il folk americano

Abbiamo parlato con lui del suo nuovo album Beast Epic, e fidati che anche se non sai chi è le sue canzoni le hai sentite.

Il 16 novembre 2016 ero seduto in piccionaia all'Adelphi Theatre sullo Strand di Londra, un teatro super posh di quelli che solitamente hanno in cartellone robe tipo il musical di School of Rock. Quella sera invece ci suonava, in acustico, Sam Beam—cioè Iron & Wine, quel tizio texano che ha rivoltato il folk americano come un calzino quindici anni fa con un disco frusciante e odoroso che raccontava in maniera anti-retrograda gli Stati Uniti sotto alla Mason-Dixon Line. Sam è un cantautore unico, nella misura in cui è riuscito a creare un suo immaginario e vocabolario chiaramente riconoscibile, costellato di metafore e similitudini, in cui compaiono spesso animali, personaggi religiosi e amori fatalisti in cui l'eternità non è un "e poi vissero felici e contenti" ma un "ricordiamoci che moriremo, ma lo faremo assieme". Nonostante abbia una discografia di Cristo, forse il grande pubblico conosce Iron & Wine più per pochi singoli pezzi: per esempio la sua cover di "Such Great Heights" dei Postal Service—che comunque contribuì, ai tempi, a dare un'idea di indie rock come termine-ombrello che potesse contenere in ugual misura dei tizi con voci d'angelo e acustiche arrugginite come producer minimalisti col cuoricino spezzato—o i suoi pezzi finiti in serie TV e film di successo. "Flightless Bird, American Mouth", canzone più lucida di quel disco flippato e sabbioso che fu The Shepherd's Dog, è stata inserita nella colonna sonora di Twilight, mentre anni prima "The Sea and the Rhythm" era apparsa in The O.C.. Ad ogni modo: quella sera ero andato a vedere Iron & Wine da solo. Era un concerto per voce e chitarra—rarità, dato che è dal 2004 che il nostro gira con una band. Non appena salito sul palco, Sam spara subito la domandona:

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"Cosa volete sentire?"

Nel giro di cinque secondi mezzo teatro sta gridando titoli di b-side e rarità che non vedeva l'ora di poter ascoltare. Qualcuno grida più forte di tutti gli altri "THE TRAPEZE SWINGER!". Sam lo sente, dice "ok" e attacca. All'inizio della seconda strofa, quando Sam fa " Please, remember me / Fondly / I heard from someone you're still pretty" la mia faccia è già un muro di lacrime, sto sorridendo come un idiota e ho messo a disagio tutte le persone che ho attorno. Non è la regola, ma credo che la maggior parte di noi ascoltino musica—o leggano un libro, o guardino un film—per provare emozioni. Anche non nel senso più drammatico del termine, eh: il piacere provocato dall'ascolto post-ironico di "Fiji" di Young Signorino non è innatamente diverso dalla tenerezza causata da una sessione intensiva di ascolti di "Casimir Pulaski Day" di Sufjan Stevens. Sempre di stati della mente si tratta. Ascoltando musica che ci fa provare qualcosa, in pratica, decidiamo di affidare a un'entità altra il potere di schiacciare un grosso bottone rosso che comanda il modo in cui ci sentiamo. E lo facciamo perché così proviamo non un piacere qualsiasi, ma un piacere cucito su misura per le nostre strutture neurali. Ecco, Sam Beam è uno di quei tizi a cui ho dato da giovane le chiavi della mia emotività, e ogni volta che partono certi suoi pezzi parto per la tangente e chi mi ferma più. Sam fa principalmente due cose: o scrive cose fiabesche di difficile interpretazione o parla di temi universali scegliendo sempre il modo meno scontato per farlo. Per dire: "Naked As We Came" è una canzone d'amore con tre parole in croce, ma il senso di quelle parole è "Io e te staremo assieme fino alla morte: uno dei due morirà nelle braccia dell'altro, nudi come siamo venuti al mondo, e non ci seppelliremo ma spargeremo l'uno le ceneri dell'altra per tornare alla terra". Oppure, "White Tooth Man" parla di un "poliziotto in borghese" che parla a una reginetta di bellezza, a un capo indiano e allo Spirito Santo di tale "uomo dal dente bianco" che "piscia in mezzo agli arbusti", "vende pistole e mappe di Cana" e fa altre cose un po' strane che chissà cosa vogliono dire, però sembrano piene di senso e quello basta. Beast Epic, il nuovo album di Sam, è un ritorno di forma all'approccio voce-e-chitarra dei suoi esordi, dopo una serie di album progressivamente più ambiziosi e complessi—un processo culminato nel suo disco più debole, Ghost on Ghost, le cui canzoni perlopiù lottavano per farsi sentire sotto al peso di arrangiamenti esageratamente strambi. È un disco che avrebbe potuto scrivere a occhi chiusi, Sam, ormai perfettamente a suo agio ad applicare in forma-canzone sua interpretazione della formula-folk—e infatti la copertina lo vede ritratto con una benda agli occhi, ricamato su un tessuto color salmone che fa tanto maglione del nonno. Lo potete ascoltare qua sotto, e appena dopo c'è tutta una bella intervista per capire meglio chi è Iron & Wine.

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Noisey: Stavo leggendo delle interviste che avevi rilasciato attorno all'uscita di Ghost on Ghost
Iron & Wine: Oddio! [Ride] Ha! Volevo parlarti dell'intervista a Interview Magazine in cui avevi detto che avevi scritto The Shepherd's Dog in reazione alla rielezione di Bush nel 2004, e che il tuoi album successivi erano un modo per rimettere in ordine i tuoi pensieri su quello che era successo. Beast Epic dove sta, in questo percorso?
Ora come ora mi sento un po' troppo vicino all'album per poterne parlare in questi termini. Mi viene più facile parlare dei miei vecchi album, sai, col senno di poi. The Shepherd's Dog non era un disco apertamente politico: quello che succedeva in politica aveva cominciato a riflettersi sul modo in cui vedevo la società e le persone che mi circondavano. Più che di politica, si trattava di un mio camminare un po' più in là verso l'età adulta e allontanarmi dall'ingenuo senso di sicurezza che provi quando sei giovane. Ci sono sempre momenti in cui ti rendi conto che in realtà non hai capito niente di come va il mondo, per quanto tu possa credere di sapere come funziona. In positivo e in negativo. E queste sensazioni si tramutarono in immagini, scenari e reazioni bui e surreali. Mi sono portato quel sentimento a dietro per un po', ma come hai detto ho rimesso in ordine i miei pensieri lungo la strada, fino a trovare un senso di pace. Ed è quello di cui ho bisogno, dato che ormai ho fatto i quarant'anni e certe cose non mi preoccupano più come un tempo—mentre altre mi preoccupano più di un tempo! Questo è un disco più introspettivo. Penso che ogni disco sia una reazione musicale al precedente, in cui sottolineo ancora di più certi elementi o cambio marcia. Beast Epic è decisamente un disco di reazione alle mie ultime cose. Stavo scrivendo cose sempre più grandi, ambiziose. Parlavo di cose enormi e provavo a farle stare in uno spazio piccolo. Per esempio, su Ghost on Ghost molte canzoni parlavano di una coppia che, insieme, combatteva contro qualcosa di più grande: un senso di isolazione, di alienazione. Questo è un disco molto più piccolo, dallo sguardo più concentrato. Le canzoni sembrano quasi delle pagine di diario scritte da una singola persona. Uso un linguaggio più diretto, ma al contempo mi piace sempre di più utilizzare un linguaggio poetico, associativo. Scusa se l'ho presa così larga per risponderti! Beast Epic è un disco davvero rilassato, mentre Ghost on Ghost era un po' schizofrenico. E c'è un verso, in "Claim Your Ghost", che mi sembra rappresenti bene il modo in cui ti poni adesso: "La nostra musica è maldestra e libera".
Mi piace come interpretazione! Ci sta, era quello che mi ero prefissato di fare con questo album. Ghost on Ghost è nato perché avevo incontrato tante persone di talento, e ho voluto fare un album che non sarei riuscito a fare da solo. L'opposto più totale di The Creek Drank the Cradle. È un disco complicato, e figo, mentre qua volevo essere maldestro e libero, mostrare il lato umano della mia espressione musicale. Che non è pulito: non siamo puliti, abbiamo talenti e qualità uniche ma siamo sporchi e imperfetti. Mi piace celebrare alcune delle nostre anti-qualità. C'è un certo senso dolceamaro simile a quello che hai tenuto fino a Our Endless Numbered Days. Tipo, "Last Night" è un pezzo stramelodico in cui però dici, "È l'ultima notte in cui potremo dormire tra queste braccia". Come fai a gestire questa contrapposizione tra atmosfera e parola?
Non saprei, non è una cosa che devo creare. Sono momenti che colgo dalla vita. Non che siano tutti pezzi autobiografici, ma sono quei momenti senza tempo che mi fanno venire voglia di scrivere canzoni. Capisci? Non prendi uno scenario e lo crei da zero inserendoci emozioni, parti direttamente dai momenti drammatici. I momenti più potenti, per me, sono quelli che contengono entrambi i lati dell'esperienza. Quelli più dolci perché sono amari, e più amari perché sono dolci.

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In fondo, quella che fai è musica folk. E il folk americano ha dei topoi classici, sia a punto di vista musicale che lirico. Lungo la tua carriera, però, tu hai costruito un tuo campionario di topoi: la religione, la natura, gli uccelli, gli alberi, i fiumi, il mare, l'amore…
Molti uccelli, soprattutto! [Ride] Ha! Volevo chiederti, che cosa dell'immaginario folk tradizionale e dei suoi topoi ti ha fatto avvicinare al genere? E col senno di poi, come ti sei costruito il tuo personale immaginario folk?
Non so resistere alle melodie. Adoro le melodie folk, le ballate tradizionali… mi piacciono, non so che farci! A parte le immagini stereotipiche che hai citato, credo che la forma folk si presti molto di più a raccontare storie, mentre le forme moderne tendono a essere più impressionistiche. Il folk è innatamente narrativo, non devi metterci dentro una storia. Per quanto riguarda i miei luoghi comuni: leggo tanta poesia, e molte delle mie poesie preferite hanno dentro parole attive, persone che fanno cose, ma possono anche essere solo semplici descrizioni di oggetti, cose fisiche che puoi toccare e hanno un peso emotivo a cui puoi reagire. Prendi gli uccelli: siamo gelosi del loro volo. Oppure, sono fragili e leggeri mentre noi forti e pesanti. Sono immagini cariche di significato. E poi è tutto semplice reazione: non vado in giro in cerca di metafore, mi vengono e basta!

Da ascoltatore, ti posso dire che è bello ritrovare certe piccole cose "tue" all'interno di ogni tuo nuovo album.
Sì! Mi prendono in giro un sacco per gli uccelli, sai? Ha! Ma è ok. Ci sono volte in cui prendo sul serio il modo in cui mi ripeto, ma in fondo il mio pittore preferito non fa che ripetere lo stesso ritratto ancora e ancora con leggere variazioni. Mi arrendo e basta.

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Ti volevo chiedere qualcosa di "The Trapeze Swinger", che è uno dei pezzi più amati dal tuo pubblico—me compreso—nonostante sia una b-side. Come ti sono venute in mente le immagini che la compongono? E come la percepisci all'interno della tua opera?
Bé, è così lunga e continuativa, tocca così tante cose per poi tornare nel punto in cui era cominciata, che sono anni che mi diverto a suonarla dal vivo. Anche solo per la sua dimensione, la sua portata. Non so bene come mi è venuta in mente, è stato il primo pezzo che ho mai scritto sotto commissione. Esisteva già sotto forma di appunti e idee, ma poi arrivò Paul Weitz, che mi chiese di scrivere un pezzo per il film a cui stava lavorando, In Good Company. Mi diede il copione e mi spiegò i temi del film, ma senza dare una forma definita all'opera. Erano tutte cose che potevi rilavorare basandoti sulla tua esperienza. Ho solo lasciato vagare la mia mente, non ricordo da dove ho preso tutte quelle immagini… parte del tutto nasce dal fatto che ero in un hotel, ricordo, in una stanza a un piano in altissimo. Si può dire praticamente di ogni canzone, ma credo che il potere di "The Trapeze Swinger" sia la sua universalità.
È molto aperta. Devi essere onesto con te stesso su quello che ti piace e ti interessa, e troverai altre persone con cui condividere il tutto. Perché non siamo così diversi, in fondo. Le nostre esperienze sono diverse, ma all'interno funzioniamo spesso allo stesso modo. Abbiamo tutti dentro la stessa pappa emotiva. Parlando di canzoni lunghe, comunque: è come se avessi un oggetto, lo guardassi da un'angolazione, poi da un'altra e così via, finché non diventa qualcosa di diverso. Continui e continui ad andare avanti a suonarla, e se la gente ha abbastanza voglia da restare lì a sentirti la canzone comincia a ripiegarsi su se stessa, ad assomigliare più a una conversazione. Comunque, morale: mi piacciono le canzoni lunghe! Ho dei pezzi così lunghi che mi fanno prendere male quando devo memorizzarli, ma allo stesso tempo è davvero delizioso poter continuare e continuare a suonare. Dopo aver fatto un album con Ben Bridwell dei Band of Horses e uno con Jesca Hoop hai buttato fuori tutto il bisogno di collaborazioni che avevi? Che cosa ti hanno lasciato le due esperienze?
Molto! Entrambi sono stati rapporti che mi hanno dato molto. Non posso parlare per loro, ma insomma, mi sono divertito! Con Ben è stato tutto molto nostalgico. Siamo cresciuti nella stessa città e siamo amici da una vita, e quindi sono anni e anni che ci troviamo, parliamo di musica e ascoltiamo dischi insieme. A un certo punto è diventato un modo per lavorare insieme, e registrare. Suonare con Jesca invece è stato particolare perché non avevo mai davvero collaborato con qualcuno—cioè, non avevo mai condiviso il processo di scrittura insieme a qualcuno. Ho dovuto imparare a lasciar perdere il controllo. Entrambi ammiravamo quello che facevamo a livello individuale, ma ci è voluto un po' per aprirci e abbassare la guardia. È stato davvero gratificante.

Iron & Wine suonerà all'Alcatraz di Milano il 5 febbraio 2018. Acquista i biglietti su BookingShow.

Elia è su Instagram e ha tradotto qualche album di Iron & Wine. Segui Noisey su Instagram e Facebook

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