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Cos'ho imparato facendo la supplente al liceo

Mi presentavo a scuola coi postumi di una sbronza, mandavo i ragazzi a comprarmi il caffè e i miei studenti potevano fare quello che volevano. Ovviamente, ero la loro supplente preferita.

Era l'estate del 2004 e mi ero appena laureata in sceneggiatura; bevevo ed ero costantemente in ansia. Le mie possibilità di diventare una sceneggiatrice professionista erano pari a zero e la miscela tra la mia pigrizia profonda e la convinzione che fossi troppo brava per lavorare mi rendeva inadeguata per la maggior parte dei posti di lavoro. Con un'unica eccezione: la supplente. Quindi ho fatto la prova di abilitazione, un quiz che certifica la tua capacità di riconoscere simboli alfanumerici e usare una matita, e ho falsificato un paio di lettere di referenze. Con tutto ciò, più la fedina penale pulita e l'inconfondibile puzza di disperazione che avevo addosso, sono andata incontro al mio destino da supplente al comprensorio scolastico Beverly Hills Unified School District. O almeno, penso che mi abbiano assunto per le mie qualità e non per l'apparecchio fisso che mi avevano piazzato in bocca (è stata una brutta estate, sì).

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Il primo giorno della mia seconda volta al liceo è stato bellissimo: la colazione con i cereali, l'odore di deodorante e di mozziconi di sigaretta. Dovevo pagarmi l'affitto da sola e stavo scappando ai miei creditori da due mesi, e quando alle 7 di mattina è suonata la sveglia la musica rap sparata nelle casse mi ha tranquillizzato: mi sembrava mi fosse data la possibilità di camminare all'indietro sulla scala mobile della vita e di tornare a preoccuparmi della fine del trimestre o di piacere ai ragazzi carini.

Diverse volte in vita mia mi sono sentita una truffatrice, ma mai come quando sono entrata per la prima volta in una stanza piena di giovani menti acerbe e mi sono presentata come la loro nuova insegnante.

"Buongiorno a tutti, io sono Miss Barker." Miss Barker. Era orribile. "E voi ragazzi?" Un ragazzo ha alzato la testa dal telefono senza nessuna simpatia.

"Lei è la nostra insegnante?"

"Sì. Ok. Non parlate tutti insieme. Silenzio. Ho detto silenzio!"

"Quanti anni ha?"

"Sentite ragazzi, ora dovete guardare questo video e prendere appunti. Ok? Ragazzi? Per favore?"

Due ragazze in ultima fila si sono stancate di parlare di chi aveva fatto un pompino a chi durante il fine settimana. Una di loro mi ha guardato quasi per caso. "Posso ascoltare l'iPod?"

Ci ho pensato un attimo. Gli iPod sono senza dubbio nella lista delle cose vietate a scuola.

"Certo. Ma se entra un altro adulto, sappi che mentirò e gli dirò che non ti ho dato il permesso."

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"Sul serio? Grande!"

"Possiamo ascoltare la musica quindi?"

"Boh, fate voi," ho detto alzando le spalle e cercando di fargli capire che ero anch'io una ragazzina con solo quattro anni in più.

"Grande!"

Al che, tutti e 30 si sono ammutoliti e hanno tirato fuori le cuffie. È stato allora che ho imparato la regola fondamentale di qualsiasi supplenza: lasciare che i ragazzi facciano quello che vogliono. Meno sforzo ci avrei messo, più alti sarebbero stati i miei indici di gradimento. Ho capito subito che era il lavoro perfetto per me.

Non ci è voluto molto prima che diventassi la supplente più amata della scuola. Ogni volta che passavo nell'atrio venivo salutata con cinque alti degli studenti e paternali da parte degli altri docenti, che sentivano il bisogno di dirmi che forse "mi sarei dovuta coprire," perché il codice di abbigliamento non contemplava l'ombelico in vista.

Finché non lo sono diventata io stessa, non ricordavo che miracolo fossero i supplenti. Quel nome sulla lavagna, quei video inutili, significavano solo una cosa: che le risposte delle verifiche potevano essere rubate dalla cattedra. I permessi per andare in bagno erano in realtà permessi di passare il pomeriggio a fumare erba nel parcheggio. Avevo appena finito la scuola e ci ero già tornata in veste di angelo misericordioso. Per loro, ero un sollievo. La mia presenza significava che non ci sarebbero state né lezioni né test. Ci sarebbero stati solo sonnellini e gite al bagno da 45 minuti. Al di fuori delle mura di quella vuota istituzione ero solo l'ennesima email che un agente avrebbe ignorato, un'adulta con l'apparecchio, una che andava ai corsi di improvvisazione senza alcun risultato. Lì invece con un solo cenno del capo ottenevo ragazzi in ginocchio per la gratitudine.

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Questo lavoro mi ha anche permesso di avere molto tempo libero. Ho letto molti classici. Ho scritto una sceneggiatura. Ho dato il permesso ai ragazzi di andare al bar fuori dal comprensorio durante le lezioni, a patto che quegli stronzetti mi portassero il caffè. Sono finita, per l'ennesima volta, nell'ufficio del preside, per sentirmi dire che "forse mi sarei dovuta coprire un po' di più." Ho guardato Il Re Leone in spagnolo milioni di volte. Ho rubato merendine dalla scrivania di uno sconosciuto. Sono riuscita a smaltire i postumi delle sbronze infrasettimanali dormendo durante gli intervalli e le ore buche.

Una volta, nel disperato tentativo di recuperare i soldi che avevo speso per partecipare a un "evento di networking nel mondo dello spettacolo" ho accettato una supplenza, richiestami per telefono mentre ero completamente sbronza. (Lo so. È assurdo pagare per andare a un evento di networking.) Ero collassata sul divano di un mio amico ed ero stata risvegliata dallo squillo del telefono. Ho riconosciuto subito il numero della scuola. Per fortuna ero ancora così ubriaca che, anche volendo, non sarei mai riuscita ad arrivare a scuola. Mi sono alzata, ho vomitato, ho chiesto al mio amico di darmi un antidolorifico e ho chiamato un taxi.

Sono arrivata con mezz'ora di ritardo, con lo stesso vestito e i tacchi a spillo della sera prima. Le ciglia finte mi bloccavano la visuale e trasudavo vodka da tutti i pori. L'antidolorifico stava facendo effetto, ma di sicuro non mi rendeva più sobria. Mi sono inumidita le labbra, ho tirato un po' più giù il vestito cortissimo e mi sono diretta all'ufficio del preside a chiedere le chiavi del mio armadietto. Sorprendentemente, nessuno ha avuto da ridire su come ero vestita.

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Quando sono entrata in classe, i ragazzi si sono messi ad applaudire e fischiare. "Che sexy, Miss Barker. Fa la modella?"

"Smettetela," ho detto. Ero talmente sbronza da non essere in vena di complimenti. "Ragazzi, ieri sera ho bevuto troppo."

Silenzio. Non avrei dovuto dirlo.

"Nessun problema, Miss Barker. Adesso, fate poco casino," ha detto Anthony, che si portava perennemente addosso l'odore di marijuana.

Per il resto dell'ora, rispettosi della mia apparente intossicazione da alcol, tutti i ragazzi sono stati silenziosissimi. La gente parla sempre male degli adolescenti, ma se ti metti al loro livello sono molto gentili.

Ma nelle supplenze, proprio come nella vita, quando inizi a metterti comodo—quando hai scoperto che puoi presentarti al lavoro con i postumi di una sbronza senza essere licenziata—arriva la fregatura.

Un giorno, durante una lezione di storia in cui dovevo fare da supplente, è risuonato un annuncio all'interfono. "Studenti, attenzione. L'agente Dixon e la sua unità K-9 stanno svolgendo un'ispezione nel parcheggio B." La voce è svanita, ma io sono entrata nel panico. Ho deglutito. Parcheggio B. Avevo parcheggiato nel parcheggio B. L'unità K-9? Ho passato mentalmente in rassegna i sedili della mia macchina, coperti di immondizia: bicchieri vuoti di una settimana prima, top sportivi ammuffiti, resti di marijuana incastrati in ogni interstizio e cucitura. Ho scrutato la classe alla ricerca del ragazzo con l'aria più sveglia.

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"Ehi. Tu. Jude?"

Jude, un ragazzo dell'ultimo anno con la barba e la maglietta di una catena di ristoranti, si è avvicinato alla cattedra.

"Ci sono cani antidroga?" gli ho chiesto tra i denti.

"Sì. Adesso pure l'ispezione. Che ridere."

Era esattamente la risposta che speravo.

"Jude. Ho bisogno che mi sposti la macchina." Ho visto i suoi occhi spalancarsi e le sopracciglia corrucciarsi. Gli ho dato le chiavi e il mio badge. Avrebbero dovuto metterci una foto, su quei badge. Ho scarabocchiato il mio numero di telefono sul retro di un foglietto e gli ho detto che poteva andare al bar, e di mandarmi un messaggio quando era fuori dal campus. Nel corso dei successivi cinque minuti, ho spostato lo sguardo avanti e indietro tra l'orologio a muro e il cellulare. Mi ero già immaginata l'imminente arresto. Alla fine il mio telefono ha vibrato, e un magico "Ok" è comparso sullo schermo.

Davvero, sta tutto nel fidarsi dei ragazzi, loro fanno sempre la cosa giusta.

Dopo quattro anni di supplenze, ero così popolare che non potevo attraversare l'atrio senza che qualcuno mi fermasse per dirmi che ero la sua supplente preferita. I veri professori mi chiamavano regolarmente per le supplenze perché mi reputavano la migliore. Spesso, quando mi imbattevo in un gruppetto di ragazzi che fumava una canna in bella vista, quelli si immobilizzavano ed entravano nel panico. Poi arrivava il consueto: "Oh, è Miss Barker. Tutto a posto." Le superiori mi erano piaciute già la prima volta, ma la seconda, con uno stipendio e senza i compiti a casa, mi piacevano davvero—ed era questo il problema.

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Una mattina, mentre ascoltavo i Beatles e disegnavo a caso durante una lezione di arte, una delle ragazze mi ha messo all'angolo con una delle domande più deprimenti che mi siano mai state poste: "Miss Barker, farà per sempre la supplente?" La cosa peggiore era che stava sorridendo. Come se fosse felice per me. Mi si sono riempiti gli occhi di lacrime.

Non appena ho deciso di licenziarmi, mi è stato offerto un posto come supplente di un'insegnate di danza per due mesi. Il mio ufficio stava di fianco a quello dell'allenatrice delle cheerleader, e venivo pagata per inventare coreografie su pezzi di Pink. Il perfetto canto del cigno. Due delle mie classi erano frequentate da veri ballerini che penso fossero piuttosto risentiti dalla mia assenza di qualifiche (è quello che mi è parso di capire dagli occhi spesso alzati al cielo e dai commenti sprezzanti tipo, "Questo non è hip-hop"). I miei preferiti, però, erano quelli dell'ultimo anno—un gruppetto di scarsoni che si erano chiaramente iscritti a danza perché erano risultati insufficienti in educazione fisica e avevano bisogno dei crediti per diplomarsi.

Il primo giorno ho chiesto che si sedessero in silenzio. "Ragazzi. Sentite. Sarò la vostra insegnante per tutto il semestre, quindi giusto perché lo sappiate, darò a tutti pieni voti. Se volete, date il massimo. Se non volete, fa niente." Hanno cominciato a scambiarsi occhiate incredule.

Quel momento, le loro 30 facce di scarsi che risplendono di gioia: mi sono sentita benissimo. C'è una cosa che va detta sull'unire atti di gentilezza gratuita e pura negligenza. Il mondo è pieno di gran lavoratori che seguono le regole e che, con i loro disperati tentavi di fare la cosa giusta, ti impediscono di divertirti. E io sono felice di avere avuto, per quattro anni, la possibilità di bilanciarli, perché tutti abbiamo bisogno di una pausa ogni tanto, anche noi alcolisti con l'apparecchio.

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